Il vino di Ferdinando di Borbone

Angelo Forgione Prosegue il rilancio del Pallagrello, il vino tanto amato da Re Ferdinando di Borbone, scomparso gradualmente nel Novecento per lo spopolamento delle terre casertane e per l’attacco parrassitario ma riscoperto con buon successo dagli anni Novanta. Ora, all’etichetta “OroRe Bianco” di Tenuta Fontana, si affianca la “OroRe Nero“, il Pallagrello Nero IGT della Vigna di San Silvestro, sulle colline casertane, appartenente alla Reggia di Caserta.

Al tempo di Ferdinando, questi vini erano detti “Pallarelli“, nome derivante dalla sfericità degli acini d’uva “Pallarella”, da cui erano ottenuti, e la denominazione originaria era “Piedimonte“, traendo il nome dalla località pedemontana del Matese in cui originavano, nella provincia di Terra di Lavoro, che nel Dizionario geografico portatile, una pubblicazione veneta del 1757, era elogiata esattamente per il suo superior vino:

“Piedemonte, […] I vini di questa contrada sono eccellenti, così bianchi, come rossi, e sono de’ migliori del Regno così per la loro qualità, e natura, come per la grata sensazione, che risvegliano nel palato. Vanno sotto il nome di Pallarelli, e sono stimatissimi ne’ pranzi. […]”

Il Re li aveva selezionati con fierezza, facendoli servire alla tavola reale e a quelle nobiliari insieme ai già rinomati francesi, e donandone bottiglie ai diplomatici e ai plenipotenziari stranieri. Nel 1775, fece addirittura apporre presso una prosperosa vigna di un’epigrafe recante un bando emesso dal tribunale di Napoli per impedire ai non autorizzati di attraversarla e sottrarre la preziosa uva Pallarella. L’epigrafe è ancora lì, in località Monticello, sulla via per il Matese (foto), a rinfrescare la memoria su quella che fu la gran tutela della Pallarella da parte di Re Ferdinando, attentissimo alle innovazioni in ambito tecnico-agronomico e attore protagonista di una grande rivoluzione agricola operata nel secondo Settecento, quando i vini campani erano considerati i migliori d’Italia, il Lacryma Christi godeva di gran fama e il Barolo delle Langhe neanche esisteva. Il pregiato piemontese sarebbe nato nel primo Ottocento, e lo avrebbe portato al successo Camillo Benso di Cavour, producendolo nel suo castello di Grinzane, paese di cui sarebbe stato sindaco dal 1832 al 1849, prima di andare a Torino e diventare ministro dell’agricoltura del Regno di Sardegna e poi primo ministro.

Oggi tocca alla Campania rincorrere, ma la riscoperta dei vini “Pallarelli” è un segnale di vivacità e di crescita dell’offerta, anche se i meritori sforzi non bastano per raggiungere le smisurate fortune internazionali del Prosecco veneto, il vino italiano più bevuto nel mondo, frutto di una monocoltura invasiva nei territori di origine, e nemmeno l’eccezionale notorietà mondiale del pregiato Barolo piemontese. Tocca al Taurasi DOCG irpino, tra i campani quello che invecchia più a lungo e meglio, fare da apripista alla rincorsa della Campania, la culla dei vini italiani, almeno alle non lontane vette qualitative. Poi si tratterà di fare buona comunicazione, perché è inaccettabile che, nonostante i sommelier italiani siano consapevoli dell’ottima qualità dei vini campani e della loro crescita qualitativa negli ultimi dieci anni, un consumatore italiano su due non li conosce.


La storia del vino, dai Greci a oggi, la leggete su Napoli svelata (Angelo Forgione, Magenes, 2022).

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