Angelo Forgione – 30 anni sono tanti nel percorso di vita di un uomo, e anche di un football club. Tanti ne sono trascorsi dal giorno in cui Napoli impazzì di gioia, da quel pomeriggio marchiato a fuoco nella memoria di chi c’era e nei desideri di chi ancora non era nato. È facile, fin troppo, descrivere una città imbandierata, tinta d’azzurro in ogni angolo, ma chi non l’ha vista coi suoi occhi non può capire né quel giorno né l’atmosfera di euforia collettiva dell’assolata vigilia, di quel sabato del villaggio partenopeo che anticipò l’apotesi.
Qui non si tratta di festeggiare, sarebbe minuscolo, ma di raccontare ai più giovani, perché quello scudetto fu il primo per Napoli e uno dei pochissimi del Sud. Non poteva rappresentare lo spostamento definitivo di un asse, la rivoluzione geocalcistica. Fu un’eccezione, di quelle che confermavano la regola non scritta, alla quale non sfugge neanche il Napoli dei record di oggi.
Qualcuno, dalle stanze dei bottoni della politica, aveva spinto un marziano riccioluto da Barcellona a Napoli, ad allietare una città piegata dal terremoto, dalla cassa integrazione nelle acciaierie di Bagnoli, dalla disoccupazione dilagante e dall’inarginata espansione camorristica degli anni Ottanta. Altrove si respirava la spensieratezza, il lavoro nelle fabbriche del “triangolo”, la “Milano da bere” dei paninari cantanti persino dal synth-pop britannico dei Pet Shop Boys. Ma il Genio del calcio era all’ombra del Vesuvio, ignaro del perché fosse finito nella periferia del calcio europeo; e rese Napoli capitale del football in Italia e in Europa.
Dietro quello scudetto si celavano molteplici significati, ma preferisco indugiare sulle parole con cui l’equanime Sandro Ciotti, romano, descrisse quel trionfo:
«Questo è lo Scudetto della parte romantica di ognuno di noi, nella quale Napoli ha un ruolo, come evocazione di spirito, di umanità di filosofia, di tenacia. Questa disponibilità all’arte, questa disponibilità ad apprezzare tutto quello che è bello e spiritoso è indubbiamente caratteristico della città di Napoli, e perciò è lo Scudetto veramente più popolare che sia mai stato conquistato».
Ecco, appunto, lo scudetto della squadra del cuore di un popolo, quello più identitario d’Italia, il napoletano, capace però di travolgere tutti. E infatti fu l’unico della storia al quale la Rai dedicò una festa-spettacolo, in prima serata e sulla rete ammiraglia. Lo condusse il torinese e torinista Gianni Minà, e non gli riuscì difficile, benché velocemente improvvisato. Basto metterci dentro la napoletanità per riempirlo di suoni, colori ed emozioni. No, non fu una festa come le altre.
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