––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione — Il Napoli vola, e raccoglie i frutti di una virtuosa e corretta gestione aziendale. Lo fa proprio nella stagione iniziata con l’apice di una contestazione alla Proprietà che viene da lontano, e che si è spenta in men che non si dica solo grazie a una dirigenza che ha retto al clima irrespirabile creato da un mix velenoso di miopia e antipatia, e ha operato secondo i propri dettami.
Nel mio libro Dov’è la Vittoria, qualche anno fa, ho chiarito con la storia e con i fatti che il calcio del Sud non può competere con quello del Nord per le sperequazioni territoriali di diverso genere, ma ho anche avvertito che qualche eccezione può riuscire a mettere i bastoni tra le ruote alle big di Milano e Torino: “in una Serie A poco attraente e senza più mecenatismo, dove ci si indebita facilmente, le variabili sane sono la competenza manageriale e i conti in ordine. Fattori che potrebbero consentire almeno alla coppia Napoli-Roma di ridurre le distanze dalle tre grandi del Nord”. Il Napoli ci sta riuscendo, e ora, con i guai delle finanze altrui, si propone addirittura come punta di diamante del calcio italiano. La sfida, a questo punto, è reggere. Questo Napoli può farlo, perché è guidato da una Proprietà che assicura una solidità mai garantita prima al club nella sua centenaria storia.
Il dato di fatto è essenziale: lo scudetto all’orizzonte e gli schiusi scenari internazionali non peseranno sulla sussistenza futura del club, così come avvenuto alla Roma e alla Lazio degli anni giubilari, salvate dal fallimento con il decreto “spalma-debiti”, e allo stesso Napoli di Maradona, non di Ferlaino, perché Ferlaino si ritrovò D10S su un vassoio d’argento e, per trattenerlo, dovette poi assecondarne le logiche ambizioni, obbligato a spendere più di quanto entrasse in cassa, così decretando consapevolmente gli affanni successivi e il fallimento del club per i debiti accumulati con l’insostenibile sforzo. Paragonare Ferlaino, vincente per perversa inerzia, a De Laurentiis, basandosi sui trionfi maradoniani dettati da condizioni storiche e ambientali che nulla avevano a che vedere con un progetto sano, è esercizio sbagliato almeno quanto contestare per antipatia un Presidente certamente stigmatizzabile per alcune esternazioni inopportune nei confronti della piazza ma non certo per capacità manageriali. De Laurentiis ha talvolta speso anche parole importanti per Napoli e la sua storia, quantunque i suoi detrattori rilancino solo quelle spiacevoli, spesso tirando fuori una frase su tutte, rivolta a un solo soggetto ma manipolata affinché diventasse il manifesto dell’irrispettosità nei confronti di tutti i napoletani. Malafede.
Da sempre fiducioso in questa proprietà illuminata, e incurante delle illazioni e degli attacchi ricevuti per questo, invito tutti a bandire le divisioni concettuali e a partecipare alla gioia del popolo ora che il Napoli vola, a patto che non si dimentichi poi di averlo fatto solo per festeggiare qualcosa di cui non si comprende il valore. Per vincere a Napoli è dovuto piovere dal cielo il più grande calciatore della storia del calcio. Questo Napoli non ha Maradona, e se vincerà sarà per progetto fruttifero, non per un caso. Sarebbe una grande impresa; rarissima per il Sud del calcio. Sostenere questa proprietà che prova a volare a Istanbul piuttosto che a Bari, badando alla missione sportiva e abbandonando volgarità e basse pulsioni da ventre molle, significava e significa capire il calcio italiano e, soprattutto, la dimensione del Napoli, attualmente ingrandita. Cioè, significa maturare come tifoseria. E lo dico da napoletano che da anni divulga la napoletanità con comprovata passione e conoscenza ma senza lacci e interessi di sorta.
Ne ho discusso a Campania Sport (Canale 21), partendo da un chiarissimo e condivisibile editoriale di Umberto Chiariello, sintetizzato nel video.
Angelo Forgione –«Terrone di m…», urla a un giornalista napoletano un tifoso del Milan della provincia umbra di Terni, tutt’altro che settentrionale, all’esterno dello stadio Meazza del capoluogo lombardo. Spaccato di un’Italia calcistica in cui, oltre a certa ideologia imperante in alcune tifoserie storicamente e dichiaratamente razziste, troppo spesso l’astio verso i napoletani risponde a un fastidio avvertito da gente del Centro-Sud che tifa per le grandi squadre del Nord. Diventare tifosi di Juventus, Inter e Milan da bambini perché provenienti da territori le cui squadre sono impossibilitate a lottare per il vertice, e rendersi conto che il Napoli è l’unico club del Mezzogiorno capace di fronteggiare le nobili strisciate settentrionali, produce una sorta di invidia che si esprime con manifestazioni discriminatorie, tanto più violente quanto più è competitivo il Napoli. Picchi storici negli anni maradoniani e in quelli correnti, non a caso i due periodi più floridi della storia Azzurra. Perché più l’unico grande club del Sud dà fastidio a quelli del Nord e più il razzismo nei confronti dei suoi tifosi cresce, non solo al Settentrione.
In una questione meridionale che coinvolge anche lo sport, il Napoli, l’unica espressione meridionale del calcio metropolitano, è la quarta potenza d’Italia per bacino d’utenzae, di fatto, la squadra di calcio più titolata del Mezzogiorno, sia a livello nazionale che internazionale. Dietro, al Sud, vi è un sostanziale vuoto. Per trovare la prima concorrente per prossimità territoriale, bisogna salire di duecento chilometri, a Roma, città della quinta e della sesta potenza della Penisola calcistica. Ma il Napoli è pur sempre il club di Maradona, il calciatore più forte di tutti i tempi, un preziosissimo patrimonio in termini di notorietà e blasone che va oltre la non troppo ricca bacheca del club. Ed è proprio per sua “colpa” che in Italia pronunciamo la definizione di “discriminazione territoriale” per indicare in modo mascherato il razzismo di un territorio verso un altro, che però, senza girarci troppo intorno, è manifestazione di intolleranza nei confronti dei napoletani.
Con l’avvento del Fascismo, le differenze tra Nord e Sud furono celate dal Nazionalismo mussoliniano, ma la proclamazione delle Leggi razziali, ispirate dal Manifesto degli Scienziati razzisti, più noto come “Manifesto della razza”, condusse alla subdola rielaborazione del concetto di superiorità etnica interna. La visione dei colonizzati d’Africa si sovrappose al modo in cui erano stati considerati i meridionali nel periodo postunitario. Tripoli, Mogadiscio e Addis Abeba vennero trattate come lo erano state Napoli e Palermo nel periodo risorgimentale, e i metodi di repressione delle rivolte coloniali furono formulati sul modello della lotta al brigantaggio, tant’è che la rivolta anticoloniale in Libia degli anni Venti fu gestita col ricorso agli stati di assedio, alla Giustizia militare e alle pene capitali, ovvero ricalcando la Legge Pica del 1863.
Nel Dopoguerra, le popolazioni del Sud si spostarono in massa nel “triangolo industriale”, trovando cartelli del tipo “Non si fitta ai meridionali”, e divennero per i torinesi “i tarún” e per i milanesi “i terun”, ma anche “i mau-mau”, appellativo mutuato dal nome della comunità kenyana ribellatisi al dominio coloniale britannico. E poi “i nàpuli”, appellativo ingiurioso piemontese poi tradotto in “nàpoli” e inserito in forma spregiativa nei moderni vocabolari di lingua italiana.
Il Calcio, divenuto grande passione delle domeniche degli italiani, non rimase immune da certe manifestazioni. Il razzismo, negli stadi, si affacciò negli anni Sessanta, in concomitanza con l’arrivo in Italia di calciatori di pelle nera, costretti ad ascoltare le prime offese da parte dei tifosi del Nord. E il Cagliari in vetta alla classifica nel campionato del 1970, poi vinto, veniva accolto a Milano e a Torino al grido di «banditi» e «pecorai». Nessuno sapeva che la proprietà del club, nell’ombra, era dei lombardi Angelo Moratti e Nino Rovelli, bisognosi di fare affari in quella terra per realizzare i loro impianti petrolchimici.
Sulla scia del colera del 1973 che colpì violentemente Napoli, ma anche Cagliari, Bari e altre città del Sud, nacquero i cori discriminatori contro i napoletani. Storia chiarita, quella del colera, esploso con la distribuzione di cozze infette di provenienza tunisina durante un’epidemia partita dodici anni prima dall’Indonesia e in quel periodo transitante nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 ed è in circolo ancora oggi. La scorretta informazione italiana colpevolizzò Napoli, con conseguenze pesantissime sul turismo e sulla condizione socio-economica della città.
Le autorità sanitarie della Regione Liguria disposero che il Napoli non dovesse recarsi a Genova per il match di Coppa Italia Genoa-Napoli del 16 settembre, temendo che potesse diffondere il vibrione sul territorio, contrariamente al parere delle autorità sanitarie campane. Fu decisa l’inversione del campo, ma i calciatori del Genoa si rifiutarono di recarsi a Napoli, e non partirono, accettando lo 0-2 a tavolino. Un mese più tardi, una volta che l’OMS ebbe dichiarato la conclusione dell’emergenza a Napoli (dopo solo un mese e mezzo, altrove proseguì ancora lungo), i genoani andarono a disputare un’amichevole di riconciliazione nel capoluogo campano. Ma da quel momento, in ogni stadio del Nord, il Napoli fu accolto al grido di «co-le-ra, co-le-ra», un’etichetta immeritata per un popolo che aveva dato prova di grande compostezza nella più imponente operazione di profilassi del dopoguerra.
Trascorsero sedici anni prima che la FIGC introducesse le sanzioni per “discriminazione territoriale”, entrata ufficialmente nel codice di giustizia sportiva nell’autunno del1989, in piena epoca maradoniana, cioè di Napoli vincente, come mai era avvenuto prima di allora. Gli Azzurri, tre anni prima, avevano iniziato a spadroneggiare con le milanesi grazie al più forte calciatore del mondo. Tanta la paura e la rabbia per quei miserabili del Sud che si erano presi quello che era sempre “spettato” al Nord, lo scudetto, e minacciavano di rifarlo ancora dopo aver trionfato anche in Europa.
Vinto il primo Tricolore, a Torino era stato esposto una scritta infame: “Napoli campione oltraggio alla Nazione”. La sera del 17 maggio 1987, dagli schermi di Rai Uno per Notte per uno scudetto, uno show celebrativo del primo tricolore, l’ottimo Gianni Minà, torinese, aveva finto di intervistare un sorridente Massimo Troisi, napoletano, ricordandogli che al Nord erano comparsi striscioni del tipo “siete i campioni del Nord Africa”, e che evidentemente l’unità d’Italia non fosse mai avvenuta. Il compianto attore di San Giorgio a Cremano, in tempo di apartheid e di propaganda leghista, aveva risposto alla sua maniera: «Io, intanto, sinceramente, preferisco essere un campione del Nord Africa piuttosto che mettermi a fare striscioni da Sud Africa».
La consacrazione della “discriminazione territoriale”, ovvero il razzismo tra italiani negli stadi, avvenne dopo il match Roma-Napoli (1-1) dell’8 ottobre 1989 allo stadio Flaminio, con l’Olimpico in rifacimento per i Mondiali previsti in Italia a fine stagione. Match tra un Napoli in testa alla classifica e una Roma quarta che avrebbe potuto agganciarlo, in uno stadio piccolo e strapieno. Venticinquemila spettatori di cui tremila napoletani, e diretta televisiva, insolita per l’epoca, irradiata eccezionalmente nelle province di Roma e di Napoli per motivi di ordine pubblico. Tensione forte all’esterno dello stadio tra le due tifoserie e “botte” in campo tra le due squadre. Persino Maradona, sempre estremamente corretto in campo, a fine primo tempo era entrato pericolosamente sulle caviglie del romanista Desideri, autocensurandosi nel dopopartita. Durante il match, i tifosi della Roma avevano più volte ricordato ai napoletani di essere colerosi e terremotati e di non usare il sapone per eliminare la loro puzza. E poi le invocazioni al Vesuvio, scioccanti in quel periodo storico, anche perché fino a qualche anno prima, tra romanisti e napoletani, era stato celebrato un meraviglioso gemellaggio, interrotto proprio quando il Napoli aveva preso il posto della Roma nella contesa dello scudetto contro Juve, Milan e Inter. Parallelamente alla crescita del club partenopeo era cresciuta l’aggressione verbale verso i suoi tifosi negli striscioni e nei cori, non più prerogativa esclusiva di certi stadi del Nord.
La colpa dei romanisti, in quella domenica d’autunno del 1989, fu quella di aver discriminato i napoletani esattamente il giorno dopo una storica marcia antirazzista per le strade della Capitale, la prima grande manifestazione nazionale contro il razzismo in Italia, promossa dopo l’omicidio dell’immigrato Jerry Masslo avvenuto la sera del 24 agosto 1989. Il bracciante sudafricano, prima di essere ucciso durante una rapina ai danni di un gruppo di una trentina di conterranei, aveva denunciato il razzismo degli italiani in un’intervista, avvisando che prima o poi qualcuno dei suoi sarebbe stato ammazzato. Quel delitto aveva scosso l’opinione pubblica, facendo scoprire agli italiani di essere razzisti, e aveva messo in moto il meccanismo per l’organizzazione dell’epocale manifestazione con duecentomila partecipanti nelle strade di Roma, alla quale, come atto di protesta verso le espressioni di discriminazione che si verificavano in molti stadi, avevano aderito formalmente anche i calciatori del Napoli, del Milan e dell’Inter, oltre al sindacato dei calciatori. Che imbarazzo per la Federcalcio: la capitale d’Italia a gridare no al razzismo il sabato e a invocare il Vesuvio la domenica. E così fu immediatamente introdotta la “discriminazione territoriale” tra i motivi di provvedimento disciplinare nel Codice di Giustizia sportiva. Sanzioni pecuniarie qua e la fino al termine del campionato, vinto sul turbolento finale dal Napoli di Maradona sul Milan di Sacchi. Il fuoriclasse argentino dovette difendere proprio negli stadi italiani, e da campione d’Italia con il Napoli, il titolo mondiale dell’Albiceleste vinto in Messico quattro anni prima. All’esordio contro il Camerun, nello stadio dei rivali milanisti e interisti, il tifo fu tutto per i “leoni indomabili”, vincitori a sorpresa per 1 a 0. Dopo i fischi all’inno argentino e il sostegno agli africani, Diego si rifece in sala stampa con sarcasmo pungente: «L’unico piacere di questo pomeriggio è stato scoprire che, grazie a me, gli italiani di Milano hanno smesso di essere razzisti: oggi, per la prima volta, hanno fatto il tifo per degli africani».
Malcostume bandito nelle successive due partite, perché giocate a Napoli, ovvero in casa. I fischi all’inno argentino ripresero a Torino, per il derby sudamericano vinto contro il Brasile, e a Firenze, per la sfida alla Jugoslavia vinta ai rigori. Alla semifinale di Napoli approdarono proprio la Nazionale di Maradona e l’Italia. Dieguito, colui che era scappato da Barcellona per il razzismo dei catalani nei confronti dei “sudaca” del Sudamerica, dopo anni di battaglie in campo per i “terroni” napoletani, alla vigilia dello scontro coi padroni di casa, lanciò un proclama agli italiani in cui racchiuse un acuto messaggio identitario: «Per 364 giorni su 365 chiamano “terroni” i napoletani, ma questa volta gli chiedono di essere italiani. L’Italia si ricorda che sono italiani solo quando devono sostenere la Nazionale, poi si dimentica di come li tratta».
Erano passati nove mesi dall’introduzione della “discriminazione territoriale”. La gente di Napoli apprezzò le parole dell’amatissimo avversario; molto meno gradì il resto d’Italia, che di certo non poteva guardarsi allo specchio per una partita della Nazionale di calcio. A guadagnarsi la finalissima fu l’Argentina, certamente per errori degli Azzurri, anche se il CT Vicini e qualche calciatore azzurro preferirono incolpare i napoletani sugli spalti. La tensione salì alle stelle nel ritiro dell’Argentina a Trigoria, storico quartier generale della Roma, antipasto della vendetta per quell’imbattibile ragazzo che faceva vincere il Napoli e l’Argentina. Nella notte della finale all’Olimpico contro la Germania Ovest tornarono più violenti che mai i fischi all’inno argentino, ai quali il capitano del Napoli rispose con un eloquente «hijos de puta» in mondovisione. Complice un rigore benevolo concesso ai tedeschi, tra cui alcuni romanisti e interisti, Diego dovette lasciare il trofeo agli avversari, tra incessanti fischi e amarissime lacrime. Ormai odiato in Italia e amato solo a Napoli, finì di fatto lì la sua parabola vincente e l’avventura nel Belpaese.
Il Napoli, nella stagione successiva, iniziò a declinare, trascinandosi lungamente verso il fallimento del 2004, al culmine di un decennio abbondante di affanni tra la Serie A e la B. Di pari passo, la discriminazione dei napoletani si assopì, per risvegliarsi esattamente quando il Napoli di De Laurentiis ritornò in Serie A. 6 ottobre 2007: a San Siro, i tifosi dell’Inter accolsero i tifosi partenopei scrivendo “Ciao colerosi”, “Napoli fogna d’Italia”, “Partenopei tubercolosi” su degli indecenti striscioni sparsi qua nel secondo anello della Curva Nord del Meazza. Accadde a quattro mesi dall’entrata in vigore del nuovo Codice di Giustizia sportiva, per il quale fu imposta per la prima volta la chiusura temporanea di un settore di stadio, nella fattispecie quello degli ultras interisti, per comportamento discriminatorio La prima storica proibizione per i tifosi, abbonati e non, colse tutti di sorpresa e riaprì un dibattito di fatto antico.
Il Napoli si riaffermò sempre più tra le grandi della Serie A e iniziò a proporsi persino come concorrente della Juventus, al principio dello storico ciclo-record dei Bianconeri. E perciò, il 22 ottobre 2012, durante il match Juventus-Napoli, andò in onda sulle frequenze piemontesi della Rai la grande vergogna del TG Regione Rai Piemonte. A partita da poco iniziata, fu mostrato un servizio firmato dal cronista Giampiero Amandola, recatosi ai cancelli dello stadio prima del match. I telespettatori piemontesi videro due giovani juventini urlare in coro «o Vesuvio lavali tu» nel microfono. Uno di loro spiegava poi che i napoletani erano inestinguibili perché «ovunque, a Nord e a Sud, un po’ come i cinesi», e il giornalista si univa allo squallore così: «Li distinguete dalla puzza, con grande signorilità». Compiaciuto, il tifoso rilanciava: «Molto elegantemente, certo!». Proprio chi scrive, allertato da una segnalazione giunta da uno sdegnato telespettatore, denunciò quanto era stato diffuso nei confini regionali del Piemonte, evitando che tutto restasse nei confini regionali e passasse in cavalleria. Il vergognoso servizio, posizionato sul web a futura memoria, accese l’indignazione napoletana e, divenendo immediatamente virale, divenne visibile all’Italia intera e oltre.
La Rai prese le distanze da ogni razzismo, scusandosi con l’allora sindaco di Napoli De Magistris, così come fece l’omologo Piero Fassino, e aprì un procedimento disciplinare per Giampiero Amandola, dopo aver diffuso in un’altra edizione del telegiornale regionale piemontese un duro comunicato stampa con cui condannò la condotta del suo dipendente e chiese scusa ai cittadini di Napoli ma anche a tutti gli italiani per l’inqualificabile servizio.
Uno scandalo enorme, sulla scia del quale, nella primavera del 2013, la FIGC, allertata dall’UEFA per la degenerazione degli eventi italiani, dovette recepirne le nuove direttive, diramate il 23 maggio attraverso l’adozione della risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo, con cui furono inasprite le pene per i casi associati agli eventi internazionali. L’organo calcistico europeo pretese altrettanta severità da ogni Federazione affiliata, chiedendo di impegnarsi per favorire l’adozione di identiche politiche sanzionatorie “in relazione alle manifestazioni nazionali”. Gli ispettori federali della FIGC furono chiamati a non tapparsi più le orecchie e a refertare tutti i cori di discriminazione territoriale. Dell’accanimento riversato sui napoletanine fece immediatamente le spese la curva del Milan, e poi quella della Juventus, della Roma, del Bologna e molte altre in sequenza continua.
L’allora amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, scese in campo a guidare la rivolta dei club contro le nuove norme, fino a ottenere la modifica all’applicazione della norma e introduzione da parte del Consiglio federale della cosiddetta “sospensione condizionale”, una sorta di ammonizione per le società, le cui pene sarebbero state congelate per un anno solare e applicate in modo cumulativo solo nel caso di una seconda violazione dei loro supporters nel periodo interessato. L’intento era evidentemente quello di ridurre il rischio di chiusura parziale degli stadi, col subdolo presupposto per il quale il Napoli sarebbe stato ospitato solo una volta l’anno da ciascuna società. I vertici del calcio non fecero bene i loro conti, perché la maleducazione dei tifosi più decisi a vincere il braccio di ferro, iniziò a manifestarsi anche in partite senza i partenopei di scena.
Ne venne fuori una denigrazione sistematica del popolo partenopeo per piegare la FIGC, un odio che nell’immediata vigilia della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina del 3 maggio 2014 a Roma toccò il suo drammatico picco ancora lì, all’esterno dello stadio Olimpico: durante un agguato premeditato a un torpedone dei tifosi napoletani zeppo di famiglie con bambini, il ventinovenne Ciro Esposito fu ferito a morte da un colpo di pistola sparato da Daniele De Santis, un ex militante della curva romanista appartenente ad ambienti di destra estrema, sostenitore di una squadra estranea alla partita da disputare. Non per una folle faida tra ultras, ma per il razzismo di stampo neofascista che aveva fatto della partita un pretesto per colpire Napoli e i napoletani.
Il drammatico accadimento spinse i vertici federali a tirare i remi in barca e dichiarare persa la battaglia di civiltà attorno alla discriminazione dei napoletani. Nell’estate 2014, irruppe sulla scena Carlo Tavecchio, presidente della Lega Nazionale Dilettanti e candidato alla presidenza della Federcalcio con immediata scivolata sulla buccia di banana del razzismo lasciata a terra dal fantomatico Optì Pobà. Nella corsa alla poltrona fu sostenuto da Adriano Galliani, l’uomo a capo della rivolta dei club contro la “discriminazione territoriale”. Nel programma elettorale spuntò la cancellazione delle chiusure dei settori degli stadi per responsabilità oggettiva, da convertire di nuovo in sanzioni pecuniarie. Tavecchio fu eletto presidente e da lì in poi si poté tornare a invocare il Vesuvio e a urlare contro i napoletani a pagamento delle società, a loro volta in silenzio e senza rivalersi sui colpevoli.
Bruciatosi il nuovo presidente federale in tema di lotta al razzismo per la gaffe che gli era costata la sospensione temporanea dall’attività internazionale da parte dell’UEFA prima e della FIFA poi, della finta battaglia alle discriminazioni se ne fece paladino Andrea Agnelli, per il quale la discriminazione territoriale era da considerarsi campanilismo facente parte della cultura italiana, e i cori contro Napoli “nostre peculiarità”. Il presidente della Juventus andò alla sede UNESCO di Parigi per presentare, nel novembre 2015, un’analisi del fenomeno razzista in cui la discriminazione territoriale veniva definita“forma tradizionali di insulto catartico”, cioè purificatorio, addirittura benefico per le folle. E da allora, con il Napoli sempre più stabilmente al vertice della Serie A, il Vesuvio è sempre più invitato a svegliarsi e a seminare distruzione e morte. Ma lui dorme e non da cenni di risveglio. Dorme il Vesuvio e dorme altrettanto profondamente l’Italia.
Per approfondimenti: Dov’è la Vittoria, (Angelo Forgione, Magenes, ed. 2022)
Breve estratto dallo speciale “Napoli Maradona”, la storia dei 7 anni di Maradona a Napoli, andato in onda il 13.09.22 su Al Mayadeen, uno dei canale satellitari d’informazione più seguiti nel mondo arabo, per il cui notiziario ho anche raccontato la storia di piazza del Plebiscito.
Angelo Forgione– Estate 1984: Maradona dal Barcellona al Napoli. La trattativa del secolo, la più impensabile della storia del calcio. Il club azzurro, quantunque sodalizio storico del calcio italiano, non aveva vinto sostanzialmente nulla e aveva appena evitato la retrocessione in Serie B. In pochissimi credettero che il più cristallino dei talenti del calcio mondiale potesse lasciare il ricco Barcellona per calarsi nell’anonimo Napoli di Ferlaino, che fin lì aveva oculatamente badato a tenere in ordine il bilancio sociale.
Quasi tutti attribuiscono erroneamente il merito di quell’operazione impossibile proprio a Corrado Farlaino, che in realtà aveva già scartato Maradona nel 1978, quando Gianni Di Marzio glielo segnalò e gli consigliò di parcheggiarlo in Svizzera in attesa delle riapertura delle frontiere, prevista in Serie A per il 1980. Nell’estate del 1984, Pierpaolo Marino seppe della rottura tra Maradona e il Barcellona e informò Giampiero Boniperti, che, appagato dal rendimento in bianconero di Platini, rispose che Dieguito, con quel fisico, non sarebbe arrivato lontano, e rifiutò di trattare. E allora Marino avvisò i dirigenti partenopei Antonio Juliano e Dino Celentano. Furono loro a credere davvero di riuscire a portare Maradona a Napoli. Ferlaino, invece, non credeva in quel sogno e trattava con l’Atletico Madrid per prendere il messicano Hugo Sanchez, anche perché l’argentino era costosissimo e il Napoli non aveva di certo i soldi richiesti dal Barcellona. Ma i tifosi napoletani, saputo della trattativa, vollero solo Maradona, e lo volle soprattutto la politica nazionale, in un periodo in cui la Campania esprimeva Ciriaco De Mita, Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, Carmelo Conte, Giulio Di Donato, Vincenzo Scotti e altri uomini nei palazzi romani. Nel Consiglio di Amministrazione del Napoli di Ferlaino figuravano i democristiani Clemente Mastella, Alfredo Vito e Guido D’Angelo, rispettivamente in quota De Mita, Gava e Cirino Pomicino; uno per ogni corrente della Democrazia Cristiana.
Juliano e Celentano si piazzarono a Barcellona per due settimane, convincendo Ferlaino a trovare il modo per far uscire in qualche maniera i soldi necessari a pagare Maradona al club catalano. Fu proprio Scotti, da sindaco, sollecitato da Pomicino e Gava, a fare il “miracolo”, ottenendo la copertura finanziaria dell’operazione dal Banco di Napoli, negli ultimi anni di autonomia dell’antichissimo istituto partenopeo, diretto a quel tempo dal potente banchiere di nomina democristiana Ferdinando Ventriglia. Qualcosa uscì anche dal Banco di Roma, del Banco di Santo Spirito e del Monte dei Paschi di Siena. Per la politica romana-napoletana, quel fuoriclasse rappresentava l’occasione di dare il necessario trastullo ai napoletani, piegati dal terremoto, dalla cassa integrazione nelle acciaierie di Bagnoli, dalla disoccupazione e dall’espansione camorristica. Le tensioni sociali erano preoccupanti, e Maradona contribuì enormemente a calmarle.Il Napoli vinse gli scudetti nel momento più critico del secondo Novecento per Napoli. Potere del calcio.
per approfondimenti: Dov’è la Vittoria (A. Forgione – Magenes)
Un mio ritratto a matita in grafite di D10S. È il Maradona cittì dell’Argentina, con lo sguardo fiero del leader. Anno 2010, alla soglia dei 50 anni, disintossicato, non l’uomo accompagnato dal mostro, della droga prima e dell’alcol poi. Ho scelto di ritrarre un Diego in buona salute, come lo vorremmo oggi.
Angelo Forgione– Era l’estate del 2002, 19 anni fa, e sull’isola di Hvar conobbi un giovane ragazzo croato. Quando, stringendo conoscenza, gli dissi di venire da Napoli lui non disse “pizza”, non disse “spaghetti”, non disse “Vesuvio”, non disse “mandolino”, e neanche “Maradona”. Sgranò gli occhi e disse “Sergio Bruni”. Sgranai gli occhi anch’io.
Tra i maggiori protagonisti della scena musicale napoletana dal dopoguerra al secondo Novecento, insieme a Roberto Murolo e Renato Carosone, era detto “La voce di Napoli” quando si diceva che Napoli fosse il suo fraterno amico Eduardo. E allora il grande drammaturgo gli dedicò una significativa poesia.
‘Aggente sà che dice? Ca tu sì ‘a Voc’ ‘e Napule. E sà che dice pure? Ca Napule songh’ io! Si tu si ‘a voce ‘e Napule e Napule songh’ io; chesto che vven’ ‘a ddicere? ca tu si ‘a vocia mia!
La foto con Maradona è del 1990, e testimonia dell’incontro a Villaricca tra D10S e ‘a voce ‘e Napule, voluto del calciatore, che amava particolarmente l’intramontabile Carmela.
Angelo Forgione – Prende vita il modello della prima statua di Maradona post mortem, e a dargliela è Domenico Sepe, scultore di quelli bravi davvero. Spontanea ispirazione dal giorno della scomparsa, scintilla emotiva che ha innescato una fiamma di faticosa creazione tuttora ardente per donare al popolo che ha osannato il Campione un monumento che lo immortala all’acme del suo estro. Tutto cuore, niente affari, e dopo solo una decina di giorni è già perfettamente riconoscibile la figura del fuoriclasse giovane, aitante, frutto di un lirismo chiaro e di un’attenzione maniacale ai rilievi del volto, crisol de razas, e del resto del corpo. Un modello che ho visto venir fuori dai disegni e poi dall’argilla, consigliando per quanto possibile Domenico sul dinamismo e sui dettagli di quel Diego che fu, idolo e supereroe nostro, di tutti i napoletani e gli argentini di quel tempo e di sempre. Una creazione di cui l’autore ha voluto rendermi partecipe dal principio – mio onore – in nome della nostra amicizia sincera nata dal comune orgoglio e amore per la cultura di Napoli, per le sue radici greche, per il classicismo e il neoclassicismo al quale si ispira la figura di questo atletico Maradona, che è mitizzazione della divinità pagana del pallone e riproposizione delle mitologiche sculture di Atene antica. Sì, visto da vicino, questo argentino in corsa, sia pur non finito, è già profondamente greco, e quindi napoletanissimo, e non risulterebbe blasfemo neanche tra l’Ercole Farnese e il Supplizio di Dirce, quantunque non sarà di marmo ma di più duraturo bronzo, inscalfibile e immortale come D10S comanda.
Angelo Forgione –Sette giorni senza Diego, e ancor non si placa l’onda emotiva che si è alzata dopo la sua scomparsa, capace di mettere in secondo piano addirittura la pandemia mondiale e ogni altra attività umana. Vi è, e non sappiamo per quanto tempo ancora vi sarà, una vera fenomenologia religiosa, altro che pagana, intorno al lutto. Lumini, altarini, fiori, immagini, oggetti vari si sono accumulati in un collettivo pellegrinaggio di dolore nelle due patrie del defunto Re, luoghi dei più alti onori uniti da un ponte pindarico carico di pathos. Camera ardente alla Casa Rosada di Buenos Aires ed effigie tra le statue dei Re sul portone del Palazzo Reale di Napoli.
Qualcuno, lontano dal ventre di questo vortice, ritiene tutto ciò un isterismo di massa, un fanatismo cieco e irrazionale, e non è che sbagli. Ma isterismo e fanatismo accompagnano sempre la fine dei grandissimi e imprimono la portata di una epocale scomparsa.
Il fatto essenziale è che ci siano scoperti piccoli di fronte alla grandezza di un personaggio omaggiato in tutto il globo, minuscoli di fronte al pallone, la vera religione del mondo moderno, che ha reso il suo pontefice più ecumenico di un papa, che planetario come Diego non è, dacché la cristianità non è di tutto il mondo.
È il momento di interrogarsi sull’impatto globale che ha avuto la notizia della morte di Dieguito. Milioni di cuori spezzati e commozione per un uomo che sembrava inadeguato, ormai non più all’altezza dell’immenso calciatore che era stato trent’anni prima, al tempo in cui aveva interpretato la figura del supereroe in carne ed ossa. Sì, proprio supereroe. Ogni bambino, indossando la 10 del Napoli, dell’Argentina o del Boca, si era sentito invincibile calciando su un campetto e per la strada, e quell’uomo tondo e sgraziato che Diego era diventato sembrava solo la caricatura di quel che era stato un tempo. Sembrava, perché la sua carcassa non era che mutata custodia di quell’eroe greco che attendeva l’appuntamento con la morte per trasformarsi in mito intramontabile. Un mito che, una volta scomparso l’involucro terreno in cui era stato incubato, abbiamo scoperto essere amato dappertutto, al di là della venerazione dei suoi tifosi di sempre. Pensavamo essere “solo” l’eroe dei due mondi, la luce del patriottismo argentino e napoletano, e invece abbiamo capito che era l’eroe del mondo, incarnazione della forza del Genio che convive con l’umana debolezza, amato perché autentico nelle contraddizioni che appartengono al genere umano.
Tra tutti quelli che l’hanno conosciuto non c’è nessuno che ne abbia parlato male, prima e dopo. Tra tutti quelli che l’hanno frequentato non c’è una sola persona che, oggi come ieri, non ne sottolinei l’umanità e l’altruismo. Ma come è possibile? Un uomo perso nei vizi, distrutto dalla sua vita dissoluta, che riceve onori da gran capo di stato e suscita così tanta commozione in ogni angolo del pianeta? Ma vuoi vedere che questo regalagioie deviato e chiacchierato, alla fine, sapeva amare il prossimo suo e lo faceva in silenzio?
Chiedete chi era a chi l’ha frequentato, che sapeva quanto fosse solo e a disagio nella sua fama oppressiva, alla ricerca di amici veri che lo considerassero un uomo, non un dio. Non chiedetelo a chi non l’ha avuto vicino un solo minuto della sua vita e in questi sette giorni non si è tolto il cappello dal capo e la sciarpa bianconera dal collo, pontificando sull’uomo sfatto, mai sciogliendosi in un applauso e semmai, lui vero miserabile, definendo miserabili coloro che lo hanno definitivamente sdegnato per questo. No, non chiedetelo a certe anime nere che, senza l’umiltà di Maradona, credono di essere un Maradona, e vivono l’esistenza nelle loro vuote convinzioni e in attesa di passare sul cadavere dell’avversario. Hanno atteso quello di Diego, inconsapevoli che la sua grandezza li avrebbe resi nervosi, minuscoli, ridicoli.
Vedendo Diego invecchiare male non mi sono mai fatto ingannare da quella carcassa che si trascinava sulle gambe doloranti e si esprimeva con sempre meno lucidità. Sapevo che dentro quel corpo alla deriva c’era un mito pronto a travolgere il mondo dei vivi saltando gli avversari, proprio come con gran atletismo faceva da giovane, e ho immaginato così, esattamente così, il giorno in cui sarebbe morto. Dovevamo immaginarcelo tutti il giorno in cui sarebbe finito, e dovevamo aspettarcelo che sarebbe stata la sua morte a dare il senso definitivo alla sua esistenza al tempo del football, la più grande religione del nostro tempo.
Angelo Forgione – Domenica 6 dicembre saranno trascorsi esattamente 61 anni dall’inaugurazione dello stadio di Fuorigrotta, in occasione di uno storico Napoli-Juventus (2-1). Era stato chiamato “Stadio del Sole”, ma proprio nella primavera del ’61, in occasione del diciannovesimo centenario dell’approdo a Puteoli, attuale Pozzuoli, di san Paolo di Tarso nel suo viaggio da Oriente verso Roma, fu firmata la delibera dell’intitolazione all’apostolo che aveva percorso la via che dalla zona flegrea portava alla Città Eterna, compiendo i suoi passi nelle vicinanze del luogo dove era stato costruito lo stadio, ovvero l’attuale via Terracina, in cui ancora oggi sono visibili dei significativi scavi archeologici. A san Paolo sarebbero stati poi dedicati nelle vicinanze anche un parco residenziale e l’ospedale.
Il numero 61 ricorre continuamente in questa storia. Anno 61, anno 1961, i 61 anni dello stadio e pure il 61esimo anno di vita appena iniziato in cui è spirato Maradona, cui venerdì sarà ufficialmente intitolato lo stadio dalla Giunta Comunale e dal sindaco De Magistris. Un atto doveroso perché in quello stadio sono state scritte pagine importantissime della storia del calciatore più grande di sempre fattosi mito con la sua scomparsa.
Don Tonino Palmese, docente di Teologia e di Pedagogia, chiede al Prefetto di Napoli di conservare la vecchia denominazione dello stadio e sposarla alla nuova (“San Paolo – Maradona”), mentre la diocesi di Pozzuoli, competente per il quartiere di Fuorigrotta, ha invece già “abdicato”:
La memoria di un popolo, il nostro, aperto per sua natura alla cultura dell’incontro, si è mantenuta viva per molto tempo prima che lo stadio venisse costruito, e si manterrà viva ancora dopo. È nel cuore, nella coscienza, di ogni abitante di questa terra che essa vive. Ci sembra invece che intitolare lo stadio a Diego Armando Maradona possa oggi essere un segno di richiamo ai valori fondanti lo sport, facendo riferimento a uno dei suoi più grandi rappresentanti, e a una passione che dall’ambito puramente sportivo deve diffondersi in tutto il tessuto sociale, politico, economico della nostra terra flegrea, con particolare attenzione ai più bisognosi secondo quella generosità che fu anche del giocatore argentino.Ben venga, dunque, l’intitolazione a Diego Armando Maradona del principale impianto sportivo della nostra città, se questo aiuterà la crescita umana e sociale della nostra terra purché non si perda la memoria delle nostre radici e ci siano iniziative culturali significative che mettano in evidenza i fondamenti greco-romani e cristiani della storia del nostro territorio. Senza radici profonde dove andiamo?”
San Paolo portò l’evangelizzazione in Occidente e dalle sponde flegree iniziò la sua diffusione. Il problema, dunque, è studiarla la storia, e chissà quante persone, fino ad oggi, abbiano approfondito il perché lo stadio di Fuorigrotta fosse stato intitolato a san Paolo.
Ne abbiamo chiacchierato a La Radiazza di Gianni Simioli (Radio Marte) con monsignor Gennaro Matino, docente di Teologia pastorale e scrittore.
Gennaro Gattuso chiede ai napoletani di indossare le mascherine anche nel dolore per Maradona e il solito Libero ne fa notizia da prima pagina, mettendo Napoli nel mirino e accontentando il suo pubblico leghista. Io e Pietro Senaldi, autore dell’articolo nonché direttore del quotidiano, in un acceso confronto a Punto Nuovo Sport Show di Umberto Chiariello e Marco Giordano.