Vietato costruire a Casamicciola, ordinò Carlo di Borbone

Angelo Forgione Casamicciola funestata nei secoli dai continui fenomeni dinamici (terremoti e frane). Lo sapevano gli esperti al servizio di Carlo di Borbone, nella prima metà del Settecento, che consigliarono al Re di proibire le costruzioni in quella precisa zona di Ischia.

Non sono riuscito a individuare il decreto carolino, e non ci riuscirono neanche i membri della Commissione parlamentare che, immediatamente dopo il terremoto del 28 luglio 1883, si occuparono dei provvedimenti a favore dei danneggiati dal disastroso sisma. Ma in quegli atti parlamentari riportarono che la notizia proveniva dal credibilissimo professor Luigi Palmieri, beneventano di Faicchio, uno dei maggiori scienziati italiani dell’Ottocento, pioniere della protezione civile, direttore dell’Osservatorio Vesuviano dal 1856 e inventore in quell’anno del sismografo elettromagnetico per la rilevazione delle vibrazioni indotte dalla dinamica interna del Vesuvio, strumento adottato nel 1873 dall’Ufficio Meteorologico Centrale giapponese di Tokyo, a testimonianza delle profonde radici napoletane della vulcanologia e della sismologia. A Palmieri è intitolato un cratere sulla Luna e l’Osservatorio Sismico di Pesco Sannita che dal 1984 opera nel settore del rilevamento sismico dell’Appennino molisano, sannita ed irpino.

Palmieri seguì il terremoto ischitano del 1883 e le distruzioni che resero Casamicciola tristemente nota, introducendola nel lessico comune della Nazione. “È successa una casamicciola”, si dice, per quel violento sisma dopo il quale lo scienziato della Valle Telesina fu fondamentale per indirizzare la Commissione parlamentare ai provvedimenti da attuare a ridosso del monte Epomeo. Negli atti si legge la necessità “che alcune zone dell’isola sieno abbandonate e che certi metodi di costruzione sieno proibiti, come pure il costruire con pericolo sovrastante di frana o su ciglio insostenuto e pronto a scoscendere”. E laddove si fosse consentito costruire, lo si sarebbe dovuto fare con il “sistema baraccato”, introdotto un secolo prima, nel 1784, da Ferdinando di Borbone, figlio di Carlo, alla luce delle conseguenze del terremoto del Febbraio 1783 di Messina e Reggio Calabria. “Sistema baraccato” che il CNR, nel 2013, ha indicato come metodo antisismico da recuperare, quando io ne avevo già scritto in Made in Naples.

Dopo il terremoto, a Casamicciola si ricostruì, diversamente da come aveva “suggerito” Carlo di Borbone attraverso Luigi Palmieri, ma almeno con il “sistema braccato”. Alcune di quelle costruzioni, quelle ancora esistenti, sono state le uniche a restare in piedi dopo il terremoto del 2017.

Sul monte Epomeo furono realizzate delle opere ingegneristiche di prevenzione, a partire dai muretti a secco sulla falsa riga delle “parracine ischitane” d’antichissima epoca greca (Ischia fu la primissima terra di approdo dei coloni greci), per realizzare terrazzamenti sulla parete montuosa e scalettarla, in modo da rallentare la discesa di acque e detriti.

Successivamente, in epoca fascista, con identica funzione furono realizzate delle briglie di contenimento, rifacendosi alle “briglie borboniche” presenti sul Vesuvio e altrove, unitamente a dei canali di scolo.

In epoca repubblicana, sia i muretti a secco che le briglie sono stati privati totalmente di manutenzione, e spesso neutralizzati dall’edificazione massiccia che ha trasformato tutti i rioni baraccati in quartieri in muratura, senza alcun criterio.

E ancora non abbiamo capito che Casamicciola è in una posizione talmente critica da renderla sostanzialmente inabitabile, come disse Carlo di Borbone.

Ma il problema è diffuso. L’Italia di oggi, il paese europeo più soggetto a frane e terremoti, continua a costruire selvaggiamente e male, spesso eludendo persino le norme antisismiche dove non si dovrebbe e dove non esiste neanche più quel governo del territorio per evitare frane ed esondazioni.

Quello che è successo a Casamicciola e altrove non è più solo colpa della natura imprevedibile ma anche dell’uomo, dell’antropizzazione selvaggia e del dissesto idrogeogico, sempre più insostenibili con il cambiamento climatico, che è anch’esso causato dall’uomo.

Eravamo molto più al sicuro nell’Ottocento, anche se i vocabolari, alla voce “borbonico”, traducono in “retrogrado”. Macché!


Per approfondimenti: Made in Naples (Magenes, 2013) – capitolo “Il governo del territorio”.

Storia della “discriminazione territoriale”, nata nel 1989 per “colpa” di Maradona

Angelo Forgione «Terrone di m…», urla a un giornalista napoletano un tifoso del Milan della provincia umbra di Terni, tutt’altro che settentrionale, all’esterno dello stadio Meazza del capoluogo lombardo. Spaccato di un’Italia calcistica in cui, oltre a certa ideologia imperante in alcune tifoserie storicamente e dichiaratamente razziste, troppo spesso l’astio verso i napoletani risponde a un fastidio avvertito da gente del Centro-Sud che tifa per le grandi squadre del Nord. Diventare tifosi di Juventus, Inter e Milan da bambini perché provenienti da territori le cui squadre sono impossibilitate a lottare per il vertice, e rendersi conto che il Napoli è l’unico club del Mezzogiorno capace di fronteggiare le nobili strisciate settentrionali, produce una sorta di invidia che si esprime con manifestazioni discriminatorie, tanto più violente quanto più è competitivo il Napoli. Picchi storici negli anni maradoniani e in quelli correnti, non a caso i due periodi più floridi della storia Azzurra. Perché più l’unico grande club del Sud dà fastidio a quelli del Nord e più il razzismo nei confronti dei suoi tifosi cresce, non solo al Settentrione.

In una questione meridionale che coinvolge anche lo sport, il Napoli, l’unica espressione meridionale del calcio metropolitano, è la quarta potenza d’Italia per bacino d’utenza e, di fatto, la squadra di calcio più titolata del Mezzogiorno, sia a livello nazionale che internazionale. Dietro, al Sud, vi è un sostanziale vuoto. Per trovare la prima concorrente per prossimità territoriale, bisogna salire di duecento chilometri, a Roma, città della quinta e della sesta potenza della Penisola calcistica. Ma il Napoli è pur sempre il club di Maradona, il calciatore più forte di tutti i tempi, un preziosissimo patrimonio in termini di notorietà e blasone che va oltre la non troppo ricca bacheca del club. Ed è proprio per sua “colpa” che in Italia pronunciamo la definizione di “discriminazione territoriale” per indicare in modo mascherato il razzismo di un territorio verso un altro, che però, senza girarci troppo intorno, è manifestazione di intolleranza nei confronti dei napoletani. 

Quel che fa il tifoso milanista di Terni lo fa, ancor più cervelloticamente, anche il tifoso cagliaritano, che è più a Sud di Napoli, sia pure in territorio isolano. E al Vesuvio grida anche il barese, il leccese, il reggino… La discriminazione dei settentrionali verso i meridionali, soprattutto dei napoletani, e dei centro-meridionali verso i napoletani, è becerume tipico degli stadi o è qualcosa di più ampiamente radicato nel popolo italiano?
Partiamo da una certezza: il razzismo, in Italia, esiste, e il negazionismo non aiuta a un dibattito costruttivo sulla questione. Il Pew Research Center, organizzazione che produce statistiche a livello mondiale su un gran numero di temi, dice per indagine che gli italiani risultano di gran lunga il popolo meno tollerante dell’Europa occidentale rispetto agli immigrati e alle minoranze come ebrei o rom. È evidente che anche il razzismo interno, cioè quello dei settentrionali verso i meridionali, non sia sparito. Del resto, la Nazione è nata proprio da un’unione forzata, un’invasione vera e proprio, in prossimità della quale il torinese Massimo d’Azeglio, governatore della provincia di Milano, scrisse al patriota Diomede Pantaleoni: Ma in tutti i modi la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”. Per napoletani s’intendevano non solo gli abitanti della popolosissima Napoli ma tutto il popolo del Sud, discriminato nel periodo del Positivismo di secondo Ottocento che lo assimilava al ceppo dei nordafricani.

Con l’avvento del Fascismo, le differenze tra Nord e Sud furono celate dal Nazionalismo mussoliniano, ma la proclamazione delle Leggi razziali, ispirate dal Manifesto degli Scienziati razzisti, più noto come “Manifesto della razza”, condusse alla subdola rielaborazione del concetto di superiorità etnica interna. La visione dei colonizzati d’Africa si sovrappose al modo in cui erano stati considerati i meridionali nel periodo postunitario. Tripoli, Mogadiscio e Addis Abeba vennero trattate come lo erano state Napoli e Palermo nel periodo risorgimentale, e i metodi di repressione delle rivolte coloniali furono formulati sul modello della lotta al brigantaggio, tant’è che la rivolta anticoloniale in Libia degli anni Venti fu gestita col ricorso agli stati di assedio, alla Giustizia militare e alle pene capitali, ovvero ricalcando la Legge Pica del 1863.

Nel Dopoguerra, le popolazioni del Sud si spostarono in massa nel “triangolo industriale”, trovando cartelli del tipo “Non si fitta ai meridionali”, e divennero per i torinesi “i tarún” e per i milanesi “i terun”, ma anche “i mau-mau”, appellativo mutuato dal nome della comunità kenyana ribellatisi al dominio coloniale britannico. E poi “i nàpuli”, appellativo ingiurioso piemontese poi tradotto in “nàpoli” e inserito in forma spregiativa nei moderni vocabolari di lingua italiana.

Il Calcio, divenuto grande passione delle domeniche degli italiani, non rimase immune da certe manifestazioni. Il razzismo, negli stadi, si affacciò negli anni Sessanta, in concomitanza con l’arrivo in Italia di calciatori di pelle nera, costretti ad ascoltare le prime offese da parte dei tifosi del Nord. E il Cagliari in vetta alla classifica nel campionato del 1970, poi vinto, veniva accolto a Milano e a Torino al grido di «banditi» e «pecorai». Nessuno sapeva che la proprietà del club, nell’ombra, era dei lombardi Angelo Moratti e Nino Rovelli, bisognosi di fare affari in quella terra per realizzare i loro impianti petrolchimici.

Sulla scia del colera del 1973 che colpì violentemente Napoli, ma anche Cagliari, Bari e altre città del Sud, nacquero i cori discriminatori contro i napoletani. Storia chiarita, quella del colera, esploso con la distribuzione di cozze infette di provenienza tunisina durante un’epidemia partita dodici anni prima dall’Indonesia e in quel periodo transitante nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 ed è in circolo ancora oggi. La scorretta informazione italiana colpevolizzò Napoli, con conseguenze pesantissime sul turismo e sulla condizione socio-economica della città.

Le autorità sanitarie della Regione Liguria disposero che il Napoli non dovesse recarsi a Genova per il match di Coppa Italia Genoa-Napoli del 16 settembre, temendo che potesse diffondere il vibrione sul territorio, contrariamente al parere delle autorità sanitarie campane. Fu decisa l’inversione del campo, ma i calciatori del Genoa si rifiutarono di recarsi a Napoli, e non partirono, accettando lo 0-2 a tavolino. Un mese più tardi, una volta che l’OMS ebbe dichiarato la conclusione dell’emergenza a Napoli (dopo solo un mese e mezzo, altrove proseguì ancora lungo), i genoani andarono a disputare un’amichevole di riconciliazione nel capoluogo campano. Ma da quel momento, in ogni stadio del Nord, il Napoli fu accolto al grido di «co-le-ra, co-le-ra», un’etichetta immeritata per un popolo che aveva dato prova di grande compostezza nella più imponente operazione di profilassi del dopoguerra.

Trascorsero sedici anni prima che la FIGC introducesse le sanzioni per “discriminazione territoriale”, entrata ufficialmente nel codice di giustizia sportiva nell’autunno del 1989, in piena epoca maradoniana, cioè di Napoli vincente, come mai era avvenuto prima di allora. Gli Azzurri, tre anni prima, avevano iniziato a spadroneggiare con le milanesi grazie al più forte calciatore del mondo. Tanta la paura e la rabbia per quei miserabili del Sud che si erano presi quello che era sempre “spettato” al Nord, lo scudetto, e minacciavano di rifarlo ancora dopo aver trionfato anche in Europa.

Vinto il primo Tricolore, a Torino era stato esposto una scritta infame: “Napoli campione oltraggio alla Nazione”. La sera del 17 maggio 1987, dagli schermi di Rai Uno per Notte per uno scudetto, uno show celebrativo del primo tricolore, l’ottimo Gianni Minà, torinese, aveva finto di intervistare un sorridente Massimo Troisi, napoletano, ricordandogli che al Nord erano comparsi striscioni del tipo “siete i campioni del Nord Africa”, e che evidentemente l’unità d’Italia non fosse mai avvenuta. Il compianto attore di San Giorgio a Cremano, in tempo di apartheid e di propaganda leghista, aveva risposto alla sua maniera: «Io, intanto, sinceramente, preferisco essere un campione del Nord Africa piuttosto che mettermi a fare striscioni da Sud Africa».

La consacrazione della “discriminazione territoriale”, ovvero il razzismo tra italiani negli stadi, avvenne dopo il match Roma-Napoli (1-1) dell’8 ottobre 1989 allo stadio Flaminio, con l’Olimpico in rifacimento per i Mondiali previsti in Italia a fine stagione. Match tra un Napoli in testa alla classifica e una Roma quarta che avrebbe potuto agganciarlo, in uno stadio piccolo e strapieno. Venticinquemila spettatori di cui tremila napoletani, e diretta televisiva, insolita per l’epoca, irradiata eccezionalmente nelle province di Roma e di Napoli per motivi di ordine pubblico. Tensione forte all’esterno dello stadio tra le due tifoserie e “botte” in campo tra le due squadre. Persino Maradona, sempre estremamente corretto in campo, a fine primo tempo era entrato pericolosamente sulle caviglie del romanista Desideri, autocensurandosi nel dopopartita. Durante il match, i tifosi della Roma avevano più volte ricordato ai napoletani di essere colerosi e terremotati e di non usare il sapone per eliminare la loro puzza. E poi le invocazioni al Vesuvio, scioccanti in quel periodo storico, anche perché fino a qualche anno prima, tra romanisti e napoletani, era stato celebrato un meraviglioso gemellaggio, interrotto proprio quando il Napoli aveva preso il posto della Roma nella contesa dello scudetto contro Juve, Milan e Inter. Parallelamente alla crescita del club partenopeo era cresciuta l’aggressione verbale verso i suoi tifosi negli striscioni e nei cori, non più prerogativa esclusiva di certi stadi del Nord.

La colpa dei romanisti, in quella domenica d’autunno del 1989, fu quella di aver discriminato i napoletani esattamente il giorno dopo una storica marcia antirazzista per le strade della Capitale, la prima grande manifestazione nazionale contro il razzismo in Italia, promossa dopo l’omicidio dell’immigrato Jerry Masslo avvenuto la sera del 24 agosto 1989. Il bracciante sudafricano, prima di essere ucciso durante una rapina ai danni di un gruppo di una trentina di conterranei, aveva denunciato il razzismo degli italiani in un’intervista, avvisando che prima o poi qualcuno dei suoi sarebbe stato ammazzato. Quel delitto aveva scosso l’opinione pubblica, facendo scoprire agli italiani di essere razzisti, e aveva messo in moto il meccanismo per l’organizzazione dell’epocale manifestazione con duecentomila partecipanti nelle strade di Roma, alla quale, come atto di protesta verso le espressioni di discriminazione che si verificavano in molti stadi, avevano aderito formalmente anche i calciatori del Napoli, del Milan e dell’Inter, oltre al sindacato dei calciatori.
Che imbarazzo per la Federcalcio: la capitale d’Italia a gridare no al razzismo il sabato e a invocare il Vesuvio la domenica. E così fu immediatamente introdotta la “discriminazione territoriale” tra i motivi di provvedimento disciplinare nel Codice di Giustizia sportiva. Sanzioni pecuniarie qua e la fino al termine del campionato, vinto sul turbolento finale dal Napoli di Maradona sul Milan di Sacchi.
Il fuoriclasse argentino dovette difendere proprio negli stadi italiani, e da campione d’Italia con il Napoli, il titolo mondiale dell’Albiceleste vinto in Messico quattro anni prima. All’esordio contro il Camerun, nello stadio dei rivali milanisti e interisti, il tifo fu tutto per i “leoni indomabili”, vincitori a sorpresa per 1 a 0. Dopo i fischi all’inno argentino e il sostegno agli africani, Diego si rifece in sala stampa con sarcasmo pungente:
«L’unico piacere di questo pomeriggio è stato scoprire che, grazie a me, gli italiani di Milano hanno smesso di essere razzisti: oggi, per la prima volta, hanno fatto il tifo per degli africani».

Malcostume bandito nelle successive due partite, perché giocate a Napoli, ovvero in casa. I fischi all’inno argentino ripresero a Torino, per il derby sudamericano vinto contro il Brasile, e a Firenze, per la sfida alla Jugoslavia vinta ai rigori. Alla semifinale di Napoli approdarono proprio la Nazionale di Maradona e l’Italia. Dieguito, colui che era scappato da Barcellona per il razzismo dei catalani nei confronti dei “sudaca” del Sudamerica, dopo anni di battaglie in campo per i “terroni” napoletani, alla vigilia dello scontro coi padroni di casa, lanciò un proclama agli italiani in cui racchiuse un acuto messaggio identitario:
«Per 364 giorni su 365 chiamano “terroni” i napoletani, ma questa volta gli chiedono di essere italiani. L’Italia si ricorda che sono italiani solo quando devono sostenere la Nazionale, poi si dimentica di come li tratta».

Erano passati nove mesi dall’introduzione della “discriminazione territoriale”. La gente di Napoli apprezzò le parole dell’amatissimo avversario; molto meno gradì il resto d’Italia, che di certo non poteva guardarsi allo specchio per una partita della Nazionale di calcio. A guadagnarsi la finalissima fu l’Argentina, certamente per errori degli Azzurri, anche se il CT Vicini e qualche calciatore azzurro preferirono incolpare i napoletani sugli spalti. La tensione salì alle stelle nel ritiro dell’Argentina a Trigoria, storico quartier generale della Roma, antipasto della vendetta per quell’imbattibile ragazzo che faceva vincere il Napoli e l’Argentina. Nella notte della finale all’Olimpico contro la Germania Ovest tornarono più violenti che mai i fischi all’inno argentino, ai quali il capitano del Napoli rispose con un eloquente «hijos de puta» in mondovisione. Complice un rigore benevolo concesso ai tedeschi, tra cui alcuni romanisti e interisti, Diego dovette lasciare il trofeo agli avversari, tra incessanti fischi e amarissime lacrime. Ormai odiato in Italia e amato solo a Napoli, finì di fatto lì la sua parabola vincente e l’avventura nel Belpaese.

Il Napoli, nella stagione successiva, iniziò a declinare, trascinandosi lungamente verso il fallimento del 2004, al culmine di un decennio abbondante di affanni tra la Serie A e la B. Di pari passo, la discriminazione dei napoletani si assopì, per risvegliarsi esattamente quando il Napoli di De Laurentiis ritornò in Serie A. 6 ottobre 2007: a San Siro, i tifosi dell’Inter accolsero i tifosi partenopei scrivendo “Ciao colerosi”, “Napoli fogna d’Italia”, “Partenopei tubercolosi” su degli indecenti striscioni sparsi qua nel secondo anello della Curva Nord del Meazza. Accadde a quattro mesi dall’entrata in vigore del nuovo Codice di Giustizia sportiva, per il quale fu imposta per la prima volta la chiusura temporanea di un settore di stadio, nella fattispecie quello degli ultras interisti, per comportamento discriminatorio La prima storica proibizione per i tifosi, abbonati e non, colse tutti di sorpresa e riaprì un dibattito di fatto antico.

Il Napoli si riaffermò sempre più tra le grandi della Serie A e iniziò a proporsi persino come concorrente della Juventus, al principio dello storico ciclo-record dei Bianconeri. E perciò, il 22 ottobre 2012, durante il match Juventus-Napoli, andò in onda sulle frequenze piemontesi della Rai la grande vergogna del TG Regione Rai Piemonte. A partita da poco iniziata, fu mostrato un servizio firmato dal cronista Giampiero Amandola, recatosi ai cancelli dello stadio prima del match. I telespettatori piemontesi videro due giovani juventini urlare in coro «o Vesuvio lavali tu» nel microfono. Uno di loro spiegava poi che i napoletani erano inestinguibili perché «ovunque, a Nord e a Sud, un po’ come i cinesi», e il giornalista si univa allo squallore così: «Li distinguete dalla puzza, con grande signorilità». Compiaciuto, il tifoso rilanciava: «Molto elegantemente, certo!». Proprio chi scrive, allertato da una segnalazione giunta da uno sdegnato telespettatore, denunciò quanto era stato diffuso nei confini regionali del Piemonte, evitando che tutto restasse nei confini regionali e passasse in cavalleria. Il vergognoso servizio, posizionato sul web a futura memoria, accese l’indignazione napoletana e, divenendo immediatamente virale, divenne visibile all’Italia intera e oltre.

La Rai prese le distanze da ogni razzismo, scusandosi con l’allora sindaco di Napoli De Magistris, così come fece l’omologo Piero Fassino, e aprì un procedimento disciplinare per Giampiero Amandola, dopo aver diffuso in un’altra edizione del telegiornale regionale piemontese un duro comunicato stampa con cui condannò la condotta del suo dipendente e chiese scusa ai cittadini di Napoli ma anche a tutti gli italiani per l’inqualificabile servizio.

Uno scandalo enorme, sulla scia del quale, nella primavera del 2013, la FIGC, allertata dall’UEFA per la degenerazione degli eventi italiani, dovette recepirne le nuove direttive, diramate il 23 maggio attraverso l’adozione della risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo, con cui furono inasprite le pene per i casi associati agli eventi internazionali. L’organo calcistico europeo pretese altrettanta severità da ogni Federazione affiliata, chiedendo di impegnarsi per favorire l’adozione di identiche politiche sanzionatorie “in relazione alle manifestazioni nazionali”. Gli ispettori federali della FIGC furono chiamati a non tapparsi più le orecchie e a refertare tutti i cori di discriminazione territoriale. Dell’accanimento riversato sui napoletani ne fece immediatamente le spese la curva del Milan, e poi quella della Juventus, della Roma, del Bologna e molte altre in sequenza continua.

L’allora amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, scese in campo a guidare la rivolta dei club contro le nuove norme, fino a ottenere la modifica all’applicazione della norma e introduzione da parte del Consiglio federale della cosiddetta “sospensione condizionale”, una sorta di ammonizione per le società, le cui pene sarebbero state congelate per un anno solare e applicate in modo cumulativo solo nel caso di una seconda violazione dei loro supporters nel periodo interessato. L’intento era evidentemente quello di ridurre il rischio di chiusura parziale degli stadi, col subdolo presupposto per il quale il Napoli sarebbe stato ospitato solo una volta l’anno da ciascuna società. I vertici del calcio non fecero bene i loro conti, perché la maleducazione dei tifosi più decisi a vincere il braccio di ferro, iniziò a manifestarsi anche in partite senza i partenopei di scena.

Ne venne fuori una denigrazione sistematica del popolo partenopeo per piegare la FIGC, un odio che nell’immediata vigilia della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina del 3 maggio 2014 a Roma toccò il suo drammatico picco ancora lì, all’esterno dello stadio Olimpico: durante un agguato premeditato a un torpedone dei tifosi napoletani zeppo di famiglie con bambini, il ventinovenne Ciro Esposito fu ferito a morte da un colpo di pistola sparato da Daniele De Santis, un ex militante della curva romanista appartenente ad ambienti di destra estrema, sostenitore di una squadra estranea alla partita da disputare. Non per una folle faida tra ultras, ma per il razzismo di stampo neofascista che aveva fatto della partita un pretesto per colpire Napoli e i napoletani.

Il drammatico accadimento spinse i vertici federali a tirare i remi in barca e dichiarare persa la battaglia di civiltà attorno alla discriminazione dei napoletani. Nell’estate 2014, irruppe sulla scena Carlo Tavecchio, presidente della Lega Nazionale Dilettanti e candidato alla presidenza della Federcalcio con immediata scivolata sulla buccia di banana del razzismo lasciata a terra dal fantomatico Optì Pobà. Nella corsa alla poltrona fu sostenuto da Adriano Galliani, l’uomo a capo della rivolta dei club contro la “discriminazione territoriale”. Nel programma elettorale spuntò la cancellazione delle chiusure dei settori degli stadi per responsabilità oggettiva, da convertire di nuovo in sanzioni pecuniarie. Tavecchio fu eletto presidente e da lì in poi si poté tornare a invocare il Vesuvio e a urlare contro i napoletani a pagamento delle società, a loro volta in silenzio e senza rivalersi sui colpevoli.

Bruciatosi il nuovo presidente federale in tema di lotta al razzismo per la gaffe che gli era costata la sospensione temporanea dall’attività internazionale da parte dell’UEFA prima e della FIFA poi, della finta battaglia alle discriminazioni se ne fece paladino Andrea Agnelli, per il quale la discriminazione territoriale era da considerarsi campanilismo facente parte della cultura italiana, e i cori contro Napoli “nostre peculiarità”. Il presidente della Juventus andò alla sede UNESCO di Parigi per presentare, nel novembre 2015, un’analisi del fenomeno razzista in cui la discriminazione territoriale veniva definita “forma tradizionali di insulto catartico”, cioè purificatorio, addirittura benefico per le folle. E da allora, con il Napoli sempre più stabilmente al vertice della Serie A, il Vesuvio è sempre più invitato a svegliarsi e a seminare distruzione e morte. Ma lui dorme e non da cenni di risveglio. Dorme il Vesuvio e dorme altrettanto profondamente l’Italia.

Per approfondimenti: Dov’è la Vittoria, (Angelo Forgione, Magenes, ed. 2022)

Il ruolo della Politica nel trasferimento di Maradona al Napoli

Angelo Forgione Estate 1984: Maradona dal Barcellona al Napoli. La trattativa del secolo, la più impensabile della storia del calcio. Il club azzurro, quantunque sodalizio storico del calcio italiano, non aveva vinto sostanzialmente nulla e aveva appena evitato la retrocessione in Serie B. In pochissimi credettero che il più cristallino dei talenti del calcio mondiale potesse lasciare il ricco Barcellona per calarsi nell’anonimo Napoli di Ferlaino, che fin lì aveva oculatamente badato a tenere in ordine il bilancio sociale.

Quasi tutti attribuiscono erroneamente il merito di quell’operazione impossibile proprio a Corrado Farlaino, che in realtà aveva già scartato Maradona nel 1978, quando Gianni Di Marzio glielo segnalò e gli consigliò di parcheggiarlo in Svizzera in attesa delle riapertura delle frontiere, prevista in Serie A per il 1980. Nell’estate del 1984, Pierpaolo Marino seppe della rottura tra Maradona e il Barcellona e informò Giampiero Boniperti, che, appagato dal rendimento in bianconero di Platini, rispose che Dieguito, con quel fisico, non sarebbe arrivato lontano, e rifiutò di trattare. E allora Marino avvisò i dirigenti partenopei Antonio Juliano e Dino Celentano. Furono loro a credere davvero di riuscire a portare Maradona a Napoli. Ferlaino, invece, non credeva in quel sogno e trattava con l’Atletico Madrid per prendere il messicano Hugo Sanchez, anche perché l’argentino era costosissimo e il Napoli non aveva di certo i soldi richiesti dal Barcellona. Ma i tifosi napoletani, saputo della trattativa, vollero solo Maradona, e lo volle soprattutto la politica nazionale, in un periodo in cui la Campania esprimeva Ciriaco De Mita, Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, Carmelo Conte, Giulio Di Donato, Vincenzo Scotti e altri uomini nei palazzi romani. Nel Consiglio di Amministrazione del Napoli di Ferlaino figuravano i democristiani Clemente Mastella, Alfredo Vito e Guido D’Angelo, rispettivamente in quota De Mita, Gava e Cirino Pomicino; uno per ogni corrente della Democrazia Cristiana.

Juliano e Celentano si piazzarono a Barcellona per due settimane, convincendo Ferlaino a trovare il modo per far uscire in qualche maniera i soldi necessari a pagare Maradona al club catalano. Fu proprio Scotti, da sindaco, sollecitato da Pomicino e Gava, a fare il “miracolo”, ottenendo la copertura finanziaria dell’operazione dal Banco di Napoli, negli ultimi anni di autonomia dell’antichissimo istituto partenopeo, diretto a quel tempo dal potente banchiere di nomina democristiana Ferdinando Ventriglia. Qualcosa uscì anche dal Banco di Roma, del Banco di Santo Spirito e del Monte dei Paschi di Siena. Per la politica romana-napoletana, quel fuoriclasse rappresentava l’occasione di dare il necessario trastullo ai napoletani, piegati dal terremoto, dalla cassa integrazione nelle acciaierie di Bagnoli, dalla disoccupazione e dall’espansione camorristica. Le tensioni sociali erano preoccupanti, e Maradona contribuì enormemente a calmarle.Il Napoli vinse gli scudetti nel momento più critico del secondo Novecento per Napoli. Potere del calcio.

per approfondimenti: Dov’è la Vittoria (A. Forgione – Magenes)

Addio a Lina Wertmüller, una romana assai napoletana

Angelo Forgione “Napoli è la dea della bellezza. La voglia di cantare dei napoletani deriva dalla loro natura di artisti. Perché disprezzare i mandolini che venivano suonati anche da Cimarosa e Vivaldi? Il Conservatorio S. Pietro a Maiella contiene un enorme patrimonio musicale, è un forziere inesauribile dove l’incuria e l’ignoranza hanno fatto marcire cose inestimabili. Qualsiasi paese al mondo avrebbe attinto a questo patrimonio per creare una stagione speciale d’arte. Napoli dovrebbe diventare, almeno per quattro o cinque mesi all’anno, Turistlandia, un posto cioè dove tutti potrebbero arrivare guidati dalla grande vela della musica, dell’arte e della bellezza.”

Così si espress, negli anni Novanta, la romana Lina Wertmüller. Una decina d’anni dopo, nel 2008, in piena crisi dei rifiuti a Napoli, si scagliò contro le tv che “amplificavano” quel disastro. Non riteneva giusto oscurare, nonostante i problemi, quanto di meraviglioso s’era prodotto e si produceva a Napoli, città che definì “una perla antica”.

Si chiude il suo sipario. Si chiudono i suoi occhi dietro a quegli iconici occhiali bianchi, espressione di un’anticonformismo e di una diversità che riscontrava nel popolo napoletano, lei che si vantava di essere stata espulsa da ben undici scuole in gioventù. Ed era proprio la Napoli diversa e anticonformista, anche impertinente, che le piaceva raccontare, senza alcun timore della critica per certi azzardi. Non ne risparmiava neanche quando poteva accennare alla storia della Città, del Sud, dell’Italia. Ardimentosa nel 1981, dico 1981, a raccontare la verità nel suo docufilm È una domenica sera di novembre, realizzato per la Rai in occasione del terremoto irpino dell’anno precedente. E quando, sul finire degli anni Novanta, girò Ferdinando e Carolina si rese conto di persona della spoliazione di Napoli, di come porcellane, specchi e mobili settecenteschi delle regge borboniche fossero stati trasferiti nelle residenze sabaude, sostituiti da un brutto riarredo tardo-ottocentesco. Lo denunciò qualche anno più tardi alla trasmissione Passepartout (Rai) di Philippe Daverio:
«Per somma beffa, dovendo ricostruire le ambientazioni napoletane originali del Settecento, ritrovammo gli arredi a Torino, nelle regge dei Savoia».

L’Amatriciana tradizionale è STG!

amatriciana

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province_regnoAngelo Forgione Vicenda anticipata e seguita da prima che si originasse, ed ecco l’ufficialità: la Amatriciana tradizionale, quella originale, nata nei territori abruzzesi dei Borbone quale connubio culinario di Amatrice e Napoli, ha ufficialmente ottenuto il riconoscimento STG dall’Unione Europea, ed è ufficialmente la terza Specialità Tradizionale Garantita italiana, dopo la Mozzarella e la Pizza napoletana. Tutte eccellenze nate nel Regno di Napoli, anche se troppi credono che l’ultima sia nata nello Stato Pontificio.
Il percorso intrapreso dal Comune di Amatrice nel 2015 per affermare orgogliosamente la ricetta originale dei Monti della Laga da imitazioni romane e contraffazioni di ogni sorta è giunto al traguardo europeo con successo.

Prima di approfondire e particolareggiare la ricostruzione della vera origine della pietanza per la scrittura de il Re di Napoli, ne avevo tracciato l’origine con un articolo scritto nel gennaio 2014. Dopo quattordici mesi iniziò il percorso di tutela della ricetta originale.
leggi l’articolo

Marzo 2015
Il Comune di Amatrice approva il disciplinare per la “Salsa all’Amatriciana De.Co. (Denominazione Comunale)” con delibera di giunta n.27 del 06.03.2015. Nel disciplinare è testualmente precisato quanto segue:

“l’introduzione nella ricetta del pomodoro è intervenuta alla fine del diciottesimo secolo quando i Napoletani, tra i primi in Europa, riconobbero i grandi pregi organolettici del pomodoro, e così anche gli Amatriciani, il cui territorio ricadeva nel Regno di Napoli, ebbero modo di apprezzarlo e, con felice intuizione, l’aggiunsero agli ingredienti della ricetta originale.
Erroneamente alcuni attribuiscono l’Amatriciana alla cucina Romana, avendo perduto la memoria storica del fatto che furono invece i pastori, che con gli spostamenti stagionali della transumanza verso le campagne romane, fecero conoscere questa ricetta nella città dei Papi”.

www.comune.amatrice.rieti.it/deco/disciplinare_salsa_amatriciana.pdf

Agosto 2016
Il terremoto del Centro Italia colpisce i territori di Amatrice a tre giorni dalla sagra dell’Amatriciana. La pietanza diventa il simbolo della resistenza e della solidarietà attraverso una raccolta fondi dei ristoratori italiani che fa il giro del mondo.

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Gennaio 2018
Il Comune di Amatrice deposita la domanda di registrazione del Disciplinare di produzione dell’Amatriciana tradizionale STG (Specialità Tradizionale Garantita).

Novembre 2019
La domanda di registrazione del Disciplinare di produzione dell’Amatriciana tradizionale STG viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 20.11.2019. Agli eventuali oppositori vengono dati tre mesi di tempo per poter presentare nuove e diverse documentazioni storiche.
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX%3A52019XC1120(02)

Marzo 2020
In assenza di opposizioni, la Commissione dell’Unione Europea registra e adotta ufficialmente la denominazione “Amatriciana Tradizionale STG” con regolamento di esecuzione (UE) 2020/395 del 06.03.2020.
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX%3A32020R0395

 

Maradona “el napolitano” metafora di Napoli

maradona_sancarloAngelo Forgione Un fortunato poster di Napolimania, l’idea commerciale di Enrico Durazzo che vende centinaia di gadget, ripropone il Cenacolo di Leonardo in chiave partenopea, coi grandi napoletani dello spettacolo che hanno onorato la cultura della città nel Novecento. Sophia Loren al centro, a degustar leccornie made in Naples in compagnia di Totò, Eduardo, Peppino e Luca de Filippo, Vittorio de Sica, Nino Taranto, Massimo Troisi, Massimo Ranieri e Pino Daniele. A quel tavolo può ora sedersi a pieno titolo anche Diego Maradona, che diventa ufficialmente cittadino napoletano. Lo era già formalmente, ma da oggi anche de facto.

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Nella tipica ridda di opinioni che accompagnano gli spostamenti dei personaggi controversi e geniali come el pibe de oro, il conferimento della cittadinanza onoraria al più grande calciatore del Novecento appare un gesto dovuto per chi ha portato nel mondo il nome di Napoli nel periodo forse più buio della sua storia. Sì, perché manca, nel racconto della favola degli scudetti, la contestualizzazione di quei trionfi nel momento contingente vissuto da quella Napoli, all’apice di un decadimento amministrativo, economico, sociale e culturale senza precedenti, che aveva portato la città a toccare il fondo e ad essere considerata tra le più degradate e abbandonate metropoli d’Europa. Quando la città esplose di gioia non era certo quella di oggi, capace di vivere un interessante slancio turistico e culturale. Nel 1987 mancava il flusso turistico verso il Golfo, da un quindicennio e completamente, per via del danno d’immagine causato dalle cattive narrazioni del colera del 1973. Il territorio era continuamente proposto sui media per gli effetti più incancreniti dell’insanguinata guerra tra la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo e la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri. Il terremoto del 1980 aveva portato in dote la gestione scriteriata degli stanziamenti per la ricostruzione, gestiti dalla politica per acquisire consenso elettorale, e i tempi si erano dilatati incredibilmente, lasciando incompleti molti progetti finanziati. Per il polo siderurgico di Bagnoli erano deflagrate le conseguenze delle sbagliata localizzazione in un’area inadatta all’esercizio di un impianto siderurgico moderno, e, impossibilitata a espandersi e modernizzarsi, era piombata in una crisi irreversibile che l’IRI “risolse” stabilendo la chiusura progressiva degli impianti a partire dal 1985. L’Alfa Romeo di Pomigliano, con la casa milanese in rosso, aveva lasciato a casa i suoi operai, e solo alla fine del 1986 lo Stato aveva ceduto tutto alla Fiat per salvare capra e cavoli. Tutto il malcontento degli anni Ottanta fu lenito da Maradona, sbarcato a Napoli in cambio di un gruzzolo pesantissimo che fu proprio la politica democristiana a mettere insieme, non il Napoli di Ferlaino, e lo fece per dare a un popolo ormai irrequieto e ribollente le giocate funamboliche del più estroso calciatore del mondo, quello che avrebbe potuto donare distrazione e felicità. Maradona fu una medicina sociale, e sortì gli effetti sperati col principio attivo della classe cristallina. Generò euforia, gioia e spensieratezza, facendo il Napoli campione nel campionato più importante dal mondo di quegli anni, e non vi fu appassionato di calcio al mondo che non associò il nome della città al nome del fuoriclasse universale, quando una delle capitali più ricche di storia e bellezze d’Europa era dimenticata da tutti.
Era probabilmente nel destino di Diego il matrimonio con Napoli. Non poteva starci certamente 
la Torino dell’industria, e neanche poteva sbocciare l’amore per l’altera Barcellona, la città chiusa e silenziosamente discriminatoria che condusse al riparo nella droga un ragazzo di Buenos Aires che era sbocciato nel povero Argentinos Juniors e che aveva sposato i colori proletari del Boca, contrapposto all’aristocratico River Plate. Nonostante le difficoltà ambientali e personali, l’amore sbocciò per la deindustrializzata e infamata Napoli, della quale fiutò la stessa intolleranza che credeva di essersi lasciato alle spalle in Catalogna, quella contro i sudaca, individuando nelle grandi squadre del Nord la rappresentazione del potere settentrionale da sabotare. Le sue intenzioni di fuggire da Napoli erano in realtà voglia di scappare all’estero, non in altre città d’Italia e non in squadre blasonate e pressanti. Era voglia di separarsi da Ferlaino, che non poteva separarsi da lui, pena il linciaggio. Per i napoletani non vi fu mai mancanza di amore, perché Diego sapeva che erano come lui. Con la città, la sua città, ha fatto pace dopo aver risolto la dipendenza dalla droga, nella sua seconda vita, e stando lontano dai suoi eccessi. Era giusto così, in fondo, lontano dalle folle asfissianti e dalle reclusioni, ma mai col cuore. La riconciliazione con Diego junior e ora l’abbraccio con la madre del figlio napoletano sono l’affresco di un uomo che ha fatto pace col suo passato e con la città dalla quale ha sempre ricevuto amore, ricambiandolo.
In fondo, la storia di Diego è anche la storia di Napoli: bellissima, incantevole, problematica, in procinto di mollare ma sempre capace di rialzarsi. Persino nel momento più basso della sua storia recente Parthenope ha fatto ben parlare di sé, grazie a Diego “el napolitano”, il Caravaggio del football, uno che mai sarà normale, proprio come Napoli.

Saluto a Paolo Villaggio, uomo in polemica col “suo” Sud

Angelo Forgione Scompare a 84 anni Paolo Villaggio, sangue palermitano e identità genovese trapiantata a Roma. Con lui, protagonista del fortunato Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller, entrai in polemica diretta nel 2011, dopo una delle tante violente alluvioni di Genova. Tra distruzione e emergenza, Villaggio se la prese col Sud, con la sua storia, colpevole, a suo dire, di aver infettato l’intera Italia. Questo era il suo modo di pensare, ma non ne aveva completamente colpa. La sua era un’errata presunzione di superiorità nordica, e gli era stata trasmessa dalla sua Genova, dalla storia d’Italia. Lui, che prediligeva da buon ligure la cultura anglosassone, non conosceva davvero la Storia, e non sapeva che i grandi problemi del Sud e anche del resto d’Italia erano radicati nelle politiche dei primi governi del Regno d’Italia, proprio quelle che avevano sollevato la sua Genova, insieme a Torino e Milano.
Se ne va uno dei sostenitori delle falsità storiografiche d’Italia, ma aveva almeno l’attenuante di esserne stato plagiato, non quella di aver insisto fino alla fine a puntare il dito con eccessiva severità e superiorità contro Napoli e il Sud.

A Petrolio (RAI), le costruizioni antisismiche borboniche

Anche Petrolio, trasmissione RAI che racconta la ricchezza nascosta d’Italia, si è occupata delle Case Baraccate, le costruzioni antisismiche d’ingegneria borbonica che resistettero al devastante terremoto del 1908 nello Stretto di Messina.

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approfondimenti sull’argomento in Made in Naples (Magenes, 2013)
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Stadio ‘San Paolo’: il Napoli non cresce e Napoli non canta

Angelo Forgione Mentre Napoli e Cagliari giocavano a chi sbagliava e segnava di più, il presidente De Laurentiis e il sindaco De Magistris assistevano allo spettacolo lontani l’uno dall’altro. La tregua tra il Comune di Napoli e la SSC Napoli, dopo la ventilata fuga in direzione Palermo, si è nuovamente interrotta in un’accesa discussione a Palazzo San Giacomo di venerdì scorso, e tra le parti è di nuovo gelo per la volontà del sindaco di aprire i cancelli dello stadio ai concerti di Vasco Rossi e Jovanotti del prossimo luglio. Il patron azzurro non ci sta, perché ha speso soldi per rifare il prato, e non ci stanno neanche i residenti attorno all’impianto sportivo, rappresentati dal comitato civico ‘Fuorigrotta vivibile’, che ha chiesto una convocazione urgente al Comune e ha inviato una diffida al Prefetto per segnalare l’esistenza di un fascicolo in Procura per inquinamento acustico. Furono proprio Mariano Attanasio e Teofilo Migliaccio, presidente e legale del comitato, a sollevare anni fa il problema delle strutture in acciaio montate per i Mondiali del 1990, che scaricavano al suolo le forti vibrazioni attraverso i sostegni della copertura e raggiungevano i palazzi circostanti. Risultato: veri e propri micro-terremoti che aprirono anche piccole lesioni nei fabbricati attorno. L’allarme fu lanciato proprio durante un concerto di Vasco Rossi nel luglio del 2004: in coincidenza dell’orario d’inizio il segnale monocromatico dell’Osservatorio Vesuviano cominciò a registrare un “fenomeno di rilievo”, che si protrasse per l’intera durata dell’esibizione musicale. Ballarono i fans del ‘Blasco’ ma anche i residenti di Fuorigrotta, che abbandonarono le abitazioni per timore di un sisma. Nel 2005 intervenne la Commissione Provinciale di Vigilanza, inibendo l’accesso al terzo anello in ferro durante le partite di Calcio. E finì anche l’epoca dei concerti nell’impianto flegreo.
Lo stadio continua ad essere un problema per la Città, che non ha altri spazi idonei per i grandi eventi musicali, ed è un gran problema anche per il Calcio Napoli, che perde potenzialmente 15 milioni di euro all’anno a causa delle carenze dell’impianto di casa. A certificarlo è la relazione del Coni Servizi, firmata da Michele Uva, direttore generale del Coni Servizi, nella relazione consegnata al Comune di Napoli lo scorso luglio per stimare il valore d’uso dell’impianto in funzione del rinnovo della convenzione con la SSC Napoli. Il club azzurro, nelle sue voci di bilancio 2012-2013, ha introitato 15 milioni dallo stadio, che, se adeguatamente sfruttato, potrebbe produrne invece oltre 31. Considerando i 41 milioni a bilancio della Juventus, i 34 del Milan, i 21 della Roma e i 20 dell’Inter, è evidente il limite rappresentato al momento dall’impianto di Fuorigrotta. “Lo stadio San Paolo – sottolinea Michele Uva – non può essere ad oggi considerato uno stadio moderno che permette lo sfruttamento delle potenzialità proprie della SSC Napoli».
I 15 milioni di euro annuali “non spremuti” frenano il passo in avanti che il virtuoso Napoli, giustamente refrattario al ricorso al credito delle banche, potrebbe e dovrebbe compiere al limite del suo percorso di costante crescita. Risorse che avrebbero consentito di trattenere qualche ‘top player’, o comprarne qualcuno in più per sostituirlo. Un vuoto che non può consentire ulteriori ritardi alla ristrutturazione dell’impianto da parte della società e del Comune. Il progetto doveva essere despositato in Comune entro marzo 2015, ma una nuova proroga ha portato il limite al 31 maggio. Non sono più tollerabili altri rinvii.

Territorio italiano disastrato? Perché cancellati gli insegnamenti borbonici.

Angelo Forgione L’ennesima alluvione a Genova ha creato di nuovo distruzione e lutto, per la seconda volta nell’arco di tre anni. Al di là degli sconvolgimenti climatici ormai irreversibili, le cause sono note e raccontano di una delle tante emergenze del territorio italiano, in cui le conseguenze delle calamità naturali producano sempre più danni. Corsi d’acqua ingovernabili, pareti montuose ad alta possibilità di frana, rischio sismico ignorato dal metodo edilizio… lo stato d’allerta ha ormai da tempo superato la soglia dell’imponderabilità. Oggi Genova è di nuovo in ginocchio e rivoltata come un calzino, e nel frattempo abbiamo dovuto assistere al disastro sismico in Emilia. E ritorna in testa la famosa frase di Paolo Villaggio, che tre anni fa tuonò contro la “cultura sudista meridionale borbonica, piaga di tutta l’Italia”, che, al contrario, insegnò a governare il territorio e a limitare gli effetti catastrofici della natura. Se i canali di scolo non fossero stati cementificati e si fosse costruito utilizzando il legno in muratura, così come ci insegnarono i Borbone, non saremmo arrivati a questo. Ribadire con i videoclip quanto ho scritto con maggiore approfondimento in Made in Naples consolida il messaggio, soprattutto se dopo la pubblicazione del lavoro ci hanno pensato scienziati e ricercatori a rafforzarne la veridicità, sconfessando la cultura storica tradizionale e tutti coloro che accusano di nostalgie chi indaga nella storia con serietà. Il passato, invece, può insegnarci a magliorare le conoscenze e la società futura. Vi siete mai chiesti, ad esempio, perché nelle università italiane di ingegneria non si insegna a progettare in legno, col risultato che nelle zone ad alto rischio sismico si costruisce con solo cemento armato, spesso di scarsa qualità?