L’anticristo della pizza

Angelo Forgione E così, nel cuore di Napoli invaso dai turisti, è caduto sulla pizza il muro dell’integralismo napoletano. La pizza con l’ananas non è più un tabù. L’ha demolito Gino Sorbillo, quantunque non sia stato il primo, tra i più noti pizzaiuoli, a usare il particolare frutto tropicale. È semmai il primo a far parlare di sé per il sacrilegio dell’ananas (a fette) sulla pizza napoletana.

Non è sicuramente un sacrilegio impiegare la frutta sulla pizza. Chi sostiene che lo sia non sa che i napoletani, nel primissimo Ottocento, hanno rivoluzionato il disco di pasta condito mettendovi sopra proprio un frutto esotico: il pomodoro. Sì, il pomodoro è esattamente un frutto sotto il profilo botanico, anche se sotto il profilo gastronomico viene comunemente ed erroneamente considerato un ortaggio.

Sia il pomodoro che l’ananas stanno bene con il salato perché frutti acidi e dolci, anche se il primo meno acido e dolce del secondo, e non sempre, dacché il pomodorino giallo è decisamente più dolciastro del rosso, quindi non troppo distante dall’ananas.
Il vero problema sta dunque nell’addizione dell’ananas al pomodoro, unione che crea eccessivo scompenso di acidità, tradotto in debolezza del gusto e scarsa digeribilità. Pensò male di mettere insieme i due frutti l’inventore della “hawaiana”, il greco Sam Panopoulos, in Canada, dopo aver assaggiato varie pizze a Napoli.

Franco Pepe, prima di Gino Sorbillo, ha messo nel menu del suo Pepe in grani di Caiazzo la Ananascosta, un cono con ananas avvolto nel prosciutto crudo, fonduta di Grana Padano e spruzzata di polvere di liquirizia.
Francesco Martucci, a I Masanielli di Caserta, propone la Annurca, con purea di mela annurca in infusione di vaniglia, guanciale croccante di suino grigio ardesia, fior di latte e, all’uscita, conciato romano.

Questi e altri noti pizzajuoli che hanno usato ananas, mele, albicocche o altri frutti acidi e semi-acidi per le loro proposte innovative hanno evidentemente evitato di addizionarli al pomodoro. E hanno pure ricercato un equilibrio tra il dolce e il salato, come avviene con prosciutto e melone, formaggio con le pere e altri abbinamenti che mangiano serenamente, finendo per abbinare la frutta a ingredienti salini e sapidi, strada percorsa anche da Gino Sorbillo, che ha voluto rumoreggiare più che innovare, sapendo che nel cuore di Napoli sarebbero arrivati più giornalisti che clienti a chiedere della sua nuova pizza. Renderebbe anche culturale l’operazione se alzasse il livello del dibattito spiegando che non è l’ananas sulla pizza ma l’ananas col pomodoro il vero sacrilegio.

Campania Felix a tavola

Angelo Forgione — La Cucina italiana è la migliore al mondo insieme a quella giapponese. E in testa al Globo svetta la cucina regionale della Campania, davanti a quella dell’Emilia Romagna.
Parola degli awards 2023/24 di TasteAtlas, l’autorevole Atlante del Gusto dedicato alla catalogazione e alla promozione dei prodotti locali, delle ricette tradizionali e dei ristoranti tipici di tutti i continenti.
Italia e Giappone hanno fatto registrare lo stesso punteggio medio, davanti alla Grecia, ma anche quest’anno lo Stivale ha conquistato il primo posto grazie alla valutazione più alta del suo piatto più votato: la pizza!
Ma la Campania non è solo la regione del piatto più diffuso nel mondo, e conquista la corona mondiale battendo la fortissima concorrenza delle altre regioni d’Italia, senza dubbio la nazione con più varietà sul pianeta Terra.

La parola italiana più diffusa al mondo è napoletana

La parola italiana più diffusa nel mondo? È pizza, pure tra le più diffuse in assoluto. Si tratta esattamente di parola dialettale napoletana, come ci spiega lo scrittore rinascimentale Benedetto Di Falco nel suo Rimario del Falco (vedi immagine) del 1535, riferendoci che il particolare lemma partenopeo, almeno già dal primo Cinquecento, è sinonimo di focaccia:

Focaccia in Napoletano è detta pizza

Pizza è parola oggi comprensibile al mondo, ma in tempi remoti era ignota al di fuori di Napoli come la è, ad esempio, cresuommolo per chi non conosce il dialetto napoletano.

Verosimilmente, pizza è una derivazione di pititia (particella “titi” = tts), di appartenenza allo strato germanico-longobardo, che al plurale (pititie) si ritrova in un documento napoletano di enfiteusi dell’anno 966, la più antica attestazione di tale termine, derivante a sua volta dal greco pita/pitta, trasformata dai barbari. Inutile ricordare che i napoletani sono un popolo di origine greca.

Trentun’anni più tardi, nel 997, si legge la parola pizze in un documento scritto in latino, il Codex Diplomaticus Cajetanus di Gaeta, territorio ducale facente parte della Campania. L’atto ha per oggetto la locazione di un mulino presso il fiume Garigliano e del terreno annesso di proprietà del vescovato a condizione che “[…] ogni anno nel giorno di Natale del Signore, voi e i vostri eredi dovrete corrispondere […] dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua di Resurrezione”.
Non si tratta certamente di pizze come le intendiamo noi ma di preparazioni ripiene rustiche o dolci, accezione ancora oggi parallela e secondaria a quella più comune (pizza di scarole, etc.), come si evince da quel che scrive Bartolomeo Scappi, cuoco papalino, che nel secondo Cinquecento scrive come preparare torta di diverse materie da Napoletani detta pizza. Lo stesso fa Jacopo Sannazaro, citando la piza cun lo mèle.

È alla fine del Cinquecento che si parla di “mastunicola”, una pizza antesignana di quella dei giorni nostri condita con strutto, pepe, formaggio di pecora e tanta vasinicola, il basilico in napoletano (dal greco vazilikon), che, per storpiatura, dà il nome alla pietanza.

Il filologo Emmanuele Rocco, nel 1858, nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti” diretto da Francesco De Bourcard, conferma che pizza, come parola e come pietanza, è una specificità esclusivamente napoletana:

“La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché […] è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli (…)”.

È ormai la pizza moderna, cioè rossa, condita con il pomodoro, che dall’inizio dell’Ottocento, nella tipicità lunga, è anch’esso una specificità della sola cucina popolare di Napoli. È in questo passaggio che bisogna individuare la vera rivoluzione dei pizzajuoli di Napoli, che in seguito farà scuola nel mondo.

La parola dialettale napoletana pizza e la pietanza partenopea che indica diventano internazionali solo dal dopoguerra in poi, quando i turisti americani, che hanno conosciuto la pizza nel loro paese grazie agli emigranti napoletani e ai soldati yankees inviati a Napoli, la cercano a Roma, a Firenze, a Venezia e un po’ dappertutto, ma non la trovano. La domanda americana crea l’offerta italiana di un prodotto che a Napoli è mangiato da qualche secolo. Si tratta del cosiddetto “pizza effect“, un termine sociologico che indica qualcosa che nasce in un luogo specifico, diventa noto in un’altra nazione che fa conoscere quel qualcosa alla nazione in cui si trova il luogo specifico d’origine.

Alfonso Pecoraro Scanio contro Alberto Grandi a tutela della Pizza napoletana

Angelo Forgione  — Chi meglio di Alfonso Pecoraro Scanio potevo allertare per arginare più incisivamente le inneffabili teorie di Alberto Grandi sulla pizza e non solo su quella? L’ex ministro delle politiche agricole, oggi presidente della Fondazione Univerde, è stato il promotore dell’Arte del Piazziuolo napoletano quale patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, e ha portato questo prestigioso risultato all’Italia e a Napoli. Era il più indicato per tutelare la pizza napoletana dalle sballate notizie storiche e dalle opinioni del professore mantovano di Scienza dell’alimentazione, alla ribalta con le sue narrazioni sulla storia e sull’evoluzione dei cibi italiani più rappresentativi, per lui riconducibili a origini e influenze americane più che italiane. Grandi, con l’intervista rilasciata al Financial Times, è tornato a far parlare di sé con più vigore dopo la ribalta conquistata lo scorso anno, attirandosi una tempesta di critiche da più fronti, ma pontificando sostanzialmente indisturbato.

Corrado Formigli ha ospitato entrambi a Piazzapulita (La7), e non è mancato un vivace botta e risposta su quanto di più antistorico ha dichiarato Grandi al Corriere della Sera:

«Finché è rimasta a Napoli, la pizza è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi, in particolare della salsa di pomodoro, diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa».

Una “schifezza”, la pizza a Napoli, per il professore, finché, a inizio Novecento, non fu nobilitata negli Stati Uniti dal pomodoro. Smentito documentazione alla mano dal sottoscritto a mezzo stampa, in questi giorni come un anno fa, è dunque toccato farlo in tivù ad Alfonso Pecoraro Scanio, ben informato sul periodo storico in cui il pomodoro lungo è finito sulla pizza per la lettura del mio saggio Il Re di Napoli, in cui sono riportate tutte le documentazioni che attestano come la pizza con il pomodoro sia nata a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, un secolo prima del periodo indicato dal professor Grandi (il primo Novecento newyorkese).

Lo scrive nel 1835 ne Le Corricolo Alexandre Dumas, probabilmente informato dal suo collaboratore napoletano, Pier Angelo Fiorentino, che il pomodoro è già sulla pizza in quel periodo:

“[…] La pizza è con l’olio, la pizza è con salame, la pizza è al lardo, la pizza è al formaggio, la pizza è al pomodoro, la pizza è con le acciughe. […]”.

Alberto Grandi ha sottolineato che «la salsa al pomodoro non è il pomodoro», facendone una questione di tipologia. Vien da chiedersi per il Nostro, e per Lorenzo Biagiarelli che nel dibattito ne condivideva l’obiezione, cosa finisca sulla pizza, oggi come due secoli fa, se non pomodoro lungo passato. E dunque, bene ha fatto Alfonso Pecoraro Scanio a reclamare con prontezza che i napoletani del primo Ottocento, con il pomodoro lungo, ci facevano banalmente la salsa passata. E mica ci voleva chissà quale scienza per schiacciarlo!

«Non erano degli imbecilli che non sapevano fare la salsa», l’opportuna riflessione dell’ex ministro. «La chiamavano “salsa alla spagnola”», ha replicato Grandi, scambiando la semplice salsa di pomodoro passato con un’altra più elaborata che a Napoli si preparava almeno dal secondo Seicento con pomodoro tondo. Ce ne dà testimonianza Antonio Latini ne Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, scritto e pubblicato a Napoli nel 1692, elencando la ricetta della “Salsa di Pomadoro, alla Spagnola”, fatta con pomodori (tondi), cipolle, peperoni, timo, sale, olio e aceto.

Due anni dopo la pubblicazione de Le Corricolo di Dumas, nel 1837, Ippolito Cavalcanti, incluse la ricetta dei “Vermicielli co le pommadore” nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica, e scrisse in vernacolo che bisognava far cuocere i pomodori, passarli e poi bollire “chella sauza” dopo aver fatto soffriggere olio e aglio.
Nello stesso trattato, il Cavalcanti elencava la “sauza de pommadore” tra gli ingredienti delle “Molignane a la Parmisciana”, la Parmigiana di melanzane.

Confusione tra salsa di pomodoro semplice ed elaborata, quella di Alberto Grandi, ma in ogni caso, va da sé che la salsa di pomodoro era già nelle conoscenze gastronomiche dei napoletani, e c’era già sulla pizza, come confermano pure i medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi nella ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863.

Crolla anche con il contributo di Grandi il teorema di Grandi, il quale ha pur sostenuto che la pizza napoletana, senza l’emigrazione in America, sarebbe scomparsa. Nella Napoli di inizio Novecento, mentre il primo napoletano faceva conoscere le pizze a New York (Gennaro Lombardi), si mangiava la pizza con il pomodoro da un secolo, e quella senza da almeno tre.

Le eresie del professore mantovano sono poi sfociate anche nell’argomento Dieta mediterranea:

«Ancel Keys – ha detto Grandi – ha scoperto alla fine della Seconda guerra mondiale che, rispetto agli americani, i napoletani non avevano colesterolo. Per forza, non mangiavano! Ci mancava anche che avessero il colesterolo».

«Forse mangiavano bene», ha ribattuto Pecoraro Scanio, anche in questo caso a giusta ragione.

Per il professore deve evidentemente valere la rappresentazione dei napoletani straccioni, gli unici nei quali poteva imbattersi Ancel Keys quando, nel 1952, si recò a Napoli con la moglie, la biologa Margaret Haney, per studiare l’alimentazione locale e la relativa incidenza sullo stato di salute dei cittadini una volta informato dal collega napoletano Gino Bergami della ridottissima incidenza delle patologie cardiovascolari nel capoluogo campano e dintorni. E invece il fisiologo americano, nei laboratori del Vecchio Policlinico, condusse le ricerche analizzando la salute e le abitudini alimentari dei Vigili del Fuoco e degli impiegati comunali, lavoratori stipendiati che il piatto a tavola lo portavano tranquillamente; e si recò nei mercati rionali per osservare cosa comprassero le massaie napoletane. Lo scienziato americano e la moglie rilevarono il basso consumo di carne e la dieta a base di pasta ricca di carboidrati, di verdure, di olio d’oliva, di pane, di legumi e di pesce, convincendosi che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute dei napoletani. Al termine dei suoi studi, nei suoi appunti, Keys annotò:

“A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.
A Napoli trovammo la conferma che Bergami aveva ragione riguardo alla rarità della malattia ischemica coronarica nella popolazione generale, ma in ospedali privati che ricoveravano persone ricche vi erano pazienti con infarto al miocardio. La dieta della popolazione generale era ovviamente molto povera in carne e formaggi, e Margaret trovò livelli di colesterolo sierico molto bassi in numerose centinaia di operai e impiegati presi in esame dal Dott. Flaminio Fidanza, un assistente di Bergami nell’Istituto di Fisiologia. Fui invitato a cena con i membri del Rotary Club. La pasta era condita con sugo di carne e tutti la ricoprivano con formaggio Parmigiano. Un arrosto di carne era il secondo piatto. Il dessert era una scelta di gelato o ricchi dolci. Persuasi alcuni commensali a venire da me per essere esaminati, e Margaret trovò il loro livello di colesterolo molto più alto che negli operai.”

Del resto, prima di essere chiamati “mangiamaccheroni”, i napoletani erano detti i “mangiafoglia”, perché erano i più grandi vegetariani d’Europa da secoli. Già nel Quattrocento abbondavano i vegetali nella cucina della corte aragonese di Napoli, diversamente da quella toscana dei Medici, dove eccedevano carni e selvaggina. Il broccolo era stato lo stereotipo alimentare dei napoletani prima di pizza e spaghetti, che erano cibi popolari nati nelle strade e accessibili anche per i più poveri. Vincenzo Corrado, altra figura di spicco della cultura gastronomica napoletana, scrisse nel secondo Settecento Il cibo pitagorico (Pitagora fu un convinto vegetariano), primo ricettario vegetariano della storia, un elogio al cibo fatto “di tutto ciò che dalla terra si produce” contro la sofisticata e pesante cucina di carne.

Alberto Grandi ha pure avvisato che gli italiani di oggi credono essere antichissima una dieta, la “mediterranea”, che fu invenzione di Ancel Keys. La verità è che la codifica, non invenzione, del fisiologo statunitense, sviluppata nel Cilento, partì dall’alimentazione dei napoletani, e si rifece anche e soprattutto alla loro cucina. Da tempo la gente partenopea seguiva, senza saperlo, una dieta molto prossima a quella che è oggi è considerata la più sana ed equilibrata del pianeta. La dieta napoletana era davvero la madre di quella “mediterranea”. Era, ma non è, perché è stata proprio la penetrazione delle abitudini alimentari americane dagli anni del benessere economico italiano in poi, a seppellire la sana alimentazione del popolo partenopeo. la Dieta mediterranea, globalizzata dall’Unesco, è sempre meno applicata in Italia, dove i potentati del cibo spazzatura impongono i propri stili, soprattutto tra i giovani e le fasce con un basso livello socio-economico. Numerose indagini hanno infatti mostrato un aumento di sovrappeso e obesità, anche in età adolescenziale, e il fenomeno è più diffuso al Sud, proprio lì dove è nata la dieta mediterranea. E meno male che le narrazioni imprecise di Alberto Grandi esaltano esattamente le influenze americane nella cucina italiana tutta.


Briatore, il “genio” ignorante

Angelo Forgione Neanche tanto velato l’attacco che Flavio Briatore ha mosso ai pizzaiuoli napoletani, colpevoli di vendere pizze a 4/5 euro, chissà con quale qualità.
Diciamola tutta… Prima che l’imprenditore cuneese facesse soldi con la pizza, la pizza napoletana esisteva da quattro secoli, radicandosi nella tradizione partenopea in quanto cibo popolare, capace di sfamare i poveri, partendo dai vicoli di Napoli. Sulla pizza si è oggi costruito un grande business che tende a stravolgerne l’identità, traducendola in un piatto costoso. E così Briatore ci mette su perfino il prosciutto spagnolo Pata Negra, e la vende nella centrale via Vittorio Veneto, così come Cracco vende la sua pizza nel salotto elegante di Milano (la Galleria Vittorio Emanuele II). Nella pizzeria di Briatore non si va tanto per mangiare bene e fare un’esperienza gustativa ma per dire di essere andati nel locale di Briatore, farsi un selfie e dimostrare ad amici e parenti di poter spendere anche 65 euro per una pizza da gente facoltosa nel cuore di Roma. Insomma, un concetto completamente opposto a quello che ha dato i natali al cibo più pop del mondo, che in certi quartieri di Napoli, là dove è appunto nato, si riesce ancora a gustare a prezzi popolari, e ci si va esclusivamente per mangiare una discreta pizza dal sapore retrò, al minimo costo consentito dal mercato locale. Tanto per fare un esempio, una “margherita” da Progiobbo ai Quartieri Spagnoli, una storica pizzeria come quelle della vera tradizione, la si paga 5 euro ma non è affatto un mattone con il laghetto di pomodoro sopra. Anzi, è decisamente buona e digeribile, non meno di quella di Briatore, che la vende a 15 euro perché è in via Veneto e non in via Speranzella.

In certe pizzerie di Napoli il prodotto non è di buon livello, ma nella media si mangia una pizza di buona qualità in ogni quartiere. Come in tutta Italia, dove in tempi di guerra una pizza “margherita” preparata con prodotti normali non costa più di 1€ al pizzaiolo, e non più di 2€ se fatta con prodotti di alta qualità, anche a Napoli ad incidere sul prezzo sono i fitti (diversi di zona in zona) e tutti i costi aggiuntivi. Quelli del personale, ad esempio, ed è qui che va semmai aperto il dibattito, perché il problema della pizza napoletana non sono gli ingredienti (il napoletano sa riconoscere una pizza buona da una cattiva, e non torna dove non l’ha ben gustata) ma, spesso, le paghe (basse) per il personale di servizio. Cioè, per privilegiare il consumatore, che chiede la pizza napoletana a prezzo popolare, si finisce talvolta per penalizzare il lavoratore. È di questo che bisognerebbe discutere, dato per inteso che con i tempi che corrono si fa davvero fatica a stare dentro ai prezzi di qualche mese fa.

Ritorno al principio, e ricordo a Briatore che le pizzerie, a Roma come altrove, sono nate solo nel dopoguerra, ed è accaduto perché i soldati americani avevano conosciuto la pizza in patria, lì importata dai napoletani nel primissimo Novecento, e pensavamo di trovarla dappertutto in Italia. Non sapevamo che era una tipicità di Napoli, che gli italiani non mangiavamo perché, come scrisse Carlo Collodi, era ritenuto “un sudiciume complicato” da napoletani. E ora con quel sudiciume c’è chi fa grandi fatturati, provando a insudiciare chi ancora porta avanti un’antica tradizione con grande rispetto per il prodotto.

«Io sono un genio — dice Briatore — e voi non lo siete: questa è la differenza». Be’… i geni inventano, e l’invenzione è dei napoletani. Briatore nulla si è inventato. È semplicemente uno come tanti che hanno puntato sul cibo più diffuso nel mondo, sfruttando la polemica con i pizzaiuoli napoletani per farsi pubblicità. Sai che novità?

Il fatto è che Briatore non conosce neanche la storia della pietanza con cui fa soldi. Dice che non è vero che la pizza è di origine napoletana, e che, se lo è, gli altri l’hanno migliorata. Di certo non lui, che non usa lievito e fa la piadina aperta.
Ma a chi permettiamo di parlare di arte dei pizzaiuoli napoletani Unesco? A un ignorante che fa da spalla a Cruciani. Suvvia!

video: https://fb.watch/dOM-Qiu4q7/

Il revisionismo sulla pizza su National Geographic

Angelo Forgione  Il falso parto della pizza Margherita, quello del 1889, diviene sempre più oggetto di attenzione internazionale.
La prestigiosa testata americana National Geographic, tradotta in decine di lingue, si è interessata alla vicenda portata alla ribalta negli ultimi anni, a gran forza, dal sottoscritto ma non solo, mettendo in forte dubbio il romantico e folcloristico racconto dell’omaggio tricolore del pizzaiuolo Raffaele Esposito alla regina Margherita di Savoia. Braden Phillips, autore di un articolato scritto per la famosa rivista,, definisce “recenti ricerche” quelle che, condotte dagli “storici dell’alimentazione”, hanno individuato “diversi buchi-chiave nel racconto“. Nell’articolo si legge:

“Probabilmente il fatto più schiacciante è che il piatto esistesse almeno tre decenni prima della visita dei Savoia a Napoli”.

Phillips si riferisce alla descrizione delle pizze di Napoli fatta da Emmanuele Rocco negli anni Cinquanta dell’Ottocento in Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, in cui si chiarisce che, ovviamente a Napoli, in una delle tante combinazioni di metà Ottocento almeno finivano “foglie di basilico”, “sottile fette di muzzarella” e “pomidoro”.
Una delle tante combinazioni di condimento, non la più gettonata. Rifacendomi alla ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863 dai medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi, ho chiarito in Il Re di Napoli come a quel tempo fosse una pizza preparata soprattutto d’estate, non essendoci l’industria delle conserve di pomodoro:

“I Napoletani mangiano a dovizia le pizze: (…) condite (…) con pomidoro specialmente in està (…)”.

Le “recenti ricerche” cui fa riferimento Phillips sono quelle dalle quali ho poi chiarito che la pizza di Napoli, nei primi decenni unitari del Regno d’Italia, era considerata un cibo da sudici straccioni napoletani, come si evince dalla descrizione che ne diede agli scolari italiani Carlo Collodi nel 1886, definendola un “sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore”.

Esistevano già le prime pizzerie, con tanto di tavoli, sedie e stoviglie, ma le pizze erano ancora vendute nelle strade di Napoli dai venditori ambulanti, a lungo infamati come pure ciò che proponevano e anche l’ingrediente che li imparentava alla pasta, il pomodoro, per anni considerato un segno di una meridionalità rozza e popolana. Dunque, l”italianizzazione” della pizza, tipica di Napoli, nascondeva il duplice scopo di creare affezione verso la Casa Reale e di restituire dignità al cibo di strada napoletano, danneggiato nella reputazione dalle diverse epidemie coleriche, soprattutto quella del 1884, di cui era divenuto, per molti timorosi, veicolo di contagio. I Savoia, che non potevano permettersi di trascurare i problemi sanitari di Napoli, la città più popolosa d’Italia, con la Legge per il Risanamento, fecero realizzare un più sicuro sistema fognario e un nuovo acquedotto, quello del Serino, garanzia di salubrità dell’acqua e della sicurezza alimentare. Almeno di un po’ di simpatia dovevano ricevere in cambio, attraverso l’associazione della pizza alla regina Margherita.

Braden Phillips scrive esattamente di operazione simpatia nel suo articolo per il National Geographic, e avanza la teoria della falsificazione della lettera di ringraziamento di Sua Maestà la Regina indirizzata a Raffaele Esposito Brandi, seguendo quanto ho scritto ne Il Re di Napoli di seguito riportato:

“(…) un documento pieno di incongruenze, dal quale si dovrebbe dedurre che il pizzaiuolo, sposando Maria Giovanna Brandi, ne avrebbe preso il cognome. Più facile che quel documento sia stato scritto in maniera fittizia, con timbri fasulli, dopo gli anni Venti del Novecento, quando la pizzeria in cui aveva lavorato Raffaele Esposito cambiò nome in Brandi, così da blindare l’invenzione di una tradizione apocrifa.”

Insomma, un racconto anche grazie al quale la pizza tricolore è divenuta la pizza regina, passando da Napoli a New York con gli emigranti, e solo dopo la guerra nel resto d’Italia e del mondo. Un racconto cavalcato dai discendenti di Maria Giovanna Brandi per aumentare l’appeal della pizzeria e gli affari. Se ne sono convinti anche quelli di National Geographic, dimostrandoci che la ricostruzione della storia della pizza tricolore ha ormai varcato i confini nazionali e si espande… a macchia d’olio.

Alberto Grandi: “Sulla pizza ho detto delle sciocchezze”

Angelo Forgione  Rieccoci al professor Alberto Grandi, il docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, colui che qualche tempo fa ha sostenuto che la pizza, come la conosciamo oggi (pomodoro e mozzarella), sarebbe nata in America, là dove di fatto la conobbero grazie agli emigranti napoletani.

Ora, in un’intervista data al Corriere della Sera, sostiene che anche le pizzerie sono nate negli USA:

Le pizzerie nacquero in America. Fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada”.

Ho contattato Grandi perché davvero non capivo dove poggiassero le sue ricerche e le sue teorie. Gli ho spiegato che la prima pizzeria americana con tavoli e sedie la apre l’emigrante napoletano Gennaro Lombardi nel 1905, 75 anni dopo le prime pizzerie “comode” di Napoli. E se è vero che a Napoli la pizza nasce come cibo di strada cotto nei forni e distribuito dagli ambulanti nel Settecento, è proprio dal primo Ottocento che si diffondono le pizzerie in quanto locali dove mangiare seduti solo la pizza. Presso l’Archivio di Stato di Napoli è consultabile l’Elenco dei pizzajoli con bottega del 1807, testimoniante il fatto che almeno dal principio dell’Ottocento chi preparava le pizze non riforniva solamente i venditori ambulanti ma le vendeva in proprio in un suo esercizio, anche se magari non disponeva ancora di tavoli e stoviglie. Di pizzerie come quelle di oggi ce ne dà testimonianza nientepopodimeno che Francesco De Sanctis nelle sue memorie di giovinezza:

“La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità.”

Scrisse di avere sedici anni, il grande letterato e politico campano, quando andava in quella pizzeria tra le prime con i compagni, ed era quindi il 1833, non a caso l’anno in cui al largo della Carità, oggi Piazza Salvo D’acquisto, Antonio La Vecchia aprì “Le stanze di Piazza Carità”, oggi ancora operanti sotto l’insegna Mattozzi.

La pizzeria Port’Alba era già dotata di sedute dal 1830. E tantissime furono le pizzerie con tavoli, sedie e stoviglie che operavano a Napoli ben prima del 1905, anno dell’apertura a New York della prima pizzeria, quella di Gennaro Lombardi, che replicò lì la pizza con pomodoro e mozzarella, sostituita con il formaggio locale. Che poi, come ho già detto, pizze e pizzerie si siano diffuse nel resto d’Italia solo dopo la Seconda guerra mondiale non significa che i primi a mangiare la pizza comodamente seduti siano stati gli americani. Loro l’hanno fatto prima degli italiani, vero, ma dopo i napoletani, che gli fecero conoscere pizze e pizzerie a casa loro.

Il professor Grandi, che almeno non è tra quelli che credono alla leggenda dell’invenzione della pizza “margherita” posticipata al 1889, vivaddio, ha correttamente ammesso di aver rilasciato dichiarazioni errate sull’argomento, di cui si è detto non troppo esperto e di averlo tenuto ai margini dei suoi scritti rispetto a tante altre trattazioni. Si è anche detto “illuminato” dalla citazione delle memorie giovanili di Francesco De Sanctis che gli ho sottoposto, da cui ha preso certezza che le pizzerie con tavoli e sedie esistevano a Napoli almeno ottant’anni prima di quelle americane, insieme ad altre nozioni sulla storia della pizza, da Napoli a New York, fino alla conquista del mondo.

Quello che intendeva evidenziare – mi ha detto – è l’importante ruolo che hanno rivestito gli Stati Uniti nel rendere globale la pizza, ovvero la triangolazione Napoli-USA-Italia e il cosiddetto “pizza effect“, il fenomeno sociologico per cui un elemento della cultura di un particolare popolo viene conosciuto e diffuso maggiormente in un’altra nazione, e successivamente reimportato nella nazione del popolo che l’ha creato. Così la pietanza, partendo da Napoli con gli emigranti a inizio Novecento, è stata conosciuta prima negli States e poi nel resto d’Italia, fino a conquistare l’Europa e il mondo.

Nella cordiale chiacchierata abbiamo parlato anche di origini abruzzesi-napolitane dell’Amatriciana e d’altro ancora. Mi ha infine invitato con cordialità a raccontare la vera storia della pizza in uno dei suoi prossimi podcast su Spotify, così tanto ascoltati da generare interesse sulle sue stravolgenti affermazioni circa le origini delle più note pietanze italiane tra giornalisti e food-blogger.

Restano alcune inesattezze riportate su Il Corriere della Sera e su Il Fatto Quotidiano, dal Grandi onestamente riconosciute. Inesattezze che tanto fanno presa sui media nazionali perché la cucina italiana fa parte della nostra identità, nazionale e locale, e rappresenta orgoglio per tutti. Ancor di più la pizza, che è il più famoso dei piatti napoletani e poi, grazie agli americani, anche italiano. Quei quotidiani nazionali, da me pure contattati al pari di Alberto Grandi, dovrebbero correttamente proporre la rettifica di chi fa chiarezza con testi e documentazione archivistica, non restando ancorati a quel sensazionalismo utile a richiamare l’attenzione dei lettori con cui si contribuisce a mettere disordine nella storia e a creare disinformazione e diversa ignoranza.

La guerra ignorante tra chi non conosce il “pizza effect”

pizza_chicago

Angelo Forgione Forti polemiche per l’autoproclamazione di Chicago a capitale mondiale della pizza. La città dell’Illinois, dunque, è convinta di essere il posto migliore del mondo per mangiare il piatto simbolo della cucina popolare napoletana, e lo ha annunciato su Twitter per festeggiare il World Pizza Day: «Orgogliosi di essere la capitale mondiale della pizza».
Non sembra essere d’accordo Phil Murphy, il governatore del New Jersey, che pure ha investito il suo stato del titolo di “Capitale mondiale della pizza” con un cinguettio sulla rete.

Quelli di Chicago vantano la deep-dish pizza, che non ha nulla a che vedere con l’originale pizza napoletana. Ha un altro impasto e lo strato di “mozzarella” è talmente alto da far sembrare la “pizza” una torta.
Quelli del New Jersey, invece, sbandierano la prima pizzeria d’America a Trenton, datata 1912. Peccato che si sbaglino, perché la prima pizzeria nella terra degli Yankees la aprì un napoletano, Gennaro Lombardi, e lo fece nel 1905 nella Little Italy di Manhattan. Era arrivato da Napoli nel 1897, mettendosi a fare la pizza napoletana dove nessuno l’aveva mai mangiata al di fuori di Napoli, Italia compresa. Al posto della legna usò il carbone e, per surrogare l’irreperibile mozzarella, si rassegnò al formaggio americano. Così nacque “Lombardi’s pizza”, e così gli americani, dal New York style che altro non era che una traduzione locale del piatto simbolo di Napoli, conobbero la pizza, sette anni prima dei cugini del New Jersey.

I newyorchesi pure si sono rizelati per quanto detto dai cugini degli altri stati, tutti dimenticando che il mondo non sono gli Stati Uniti, e anche se gli americani sono i primi consumatori al mondo di pizza gli unici ad aver diritto di fare una pernacchia a tutti sono proprio i napoletani, perché nel 1905, quando Gennaro Lombardi fece conoscere la pizza agli americani, a Napoli la si mangiava da almeno due secoli e mezzo, a partire dalla “mastunicola”, e che esistevano già un centinaio di pizzerie, la prima delle quali, a Port’Alba, operava già da 167 anni, cioè dal 1738. E lì, di fronte alla stessa pizzeria, ancora operante, è apposta un’epigrafe del 1796 con un bando borbonico su cui si legge che i deputati del tribunale comunicavano che l’esercizio della vendita dei generi alimentari sulla strada di Port’Alba, d’intralcio al passaggio dei pedoni e delle carrozze, sarebbe stato punito con sanzione pecuniaria di 24 ducati.Roba antica di secoli, e infatti l’Unesco riconosce quale patrimonio immateriale dell’Umanità l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani, checché ne dicano gli americani, che almeno hanno il merito di aver apprezzato la pizza prima degli italiani. Senza andare al tempo di Carlo Collodi, che sul finire dell’Ottocento la definì “sudiciume complicato” per descrivere agli alunni delle scuole italiane cosa mangiavano i napoletani, basta puntare al secondo dopoguerra, quando Ancel Keys, il fisiologo statunitense che nei primi anni Cinquanta, partendo dallo studio della virtuosa alimentazione dei cittadini partenopei per arrivare a codificare il modello nutrizionale della Dieta Mediterranea (anch’essa patrimonio Unesco), assaggiò la pizza originale a Napoli, e poi in un ristorante della vicina Roma gliela rifiutarono: «Spiacenti, niente pizza qui, quella è roba da napoletani». Divenne simbolo degli italiani solo a partire dagli anni Sessanta, quando i turisti americani la richiesero continuamente, perché nell’America molto meno snob dell’Italia era già apprezzatissima, e questo chi conosce la storia della pizza glielo riconosce agli americani, tant’è che per il mondo intero esiste il pizza effect. Si dice tale un fenomeno culturale che viene esportato da un paese, si trasforma in un altro e poi torna alla cultura iniziale.

Cruciani: «Vesi è il manifesto de La Zanzara»

Un napoletano che boccia Napoli e promuove Milano con tutti gli stereotipi su Napoli è oro colato per Giuseppe Cruciani. E infatti l’uscita a farfalle di Giuseppe Vesi l’ha definita «il manifesto de La Zanzara», e non c’è bisogno di aggiungere altro.
Peccato per lui, però, che Vesi non abbia fatto il Leopoldo Mastelloni di turno. Lo ricordate l’attore che, sempre a La Zanzara, disse che Napoli è malfamata, pericolosa, invivibile, e che ormai si sente romano? No, Vesi si è sottratto, e lui si è vendicato come poteva. Non pago, ha fatto pure il furbetto con me e Gianni Simioli.

Le 7 strisce sulla Pastiera napoletana? Una “bufala” nata nel 2016.

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Angelo ForgioneLa fantasia dei napoletani è proverbiale e affonda le sue radici nella nascita stessa della città, nella mitica leggenda della donna uccello Parthenia, la Sirena che, insieme a Ligea e Leucosia, si getta in mare in preda alla disperazione causata dall’insensibilità di Ulisse alla malia del loro canto e finisce defunta sulle sponde rocciose dove viene fondata la Palaeopolis pregreca, nominata appunto Parthenope.
Sono trascorsi millenni e le leggende continuano ad essere partorite, alcune riferite a miti e simboli autentici, altre inventate di sana pianta, senza alcun esoterismo di fondo… come quella recentissima delle sette strisce di pasta frolla incrociate a croce greca – tre in un senso e quattro nell’altro – che dovrebbero coprire la deliziosa Pastiera napoletana. Rappresenterebbero la “planimetria” ippodamea a scacchiera di Neapolis, il centro storico Unesco, con i suoi plateai / decumani intersecati dagli stenopoi / cardi. Una fantasia che non trova corrispondenza nel numero, visto che i plateai / decumani sono effettivamente tre ma gli stenopoi / cardi che li intersecano sono assai più di quattro (e irregolari).

neapolis_planimetria

Una fantasia che, soprattutto, non trova alcun riscontro nelle documentazioni storiche e nelle primissime ricette scritte al tempo del Regno di Napoli, tra l’epoca barocca e quella neoclassica. La nascita della Pastiera napoletana è infatti databile al Cinquecento, ma la preparazione, come quelle di altre squisitezze partenopee, è stata incubata, modificata e perfezionata nel tempo all’interno dei monasteri dell’antica Napoli. Nel Settecento, proprio le suore di San Gregorio Armeno ne avrebbero canonizzato la versione attuale, diversa da quella dell’epoca barocca precedente. Il nome “Pastiera”, infatti, come già divulgato da chi scrive, compare per iscritto nel 1693 nel trattato di cucina Lo scalco alla moderna del marchigiano Antonio Latini, scritto a Napoli e qui pubblicato nel 1693. La ricetta è quella della Di Grano, detto alla Napolitana Pastiera, una torta a metà tra il rustico e il dolce in cui, oltre a grano e ricotta, era prevista una bella quantità di formaggio Parmigiano grattato, pepe, sale, pistacchi in acqua rosa muschiata e latte di pistacchi, tutto raccolto in pasta di marzapane stemperata con altri aromi antichi.

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Il Latini non fa alcun riferimento al numero di “sfogli” di marzapane per la copertura, e non lo fa neanche il pugliese Vincenzo Corrado, capocuoco presso il palazzo Cellamare di Napoli, che nel 1773, cioè ottant’anni più tardi, pubblica la prima edizione de Il Cuoco Galante, dove si legge la preparazione della Torta di frumento. Le modalità descritte dal Corrado insegnano a preparare una Pastiera più aderente a quella dolce di oggi, pur partendo dalla cottura del grano in un brodo di cappone, “la quale si coprirà con altra pasta a striscie”, senza alcuna indicazione di quantità.

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Neppure il napoletano Ippolito Cavalcanti, nel 1837, accenna in alcun modo alle sette strisce nella sua ricetta scritta nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano inserita nella prima edizione del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica, vero e proprio compendio dell’ormai moderna cucina napoletana. Le indicazioni del Cavalcanti insegnano a preparare una Pastiera dolce, pur offrendo l’opportunità di farla “rusteca”.

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Il Cavalcanti scrive di “cancellata de tante laganelle”, senza precisare quante. Non lo fa nessuno per secoli, facendosi pastiere di ogni strisciatura nelle case e nelle pasticcerie vesuviane. Fino al 2016, quando una pasticceria nel cuore dei decumani distribuisce ai suoi clienti un racconto cartaceo intestato alla onlus “I Sedili di Napoli” in cui si narra dell’opportunità di coprire la Pastiera proprio con sette strisce, esattamente come quella mostrata dal pasticciere immortalato nella foto.

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Nient’altro che un’ottima operazione di marketing territoriale che però non sfonda con la sola diffusione cartacea e con la pubblicazione su corpodinapoli.it. C’è bisogno dei social network affinché la divulgazione della nuova leggenda bruci i tempi biblici della tradizione orale e corra a velocità della rete. Le pubblicazioni sui portali identitari e soprattutto sui gruppi facebook napoletanisti si ripetono con un certo impulso a Pasqua del 2019, tutti ricalcando a cascata lo scritto de “I Sedili di Napoli” e quindi senza offrire fonti a coloro che le chiedono, pochi per la verità. Pasqua 2020 è quella dell’esplosione virale della bufala, e ci casca anche qualche divulgatore di spicco. La leggenda metropolitana è ormai virale, e me ne accorgo sulla mia pelle l’11 aprile, vigilia della Resurrezione, pubblicando su Facebook un post sulla storia della Pastiera con una foto allegata che mi ritrae in quarantena al balcone con la mia Pastiera in mano. La mia “cancellata” a rombi è realizzata con sei strisce, esattamente come in passato, quando mai nessuno ha trovato nulla da contestare. Stavolta, invece, apriti cielo! Fioccano commenti del tipo mi cadi proprio sulla pastiera! Le strisce devono essere 7″, come se proprio io abbia commesso alto oltraggio alla napoletanità. Buona parte dei lettori, invece di beneficiare della storia documentata della Pastiera napoletana loro offertagli, del sorprendente passaggio dalla torta rustica alla torta dolce, trovano da ridire sul numero di strisce.
Il giorno seguente, sera della domenica di Pasqua, il presidente della Onlus “I sedili di Napoli”, Giuseppe Serroni, pubblica un suo post sulla pagina Facebook personale (taggando il titolare della pasticceria da cui tutto ha avuto origine) con cui si dice “lieto dell’attuale divulgazione di massa, col copia-incolla, in molti casi” della storiella, avvertendo che “il documento originale è del 2016, quando la Pasticceria Ippolito a San Gaetano, cominciò a distribuirlo ai suoi acquirenti”.

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Nonostante l’ammissione pubblica, qualcuno continua a chiedere le fonti a Serroni, il quale avvisa che non c’è nessuna fonte storica. La cosa è nata un po’ per scherzo, un po’ come “ipotesi” per ricordare che abbiamo Radici storiche e Culturali molto antiche e che la Sacralità muove ancora oggi le azioni dei Napolitani. Oggi vedo, con un sorriso, che questa “teoria” è diventata “verità” perché quest’anno sta invadendo i Social”. Macché! Nessuna verità, neanche tra virgolette; non può diventarlo uno “scherzo-ipotesi” nato per attrarre clienti in pasticceria, click sul web e like sui social, a meno che non si voglia credere anche, per esempio, che la pizza margherita, già esistente almeno nel 1858 borbonico, sia stata inventata per l’omonima Savoia regina d’Italia nel 1889. Almeno lì sono passati un secolo e mezzo di delicata retorica risorgimentale. Qui siamo di fronte a un’invenzione suggestiva alla quale in tanti hanno creduto in men che non si dica, ma pur sempre tale.