Promozione Natale 2023

Natale! È tempo di regali… e di promozione dei miei lavori, da mettere sotto l’albero con un bel po’ di risparmio e con una mia dedica personalizzata. C’è tanta storia e cultura di Napoli, del Sud e d’Italia da conoscere, da regalare e da regalarsi.

2 copie a scelta, anche dello stesso titolo: € 21 (+ spese spedizione). Ogni copia aggiuntiva: € 10,50.


Info e ordini: staff_angelo_forgione@yahoo.com

See Naples and then die


Angelo ForgioneNapulitanamente è un magazine cartaceo e online che si occupa della divulgazione della cultura napoletana e del patrimonio partenopeo all’estero, spaziando dall’intero Sud Italia a tutta l’area mediterranea, da Napoli a Teheran. Si tratta di un progetto editoriale libero e indipendente che, in meno di tre anni, ha pubblicato, con buon successo nel mondo, 6 numeri, più due extra, con articoli e interviste su storia napoletana, lingua, tradizioni, arte, artigianato, musica, teatro, cinema, filosofia, tecnologia, cucina, business e molto altro.
Nel n.7, appena pubblicato, spazio anche per me. Qui di seguito, la traduzione in italiano delle pagine a me dedicate, anche riportate sul sito napulitanamente.com.

Vedi Napoli e poi muori

Angelo Forgione sfata i miti napoletani e svela la realtà

di A. Sujit

Angelo Forgione, giornalista e scrittore, si occupa di cultura, di costumi e di storia di Napoli e del Sud Italia, oltre ad avere cura dell’integrità grammaticale e ortografica della lingua napoletana e a essere famoso anche perché esperto di sport. Nonostante il suo stretto legame con la terra e lo stile di vita napoletani, ha una visione assolutamente obiettiva, e le sue opinioni sono piuttosto significative. Leggendo i suoi saggi, quindi, è facile comprendere la reale situazione in cui si trovano i napoletani.

Per più di 150 anni, l’Italia ha diffuso miti negativi su quello che un tempo era il Regno di Napoli, che comprendeva tutto il Sud Italia. Tuttavia, le opinioni dei turisti smentiscono certe false affermazioni e dimostrano che Napoli è una città sorprendente e piena di bellezze. La capitale dell’Italia meridionale continua a impressionare sia i visitatori stranieri che quelli italiani, nonostante la cattiva propaganda di cui spesso soffre. Questo paradiso, abbracciato dal Vesuvio e dai Campi Flegrei, fu un tempo il più popoloso e vivace dello “Stivale”, almeno dal XIV alla metà del XIX secolo. Oggi si rivela un mondo più che una città.

Chi visita Napoli desidera qualcosa di più di un semplice luogo dove rilassarsi; vuole capire cosa vuol dire essere napoletani, assaggiare la deliziosa cucina, conoscere la storia intrigante e sperimentare la vita quotidiana. Forgione ci spiega che il viaggiatore avventuroso è motivato a scoprire come la tenace comunità napoletana abbia perseverato e continui a farlo sfidando due vulcani attivi che hanno il potenziale per causare conseguenze disastrose.

A causa di terribili miti, alcuni dei quali sono ancora diffusi tra gli italiani che vivono in Italia e nel mondo, la maggior parte delle persone, tra cui pure diversi napoletani, non sono a conoscenza delle maggiori ricchezze storiche della città. In alcuni libri di testo italiani distribuiti all’estero, i napoletani e gli abitanti dell’Italia meridionale sono descritti come gente incline al crimine, proprio come li definì Cesare Lombroso. Si tratta, come sostiene Forgione, di uno stereotipo ingiustificato che nasconde i veri grandi scandali nazionali e che hanno origine proprio in quel territorio con maggiori opportunità e capacità di attrarre ricchezza, cioè il Nord Italia, dagli scandali del vino all’etanolo agli appalti per l’Expo di Milano e per il MoSE di Venezia, dal crac Parmalat alle controversie della Juventus della famiglia Agnelli, fino a tutte le multinazionali del Nord e tutte le banche che hanno rubato molto più di tutti i ladri napoletani messi insieme dal dopoguerra a oggi. Spesso, la pulizia morale è stata fatta dai competenti magistrati napoletani.

La corruzione italiana ha raggiunto il suo picco con le gare d’appalto milanesi per l’Expo di Milano del 2015. Di conseguenza, il governo italiano si è visto costretto a costituire l’Associazione Nazionale Anticorruzione. Raffaele Cantone, magistrato napoletano incaricato di preservare la trasparenza e l’integrità delle procedure governative, fu il primo nominato a guidare tale istituzione. Considerata la grande moralità dei napoletani onesti, che costituiscono la netta maggioranza, e la provenienza dei responsabili delle grandi truffe italiane, risulta errato il presupposto che etichetta i partenopei come truffatori. Napoli fu scelta per ospitare il G7 del 1994 per presentare un’immagine diversa del Paese, della sua bellezza regale e del suo significato storico e della pulizia degli appalti, restituendo lustro a una città fino ad allora trascurata dalle istituzioni nazionali e spazzando via alcune spiacevoli percezioni sulla nazione italiana generate dalla Tangentopoli milanese di inizio anni Novanta. La graduale ripresa dell’immagine della città si arrestò bruscamente un decennio fa, ma momentaneamente, per le vicende dei rifiuti nelle strade, causata da un patto scellerato tra malavita campana, massoneria deviata e imprenditoria del Nord. Forgione invita ad informarci sul ruolo che ricoprirono i fratelli veneti Stefano e Chiara Gravioli e la loro cricca, che come altre, tenevano in scacco Napoli in quel periodo, per comprendere quello scenario.

Napoli, in quanto importante centro culturale d’Italia, è detentrice di numerosi primati internazionali, città d’arte tra le primissime d’Italia, culla della cultura occidentale, crogiuolo di stili artistici e di tesori eccezionali. La città accresce la sua immagine di luogo privilegiato di vacanza affrontando questioni moderne e riuscendo comunque ad attirare l’attenzione internazionale. È una destinazione irripetibile, non globalizzata, una città con un patrimonio materiale ed immateriale, intellettuale e storico, che la rende unica. Le principali risorse economiche di Napoli andarono perdute a seguito dell’Unità d’Italia, che fu di fatto una vera invasione. Preconcetti e timori, alimentati da rappresentazioni come quelle di certe serie televisive, possono essere spazzate via solo dopo aver visitato la città; viene così a scopersi una nuova prospettiva che evidenzia i migliori valori della realtà partenopea. Lontano dai luoghi comuni che associano Napoli esclusivamente a spaghetti pizza e mandolino, Forgione sottolinea nel suo libro Made in Naples che Napoli è uno scrigno di cultura, e avverte che il problema sta nel non riuscire a comunicare al mondo che si tratta di un luogo bellissimo con un’identità distintiva, e che affidarsi all’esperienza diretta e al passaparola è un modo inadeguato per interagire con i viaggiatori.

AF: “In Italia, in Europa, nel mondo, c’è uno scrigno da aprire. Dentro vi è custodita una città romantica quanto Parigi, colorata quanto Barcellona, aristocratica quanto Londra, eterna quanto Roma, accogliente quanto Berlino, colta quanto Vienna, sorprendente quanto Istanbul. E, cosa non dappoco, più buongustaia di tutte”.

Tutti possiamo fare molto per sfatare il mito di Napoli città maledetta. Forgione incoraggia i napoletani a impegnarsi nello scambio culturale con il resto del mondo al fine di abbattere le barriere isolazioniste, che i napoletani di oggi creano perché pensano di bastare a loro stessi. Per Forgione, la strada giusta da seguire è quella di porre fine all’ignoranza sostituendo le menzogne con la verità, acquisire una maggiore consapevolezza. Ma prima di tutto, i napoletani devono essere più uniti e non diffidare gli uni degli altri. Afferma che a molti napoletani manca la capacità di fare rete per un obiettivo comune, perché la città non può contare su risorse finanziarie sufficienti e deve competere con territori più ricchi che possono contare su buona pubblicità e valorizzazione. È un’urgente necessità, stante un rozzo e cronico atteggiamento anti-napoletano e anti-meridionale, spesso latente e talvolta manifesto, ma anche una crescente esaltazione neo-meridionalista di pancia che non produce nulla ma fa solo da freno. Bisogna convertire la menzogna in verità, la presunzione in consapevolezza e il rancore in fierezza.

AF: ”Il divario Nord-Sud si manifestò nella seconda metà dell’Ottocento, con le politiche dei governi del Regno sabaudo d’Italia che penalizzarono pesantemente il Mezzogiorno. Per decenni si è raccontata un’altra storia, e cioè che l’arretratezza del Sud preesisteva all’unità, ma la verità è che in quel momento storico non vi era un divario significativo in termini di prodotto interno lordo e una reale differenza tra Nord e Sud, tra due economie di pari livello, pur con specificità produttive diverse. Il Sud, infatti, disponeva di importanti porti commerciali ed era più avanzato del Nord per quanto riguarda l’innovazione tecnologica e il settore estrattivo. Il Nord Italia era all’avanguardia nel settore tessile e beneficiava della vicinanza ai principali mercati continentali. Era semmai tutta l’Italia ad essere arretrata rispetto ai paesi guida del progresso europeo, poiché dipendeva essenzialmente dall’agricoltura.”

La spaccatura fu inizialmente causata dalla moderna industria italiana, che interessò solo una piccola parte del Paese. Ad esso si aggiunse anche il debito pubblico per le guerre per il processo di unificazione del nuovo Stato, che iniziò sommando i debiti di tutti gli Stati preunitari annessi al territorio.

Forgione afferma che la nuova Italia repubblicana è responsabile di non aver colmato il divario, indipendentemente dalla sua origine storica. Nel Dopoguerra, i finanziamenti del Piano Marshall furono impiegati scientificamente per ricostruire le industrie settentrionali e portare gli operai meridionali al Nord, non per portare le fabbriche anche al Sud, e se poi qualcosa si è fatto con la Cassa per il Mezzogiorno è poi risultato effimero, perché la creazione di stabilimenti industriali nel Meridione, senza sviluppare strade e trasporti, ha privato gli stessi della necessaria competitività.

Arretratezza, criminalità e ignoranza facevano parte di tutti i territori italiani preunitari, e al Sud sono cresciuti come accade in tutti i territori più poveri. Perché si continua a raccontare una storia falsa? Per nascondere le colpe dei governi italiani da 160 anni a questa parte.

Forgione sottolinea la necessità di rafforzare l’influenza di Napoli, portando l’esempio della pinacoteca del Museo di Capodimonte, una delle più preziose d’Italia, accostabile per rilevanza e densità di capolavori a quella degli Uffizi a Firenze, di Brera a Milano e della Galleria Borghese a Roma, ma il numero di visitatori non è affatto all’altezza di tanta importanza.

La mostra “Naples à Paris” in corso al Louvre mira a mettere in risalto le risorse culturali della città in tutto il mondo come investimento di immagine a lungo termine. È importante ricordare che Napoli fu fondamentale nella trasmissione della cultura greca alla società romana. Ha avuto influenza anche nell’esercizio della cultura moderna, terreno fertile per artisti e innovatori nei campi industriale, scientifico e tecnologico. Ci sarebbe molto altro da dire sulla storia di questa città così complessa per natura e società, su ciò che è stato fatto e non. Da molti anni Angelo Forgione dedica il suo tempo e i suoi studi all’analisi di questi temi. Il suo ultimo libro si intitola Napoli Svelata, e svela lo “scrigno” attraverso quindici racconti che chiariscono il passato per comprendere il presente della città partenopea e della sua gente.

Cosa ci puoi dire di Napoli Svelata?

AF – “Come nei miei precedenti lavori su Napoli, tutti complementari tra loro, racconto e approfondisco vicende storiche sorprendenti, alcune sconosciute ma tutte importanti per capire Napoli, assai ricca di storie perché possa essere capito con facilità. Napoli, città porosa proprio come il tufo su cui poggia, ha assorbito e poi restituito con linguaggio proprio e idee nuove. Qui, tra i tanti ingegni, sono nate la viticoltura italiana con i suoi vini, la vulcanologia e l’archeologia. Qui sono state stimolate l’igiene ambientale e personale. Qui sono stati sperimentati e affinati i primi vaccini. Qui sono state perfezionate eccellenti maestrie, qualcuna superata, qualcun’altra in via di estinzione e altre ancora, come la sartoria maschile, solidamente apprezzate nel mondo. Qui, tra particolari usanze alimentari, si è diffuso il mangiare e bere ghiacciato. Qui sono germogliati il cinema, la cultura sportiva e persino il dogma dell’Immacolata Concezione. Insomma, racconto 15 grandi storie napoletane da conoscere per conoscere meglio una città tra le più antiche d’Europa, fondamentale – lo ribadisco – nella trasmissione della cultura greca alla società romana e di importanza sempre crescente dal Rinascimento in poi, fino a diventare una delle maggiori capitali d’Europa, la più espressiva, prima di decadere nell’Italia politicamente unita. E alla fine propongo anche una mia ricostruzione circa l’origine ignota del noto detto sulla città “vedi Napoli e poi muori”. Una città da vedere prima di morire, ma anche da capire. Io lavoro per questo.”

Oltre ad essere un appassionato ricercatore della storia e della lingua napoletana, sei anche un tifoso ed esperto di calcio. Dopo 33 anni il Napoli vince nuovamente il campionato italiano. Cosa rappresenta questo per i napoletani?

AF:”I napoletani amano il Napoli in modo viscerale, lo percepiscono come una voce della città, sperando sempre che faccia la voce grossa con le squadre del Nord e i loro tifosi, che sono dappertutto, ma anche con le realtà del capitale d’Italia. Vincere al Sud è difficilissimo, e il Napoli è l’unico club meridionale che può arrivare alla vittoria. I napoletani hanno la percezione che prima o poi il trionfo arriverà. E proprio per i motivi già spiegati di tifo identitario, il trionfo venturo sarà di quelli che doneranno gioia collettiva di popolo ed emozioni condivise.
Certo che il calcio non risolve i problemi di un luogo e le diseguaglianze, ma il calcio è la più coinvolgente delle passioni popolari, e perciò i trionfi del Napoli ritemprano l’umore collettivo, cosa di cui c’è sempre forte bisogno laddove c’è da impegnarsi costantemente per risolvere i quotidiani problemi esistenziali. E poi sono trionfi che significano che c’è un Sud del calcio che può guastare i piani del Nord, e questo è un esempio per tutto il resto della vita sociale d’Italia. Stavolta, lo scudetto, diversamente da quelli degli anni di Maradona, ha dato ulteriore spinta a una città in pieno rilancio culturale e turistico e non ha fatto da traino ma ha rafforzato ancora di più l’esposizione mediatica e l’appeal di Napoli.”

Alfonso Pecoraro Scanio contro Alberto Grandi a tutela della Pizza napoletana

Angelo Forgione  — Chi meglio di Alfonso Pecoraro Scanio potevo allertare per arginare più incisivamente le inneffabili teorie di Alberto Grandi sulla pizza e non solo su quella? L’ex ministro delle politiche agricole, oggi presidente della Fondazione Univerde, è stato il promotore dell’Arte del Piazziuolo napoletano quale patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, e ha portato questo prestigioso risultato all’Italia e a Napoli. Era il più indicato per tutelare la pizza napoletana dalle sballate notizie storiche e dalle opinioni del professore mantovano di Scienza dell’alimentazione, alla ribalta con le sue narrazioni sulla storia e sull’evoluzione dei cibi italiani più rappresentativi, per lui riconducibili a origini e influenze americane più che italiane. Grandi, con l’intervista rilasciata al Financial Times, è tornato a far parlare di sé con più vigore dopo la ribalta conquistata lo scorso anno, attirandosi una tempesta di critiche da più fronti, ma pontificando sostanzialmente indisturbato.

Corrado Formigli ha ospitato entrambi a Piazzapulita (La7), e non è mancato un vivace botta e risposta su quanto di più antistorico ha dichiarato Grandi al Corriere della Sera:

«Finché è rimasta a Napoli, la pizza è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi, in particolare della salsa di pomodoro, diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa».

Una “schifezza”, la pizza a Napoli, per il professore, finché, a inizio Novecento, non fu nobilitata negli Stati Uniti dal pomodoro. Smentito documentazione alla mano dal sottoscritto a mezzo stampa, in questi giorni come un anno fa, è dunque toccato farlo in tivù ad Alfonso Pecoraro Scanio, ben informato sul periodo storico in cui il pomodoro lungo è finito sulla pizza per la lettura del mio saggio Il Re di Napoli, in cui sono riportate tutte le documentazioni che attestano come la pizza con il pomodoro sia nata a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, un secolo prima del periodo indicato dal professor Grandi (il primo Novecento newyorkese).

Lo scrive nel 1835 ne Le Corricolo Alexandre Dumas, probabilmente informato dal suo collaboratore napoletano, Pier Angelo Fiorentino, che il pomodoro è già sulla pizza in quel periodo:

“[…] La pizza è con l’olio, la pizza è con salame, la pizza è al lardo, la pizza è al formaggio, la pizza è al pomodoro, la pizza è con le acciughe. […]”.

Alberto Grandi ha sottolineato che «la salsa al pomodoro non è il pomodoro», facendone una questione di tipologia. Vien da chiedersi per il Nostro, e per Lorenzo Biagiarelli che nel dibattito ne condivideva l’obiezione, cosa finisca sulla pizza, oggi come due secoli fa, se non pomodoro lungo passato. E dunque, bene ha fatto Alfonso Pecoraro Scanio a reclamare con prontezza che i napoletani del primo Ottocento, con il pomodoro lungo, ci facevano banalmente la salsa passata. E mica ci voleva chissà quale scienza per schiacciarlo!

«Non erano degli imbecilli che non sapevano fare la salsa», l’opportuna riflessione dell’ex ministro. «La chiamavano “salsa alla spagnola”», ha replicato Grandi, scambiando la semplice salsa di pomodoro passato con un’altra più elaborata che a Napoli si preparava almeno dal secondo Seicento con pomodoro tondo. Ce ne dà testimonianza Antonio Latini ne Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, scritto e pubblicato a Napoli nel 1692, elencando la ricetta della “Salsa di Pomadoro, alla Spagnola”, fatta con pomodori (tondi), cipolle, peperoni, timo, sale, olio e aceto.

Due anni dopo la pubblicazione de Le Corricolo di Dumas, nel 1837, Ippolito Cavalcanti, incluse la ricetta dei “Vermicielli co le pommadore” nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica, e scrisse in vernacolo che bisognava far cuocere i pomodori, passarli e poi bollire “chella sauza” dopo aver fatto soffriggere olio e aglio.
Nello stesso trattato, il Cavalcanti elencava la “sauza de pommadore” tra gli ingredienti delle “Molignane a la Parmisciana”, la Parmigiana di melanzane.

Confusione tra salsa di pomodoro semplice ed elaborata, quella di Alberto Grandi, ma in ogni caso, va da sé che la salsa di pomodoro era già nelle conoscenze gastronomiche dei napoletani, e c’era già sulla pizza, come confermano pure i medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi nella ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863.

Crolla anche con il contributo di Grandi il teorema di Grandi, il quale ha pur sostenuto che la pizza napoletana, senza l’emigrazione in America, sarebbe scomparsa. Nella Napoli di inizio Novecento, mentre il primo napoletano faceva conoscere le pizze a New York (Gennaro Lombardi), si mangiava la pizza con il pomodoro da un secolo, e quella senza da almeno tre.

Le eresie del professore mantovano sono poi sfociate anche nell’argomento Dieta mediterranea:

«Ancel Keys – ha detto Grandi – ha scoperto alla fine della Seconda guerra mondiale che, rispetto agli americani, i napoletani non avevano colesterolo. Per forza, non mangiavano! Ci mancava anche che avessero il colesterolo».

«Forse mangiavano bene», ha ribattuto Pecoraro Scanio, anche in questo caso a giusta ragione.

Per il professore deve evidentemente valere la rappresentazione dei napoletani straccioni, gli unici nei quali poteva imbattersi Ancel Keys quando, nel 1952, si recò a Napoli con la moglie, la biologa Margaret Haney, per studiare l’alimentazione locale e la relativa incidenza sullo stato di salute dei cittadini una volta informato dal collega napoletano Gino Bergami della ridottissima incidenza delle patologie cardiovascolari nel capoluogo campano e dintorni. E invece il fisiologo americano, nei laboratori del Vecchio Policlinico, condusse le ricerche analizzando la salute e le abitudini alimentari dei Vigili del Fuoco e degli impiegati comunali, lavoratori stipendiati che il piatto a tavola lo portavano tranquillamente; e si recò nei mercati rionali per osservare cosa comprassero le massaie napoletane. Lo scienziato americano e la moglie rilevarono il basso consumo di carne e la dieta a base di pasta ricca di carboidrati, di verdure, di olio d’oliva, di pane, di legumi e di pesce, convincendosi che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute dei napoletani. Al termine dei suoi studi, nei suoi appunti, Keys annotò:

“A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.
A Napoli trovammo la conferma che Bergami aveva ragione riguardo alla rarità della malattia ischemica coronarica nella popolazione generale, ma in ospedali privati che ricoveravano persone ricche vi erano pazienti con infarto al miocardio. La dieta della popolazione generale era ovviamente molto povera in carne e formaggi, e Margaret trovò livelli di colesterolo sierico molto bassi in numerose centinaia di operai e impiegati presi in esame dal Dott. Flaminio Fidanza, un assistente di Bergami nell’Istituto di Fisiologia. Fui invitato a cena con i membri del Rotary Club. La pasta era condita con sugo di carne e tutti la ricoprivano con formaggio Parmigiano. Un arrosto di carne era il secondo piatto. Il dessert era una scelta di gelato o ricchi dolci. Persuasi alcuni commensali a venire da me per essere esaminati, e Margaret trovò il loro livello di colesterolo molto più alto che negli operai.”

Del resto, prima di essere chiamati “mangiamaccheroni”, i napoletani erano detti i “mangiafoglia”, perché erano i più grandi vegetariani d’Europa da secoli. Già nel Quattrocento abbondavano i vegetali nella cucina della corte aragonese di Napoli, diversamente da quella toscana dei Medici, dove eccedevano carni e selvaggina. Il broccolo era stato lo stereotipo alimentare dei napoletani prima di pizza e spaghetti, che erano cibi popolari nati nelle strade e accessibili anche per i più poveri. Vincenzo Corrado, altra figura di spicco della cultura gastronomica napoletana, scrisse nel secondo Settecento Il cibo pitagorico (Pitagora fu un convinto vegetariano), primo ricettario vegetariano della storia, un elogio al cibo fatto “di tutto ciò che dalla terra si produce” contro la sofisticata e pesante cucina di carne.

Alberto Grandi ha pure avvisato che gli italiani di oggi credono essere antichissima una dieta, la “mediterranea”, che fu invenzione di Ancel Keys. La verità è che la codifica, non invenzione, del fisiologo statunitense, sviluppata nel Cilento, partì dall’alimentazione dei napoletani, e si rifece anche e soprattutto alla loro cucina. Da tempo la gente partenopea seguiva, senza saperlo, una dieta molto prossima a quella che è oggi è considerata la più sana ed equilibrata del pianeta. La dieta napoletana era davvero la madre di quella “mediterranea”. Era, ma non è, perché è stata proprio la penetrazione delle abitudini alimentari americane dagli anni del benessere economico italiano in poi, a seppellire la sana alimentazione del popolo partenopeo. la Dieta mediterranea, globalizzata dall’Unesco, è sempre meno applicata in Italia, dove i potentati del cibo spazzatura impongono i propri stili, soprattutto tra i giovani e le fasce con un basso livello socio-economico. Numerose indagini hanno infatti mostrato un aumento di sovrappeso e obesità, anche in età adolescenziale, e il fenomeno è più diffuso al Sud, proprio lì dove è nata la dieta mediterranea. E meno male che le narrazioni imprecise di Alberto Grandi esaltano esattamente le influenze americane nella cucina italiana tutta.


Libri al pomodoro – Staffetta di libri alla libreria IoCiSto di Napoli

Sabato 17 settembre, alle ore 11.00, presso la libreria IoCiSto del quartiere napoletano del Vomero, in scena una staffetta di libri in cui il pomodoro è protagonista. L’incontro si realizza nell’ambito del progetto ArteSì di NaturaSì e coinvolge alcuni scrittori del territorio valorizzando libri e racconti dedicati al mondo del cibo ed in particolare al pomodoro: Angelo Forgione, Patrizio Rispo, Oscar Nicolaus, Maurizio Landi si alterneranno in una staffetta condotta da Patrizia Spigno, ricercatrice nel settore agroalimentare ed esperta del pomodoro San Marzano, per presentare, attraverso letture, storie e aneddoti, i loro libri e le ricette che hanno come protagonista il pomodoro.

Agli autori si alternerà il contributo musicale dei ragazzi di Musica libera tutti – pratiche quotidiane per crescere insieme a Scampia a suon di musica del Centro Hurtado.
In chiusura verrà presentato in anteprima assoluta il progetto di Homoscrivens di un libro sperimentale fatto di fumetti e racconti ambientati a Napoli che ha come fil rouge una scatola di pomodoro.

Nelle sale della libreria sarà organizzato dal Centro Hurtado un mercatino di prodotti di cartotecnica.

IoCiSto – Piazzetta Masullo (piazza Fuga),Napoli

Promozione Estate “tuffati nella Storia”

Apprezzato dal mondo del giornalismo sportivo d’inchiesta, da Oliviero Beha, che ne ha curato la preziosa prefazione, a Paolo Ziliani e Maurizio Pistocchi, arriva in libreria la nuova “edizione 2022” di Dov’è la Vittoria ad affiancare il nuovo titolo Napoli svelata e gli altri tre dedicati alla grande storia di Partenope.
Ecco allora una promozione estiva che consente di ricevere le copie desiderate con uno sconto sul prezzo complessivo e dediche con firma, per una rilassante e appassionante lettura sotto l’ombrellone. E buone vacanze!

Info, richieste e ordini: staff_angelo_forgione@email.it

Ferdinando di Borbone? Non meno istruito e intelligente di Carlo (e meno bigotto)

Angelo ForgioneFerdinando di Borbone, venuto fuori dalle abili scalpellate di Antonio Canova, vi accoglie salutandovi nello scalone del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il più importante d’Occidente nel settore e il primo realizzato nell’Europa continentale, voluto proprio da lui stesso in carne ed ossa, nel secondo Settecento. Ma come? Un museo così importante voluto da uno zotico sovrano, un perdigiorno donnaiolo? Perché questa è la classica narrazione, assai banalizzata, risibile e parziale, che la storiografia ufficiale di matrice risorgimentale ci propone del secondo sovrano borbonico di Napoli. Lo si racconta profondamente ignorante, e non è che fosse assai acculturato, certo, ma a giudicare da quel che si legge qua e là pare che il suo celebratissimo genitore, Carlo di Borbone, fosse più istruito di lui, e nessuno si azzarda a dire che non lo fu affatto, e che piuttosto era anche molto più superstizioso e bigotto.

Ferdinando, per esempio, non cancellò nulla di ciò che creò, neanche quando arrivarono gli invasori francesi, a differenza di Carlo, che non esitò a far distruggere la Real Fabbrica di Capodimonte prima di andarsene a Madrid per impedire al figlio di proseguire le pregiate produzioni di porcellana, salvo poi scoprire che l’erede le aveva rimesse in piedi. Lo stesso Carlo che fece sterminare i gatti di Procida, per impedire loro di attentare alla vita dei fagiani della riserva di caccia isolana, salvo poi dover fare marcia indietro di fronte alla rivolta dei procidani per la conseguente proliferazione di topi.

Il diplomatico milanese Giuseppe Gorani scrisse nelle sue memorie così:

“Non solo Carlo III di Spagna non è più istruito del re di Napoli (Ferdinando), pur avendo ricevuta un’educazione meno cattiva, ma lo supera nei pregiudizi, e si rende ridicolo pretendendo d’essere sapiente”.

Ferdinando fece quanto Carlo per accrescere il prestigio di Napoli, e gli uomini del suo tempo glielo riconobbero serenamente. Il suo contemporaneo Goethe, autorevole osservatore tedesco, sapendo che la sua propensione ad uscire dalle stanze reali era dettata da un’educazione ricevuta per rafforzare in gioventù una salute incerta, ne tracciò un profilo veritiero nella biografia del pittore di corte Jacob Philipp Hackert:

“Non era solo la caccia, ma anche la vita all’aria aperta che lo manteneva in buona salute. Ciò che il Re ha imparato lo fa bene e con esattezza. (…) Tutto quello che sa, lo fa esattamente e se vuole apprendere qualcosa, non si dà pace fino a quando non l’ha imparato. Scrive abbastanza bene, velocemente; si fa capire, con buone espressioni. Hackert ha visto le leggi per S. Leucio, prima che fossero stampate. Il Re le aveva date ad un amico per farle correggere se ci fossero stati degli errori di ortografia. C’erano da cambiare pochissime cose e di scarsa importanza. Se lo avessero fatto studiare seriamente, invece di fargli perdere tempo con la caccia, sarebbe diventato uno dei migliori regnanti d’Europa”.

Chiedetevi perché Canova lo raffigurò neoclassicamente in certi panni che lui non indossò mai. Erano le vesti di Minerva, divinità della saggezza e delle arti. Ma come? La saggezza e la arti incarnate da un sovrano ignorante? Suvvia. Peccato che non si possa chiedere direttamente proprio a Canova, il quale vi direbbe di essere stato profondamente felice di avere in un territorio d’Italia un sovrano protettore delle arti. E già, perché questo Re molto napoletano, pur nella sua indole poco incline all’etichetta e nella sua insufficiente istruzione, fu artefice dell’atto culturale più significativo del secondo Settecento facendo costruire proprio il Real Museo, dove fece raggruppare tutti i tesori di famiglia, partendo dai preziosi reperti vesuviani, ai quali tolse la proprietà privata per donarli a Napoli.
In quel museo vi fece trasferire anche le preziosità scultoree dei Farnese, ereditate dalla nonna Elisabetta insieme a quelle pittoriche e oggettistiche già raccolte a Capodimonte, prelevando le imponenti statue da Roma per farle giungere via Tevere e mare a Napoli, amplificando enormemente il richiamo della Città. Chissà oggi dove sarebbe tutta quella ricchezza, se egli non fosse stato così lungimirante come il padre, e innamorato più del padre della sua città.
Ma Ferdinando fece altro ancora: esentò la ricca committenza privata napolitana dai dazi doganali affinché facesse lavorare gli artisti residenti oltreconfine e arricchisse i nobili palazzi della Capitale con importanti opere d’arte, proprio a partire da quelle di Canova.

Fu inoltre vero stimolatore di una rivoluzione agricola di cui beneficiamo tutti noi oggi, tra produzione di pasta di grano duro, coltivazione di pomodoro lungo, lavorazione della mozzarella di bufala, protezione della vitivinicoltura e tanto altro ancora, e se le abitudini alimentari napoletane sono così peculiari e “nazionali” è soprattutto grazie a lui, che fece da congiunzione tra la abitudini del popolo e quelle dell’aristocrazia.
Sviluppò l’artigianato di qualità, a partire da quello serico di San Leucio, e pur essendo cattolico superò le superstizioni del tempo circa i primissimi vaccini contro il terribile vaiolo (altro che Covid!), fregandosene degli iniziali anatemi della Chiesa e dello stesso cattolicissimo e bigotto padre per sottoporre se stesso e la sua famiglia a un pioneristico e rischioso esperimento di immunizzazione, la variolizzazione, al quale, dopo qualche anno, fece seguire l’avvio della prima vaccinazione di massa in Italia, resa obbligatoria per i bambini.

La verità è che Ferdinando fu decisivo quanto Carlo per la crescita del prestigio di Napoli e per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. E se lo si racconta come non si fa per il padre è perché paga nella reputazione le teste tagliate dopo la repressione della Repubblica partenopea del 1799, la propensione al diletto più che alla vita a corte e un trono perso e riconquistato più volte a cavallo della Rivoluzione francese e degli sconvolgimenti napoleonici.
Paga anche il fatto che era napoletano, e parlava napoletano, mentre il padre era madrileno di madre parmigiana. E non era piemontese come Vittorio Emanuele II, vero zotico senza alcuna sensibilità artistica ma di esclusiva cultura militare sabauda, volgare e rozzo sovrano della prima Italia unita, i cui uomini fecero occultare la preziosa statua di Canova al museo di Napoli. Tornò al suo posto solo negli anni Ottanta, quando il sovrintendente dell’epoca si mise in testa di rimettere a posto i conti con la storia.

Una nuova statua dedicata a Ferdinando di Borbone troneggia da oggi sulla rotonda che prelude alla strada che conduce al Real sito di San Leucio. Canova non c’entra nulla, ovviamente. È opera dell’artista don Battista Marcello, non bellissima, ma poco male. Conta che racconti la storia del territorio leuciano, nonché la lungimiranza e l’eccezionalità dello “Statuto di San Leucio”. E conta che, nonostante le resistenze e i mal di pancia di certi ambienti elitari, si proceda nel solco dell’attribuzione dei giusti meriti spettanti a questo sovrano assai bistrattato dai risorgimentalisti, quantunque sia stato figura fondamentale, quanto il padre [Carlo], per il progresso del popolo napoletano e non solo, almeno fino ai tragici e controversi fatti del 1799.


Per approfondimenti: Napoli svelata (Magenes, 2022), Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017), Made in Naples (Magenes, 2013) e Il Re di Napoli (Magenes, 2019).

Il Parmigiano “casertano” dei Borbone

Angelo Forgione  È di Ippolito Cavalcanti, napoletano di Afragola, il primato divulgativo della ricetta della gloriosa Parmigiana di melanzane, altra gloria della cucina napoletana nonostante sulle sue origini vi sia ancora molta confusione. Fu nell’appendice dedicata alla cucina casareccia napoletana della prima edizione della Cucina teorico-pratica, quella del 1837, che spuntò la preparazione delle “Molignane a la Parmisciana”, tradotta in italiano (“Milinsane alla parmigiana”) sette anni dopo nella quarta edizione del trattato, quella del 1844.

Il formaggio Parmigiano, molto usato nei territori borbonici nei dintorni di Napoli, era già ampiamente contemplato nelle ricette napoletane, e a fine Seicento figurava anche tra gli ingredienti della Pastiera. Lo stesso Cavalcanti, nella parte in lingua italiana della sua pubblicazione, fece specifico riferimento al “formaggio pareggiano” per preparare diversi ortaggi “alla Parmeggiana”, un modo di cucinare che faceva riferimento ai territori del Ducato di Parma e Piacenza per le modalità di approntamento: ortaggi affettati, infarinati, fritti, accomodati con Parmigiano e poi cotti. Da questa commistione, nelle cucine di Napoli, nella prima metà dell’Ottocento, nacque la divina Parmigiana di melanzane, preceduta da quella di zucchine.

Del resto, Carlo di Borbone, figlio della parmigiana Elisabetta Farnese, era stato Duca di Parma e Piacenza. Esattamente da quel territorio si era slanciato alla conquista del trono di Napoli. Al Sud, volle continuare ad avere sulla sua tavola il burro e il formaggio Parmigiano, e fece quindi arrivare dai territori di provenienza alcuni esperti casari per avviare la produzione in loco di un Parmigiano “casertano”, tra i primi esempi di imitazione alimentare, se non il primo, anche se a quell’epoca non esisteva la denominazione di origine protetta e il Disciplinare di produzione.

Da quel periodo in poi la produzione di Parmigiano calò sensibilmente in Emilia, a causa di due fattori: le continue guerre nei ducati, con conseguenti requisizioni militari delle campagne, e l’espulsione nel 1768 dal Ducato di Parma dei Gesuiti, che detenevano la produzione del particolare formaggio. Poi, a inizio Ottocento, con l’irruzione del regime napoleonico e le ulteriori requisizioni, la crisi del Parmigiano si acuì drammaticamente. Non se ne trovava quasi più, ma ciò non ostacolò Ferdinando di Borbone, vero stimolatore di un’epocale rivoluzione agricola attorno alla capitale Napoli, nel Casertano e nel Salernitano, da cui originarono, tra le tante eccellenze, la produzione e la conservazione della mozzarella di bufala, quella della pasta di grano duro e la coltivazione del pomodoro lungo. Mentre le popolazioni delle zone settentrionali d’Italia pagavano duramente lo squilibrio nutritivo dato da un massiccio consumo di polenta di sorgo o di mais, priva di vitamine e aminoacidi, e facevano i conti con la terribile pellagra, l’offerta nutritiva napoletana andava ampliandosi per impulso del Re, impegnato anche più del padre a rendere Napoli territorio non solo di consumo ma anche di produzione, attraverso la valorizzazione produttiva di una rete di aziende agricole che andavano creando la matrice per quelle che oggi sono considerate a pieno titolo eccellenze alimentari del territorio campano e anche italiano.

L’irreperibilità del formaggio emiliano, così utile alla cucina borbonica, non fu un insormontabile problema per i cuochi napoletani, dacché Ferdinando implementò la produzione del Parmigiano “casertano” presso la Real Tenuta di Carditello.

Jakob Philipp Hackert, il pittore tedesco convocato nel 1786 per affrescare i siti reali, di Carditello scrisse:
“(…) c’è anche un allevamento, in parte per le mucche che allora erano più di duecento. Nella masseria si faceva buon burro e formaggio parmigiano. (…)”

In un avviso pubblicato sul Giornale del Regno delle Due Sicilie del 10 gennaio 1826 si informava che dalle vacche svizzere del Real Sito di Carditello venivano fuori sufficienti quantità di latte “pel formaggio ad uso parmeggiano” (e per il butiro/burro).

La ripresa produttiva del secondo Ottocento, il supporto delle nuove tecnologie di inizio Novecento e lo slancio del secondo dopoguerra hanno finito per lanciare il Parmigiano su scala internazionale. Oggi, per essere DOP, deve essere prodotto nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova, alla destra del fiume Po. Se lo si producesse nel Casertano, come al tempo dei Borbone, sarebbe un Parmigiano falsificato. Eppure, anche grazie alla disponibilità di quel formaggio taroccato, nelle cucine di Napoli, è nata quella meraviglia che è la Parmigiana di melanzane.

Recentemente il professor Alberto Grandi, docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, è salito alla ribalta per alcune sue dichiarazioni eclatanti sull’origine dei cibi italiani più famosi, sostenendo tra l’altro che il Parmigiano, sparito in un buco di 150 anni tra il 1700 e il 1850 (per i motivi che ho elencato precedentemente, ndr), è riapparso alla fine del XIX secolo nel Wisconsin, nominato Parmesan. E invece, nelle sue ricerche, il Parmigiano scomparso doveva trovarlo dalle parti di Napoli, dove non è mai mancato, piuttosto che concentrarsi sull’emigrazione degli italiani in America di fine secolo.

per approfondimenti: Il Re di Napoli (Magenes, 2019)

Il revisionismo sulla pizza su National Geographic

Angelo Forgione  Il falso parto della pizza Margherita, quello del 1889, diviene sempre più oggetto di attenzione internazionale.
La prestigiosa testata americana National Geographic, tradotta in decine di lingue, si è interessata alla vicenda portata alla ribalta negli ultimi anni, a gran forza, dal sottoscritto ma non solo, mettendo in forte dubbio il romantico e folcloristico racconto dell’omaggio tricolore del pizzaiuolo Raffaele Esposito alla regina Margherita di Savoia. Braden Phillips, autore di un articolato scritto per la famosa rivista,, definisce “recenti ricerche” quelle che, condotte dagli “storici dell’alimentazione”, hanno individuato “diversi buchi-chiave nel racconto“. Nell’articolo si legge:

“Probabilmente il fatto più schiacciante è che il piatto esistesse almeno tre decenni prima della visita dei Savoia a Napoli”.

Phillips si riferisce alla descrizione delle pizze di Napoli fatta da Emmanuele Rocco negli anni Cinquanta dell’Ottocento in Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, in cui si chiarisce che, ovviamente a Napoli, in una delle tante combinazioni di metà Ottocento almeno finivano “foglie di basilico”, “sottile fette di muzzarella” e “pomidoro”.
Una delle tante combinazioni di condimento, non la più gettonata. Rifacendomi alla ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863 dai medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi, ho chiarito in Il Re di Napoli come a quel tempo fosse una pizza preparata soprattutto d’estate, non essendoci l’industria delle conserve di pomodoro:

“I Napoletani mangiano a dovizia le pizze: (…) condite (…) con pomidoro specialmente in està (…)”.

Le “recenti ricerche” cui fa riferimento Phillips sono quelle dalle quali ho poi chiarito che la pizza di Napoli, nei primi decenni unitari del Regno d’Italia, era considerata un cibo da sudici straccioni napoletani, come si evince dalla descrizione che ne diede agli scolari italiani Carlo Collodi nel 1886, definendola un “sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore”.

Esistevano già le prime pizzerie, con tanto di tavoli, sedie e stoviglie, ma le pizze erano ancora vendute nelle strade di Napoli dai venditori ambulanti, a lungo infamati come pure ciò che proponevano e anche l’ingrediente che li imparentava alla pasta, il pomodoro, per anni considerato un segno di una meridionalità rozza e popolana. Dunque, l”italianizzazione” della pizza, tipica di Napoli, nascondeva il duplice scopo di creare affezione verso la Casa Reale e di restituire dignità al cibo di strada napoletano, danneggiato nella reputazione dalle diverse epidemie coleriche, soprattutto quella del 1884, di cui era divenuto, per molti timorosi, veicolo di contagio. I Savoia, che non potevano permettersi di trascurare i problemi sanitari di Napoli, la città più popolosa d’Italia, con la Legge per il Risanamento, fecero realizzare un più sicuro sistema fognario e un nuovo acquedotto, quello del Serino, garanzia di salubrità dell’acqua e della sicurezza alimentare. Almeno di un po’ di simpatia dovevano ricevere in cambio, attraverso l’associazione della pizza alla regina Margherita.

Braden Phillips scrive esattamente di operazione simpatia nel suo articolo per il National Geographic, e avanza la teoria della falsificazione della lettera di ringraziamento di Sua Maestà la Regina indirizzata a Raffaele Esposito Brandi, seguendo quanto ho scritto ne Il Re di Napoli di seguito riportato:

“(…) un documento pieno di incongruenze, dal quale si dovrebbe dedurre che il pizzaiuolo, sposando Maria Giovanna Brandi, ne avrebbe preso il cognome. Più facile che quel documento sia stato scritto in maniera fittizia, con timbri fasulli, dopo gli anni Venti del Novecento, quando la pizzeria in cui aveva lavorato Raffaele Esposito cambiò nome in Brandi, così da blindare l’invenzione di una tradizione apocrifa.”

Insomma, un racconto anche grazie al quale la pizza tricolore è divenuta la pizza regina, passando da Napoli a New York con gli emigranti, e solo dopo la guerra nel resto d’Italia e del mondo. Un racconto cavalcato dai discendenti di Maria Giovanna Brandi per aumentare l’appeal della pizzeria e gli affari. Se ne sono convinti anche quelli di National Geographic, dimostrandoci che la ricostruzione della storia della pizza tricolore ha ormai varcato i confini nazionali e si espande… a macchia d’olio.

A Procida per il CompraSud Festival

Appuntamento a Procida2022, sabato 23, per un escursus storico sull’alimentazione napoletana al CompraSud, la kermesse culturale ed enogastronomica di Procida Sud Festival che, partendo dalle eccellenze dell’Italia meridionale, abbraccia i Sud del mondo.

Ore 18, chiesa di Sant’Antonio da Padova, via IV novembre.

#LaCulturaNonIsola

Alberto Grandi: “Sulla pizza ho detto delle sciocchezze”

Angelo Forgione  Rieccoci al professor Alberto Grandi, il docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, colui che qualche tempo fa ha sostenuto che la pizza, come la conosciamo oggi (pomodoro e mozzarella), sarebbe nata in America, là dove di fatto la conobbero grazie agli emigranti napoletani.

Ora, in un’intervista data al Corriere della Sera, sostiene che anche le pizzerie sono nate negli USA:

Le pizzerie nacquero in America. Fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada”.

Ho contattato Grandi perché davvero non capivo dove poggiassero le sue ricerche e le sue teorie. Gli ho spiegato che la prima pizzeria americana con tavoli e sedie la apre l’emigrante napoletano Gennaro Lombardi nel 1905, 75 anni dopo le prime pizzerie “comode” di Napoli. E se è vero che a Napoli la pizza nasce come cibo di strada cotto nei forni e distribuito dagli ambulanti nel Settecento, è proprio dal primo Ottocento che si diffondono le pizzerie in quanto locali dove mangiare seduti solo la pizza. Presso l’Archivio di Stato di Napoli è consultabile l’Elenco dei pizzajoli con bottega del 1807, testimoniante il fatto che almeno dal principio dell’Ottocento chi preparava le pizze non riforniva solamente i venditori ambulanti ma le vendeva in proprio in un suo esercizio, anche se magari non disponeva ancora di tavoli e stoviglie. Di pizzerie come quelle di oggi ce ne dà testimonianza nientepopodimeno che Francesco De Sanctis nelle sue memorie di giovinezza:

“La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità.”

Scrisse di avere sedici anni, il grande letterato e politico campano, quando andava in quella pizzeria tra le prime con i compagni, ed era quindi il 1833, non a caso l’anno in cui al largo della Carità, oggi Piazza Salvo D’acquisto, Antonio La Vecchia aprì “Le stanze di Piazza Carità”, oggi ancora operanti sotto l’insegna Mattozzi.

La pizzeria Port’Alba era già dotata di sedute dal 1830. E tantissime furono le pizzerie con tavoli, sedie e stoviglie che operavano a Napoli ben prima del 1905, anno dell’apertura a New York della prima pizzeria, quella di Gennaro Lombardi, che replicò lì la pizza con pomodoro e mozzarella, sostituita con il formaggio locale. Che poi, come ho già detto, pizze e pizzerie si siano diffuse nel resto d’Italia solo dopo la Seconda guerra mondiale non significa che i primi a mangiare la pizza comodamente seduti siano stati gli americani. Loro l’hanno fatto prima degli italiani, vero, ma dopo i napoletani, che gli fecero conoscere pizze e pizzerie a casa loro.

Il professor Grandi, che almeno non è tra quelli che credono alla leggenda dell’invenzione della pizza “margherita” posticipata al 1889, vivaddio, ha correttamente ammesso di aver rilasciato dichiarazioni errate sull’argomento, di cui si è detto non troppo esperto e di averlo tenuto ai margini dei suoi scritti rispetto a tante altre trattazioni. Si è anche detto “illuminato” dalla citazione delle memorie giovanili di Francesco De Sanctis che gli ho sottoposto, da cui ha preso certezza che le pizzerie con tavoli e sedie esistevano a Napoli almeno ottant’anni prima di quelle americane, insieme ad altre nozioni sulla storia della pizza, da Napoli a New York, fino alla conquista del mondo.

Quello che intendeva evidenziare – mi ha detto – è l’importante ruolo che hanno rivestito gli Stati Uniti nel rendere globale la pizza, ovvero la triangolazione Napoli-USA-Italia e il cosiddetto “pizza effect“, il fenomeno sociologico per cui un elemento della cultura di un particolare popolo viene conosciuto e diffuso maggiormente in un’altra nazione, e successivamente reimportato nella nazione del popolo che l’ha creato. Così la pietanza, partendo da Napoli con gli emigranti a inizio Novecento, è stata conosciuta prima negli States e poi nel resto d’Italia, fino a conquistare l’Europa e il mondo.

Nella cordiale chiacchierata abbiamo parlato anche di origini abruzzesi-napolitane dell’Amatriciana e d’altro ancora. Mi ha infine invitato con cordialità a raccontare la vera storia della pizza in uno dei suoi prossimi podcast su Spotify, così tanto ascoltati da generare interesse sulle sue stravolgenti affermazioni circa le origini delle più note pietanze italiane tra giornalisti e food-blogger.

Restano alcune inesattezze riportate su Il Corriere della Sera e su Il Fatto Quotidiano, dal Grandi onestamente riconosciute. Inesattezze che tanto fanno presa sui media nazionali perché la cucina italiana fa parte della nostra identità, nazionale e locale, e rappresenta orgoglio per tutti. Ancor di più la pizza, che è il più famoso dei piatti napoletani e poi, grazie agli americani, anche italiano. Quei quotidiani nazionali, da me pure contattati al pari di Alberto Grandi, dovrebbero correttamente proporre la rettifica di chi fa chiarezza con testi e documentazione archivistica, non restando ancorati a quel sensazionalismo utile a richiamare l’attenzione dei lettori con cui si contribuisce a mettere disordine nella storia e a creare disinformazione e diversa ignoranza.