Il foro di Carlo che divenne di Dante

Angelo ForgioneUna piazza di Napoli tra le più belle è dedicata a Dante Alighieri, padre della lingua italiana, che all’ombra del Vesuvio si sarebbe recato in due occasioni, alla fine del Duecento. È da ritenersi fondata la tesi avanzata da accreditati studiosi secondo cui sarebbe stato inviato come ambasciatore da Carlo II d’Angiò, che lo ricevette al Maschio Angioino. Il poeta fiorentino ne approfittò per visitare le biblioteche partenopee e le principali chiese, tra cui Sant’Eligio, San Lorenzo Maggiore e San Domenico Maggiore, dove si fermò a dissertare di storia e filosofia con i frati.

Un statua lo ritrae oggi nella piazza immediatamente fuori le mura della Neapolis greco-romana. Un tributo a colui che nella Divina Commedia veniva guidato dal “napoletano” Virgilio, ritrovandosi, nel mezzo del cammin di vita, in una selva oscura, forse quella attorno al Lago d’Averno, ipotetica porta d’accesso all’Inferno.
Ma il vero motivo di quella bella statua sta nella cancellazione dell’identità napoletana messa in atto immediatamente dopo l’unità d’Italia, ed è presto chiarito.

In principio, il luogo fu “il Mercatello“, area di commercio distinta nel nome dalla più grande piazza Mercato.
A metà Settecento fu realizzata l’esedra del Foro Carolino, firmato da Luigi Vanvitelli, per celebrare Carlo di Borbone, con le statue rappresentanti le virtù del Re e con una monumento equestre dello stesso da realizzarsi nella nicchia centrale (oggi ingresso del Convitto Vittorio Emanuele), solo abbozzata e distrutta dai rivoltosi nel 1799.

Per sovrapporre un significato unitarista a una piazza borbonica, fatto il Regno d’Italia, si mise in moto la Massoneria, potere affermato dal Risorgimento. La figura di Dante era stata riportata in auge dalla cultura risorgimentale, e la fortuna del poeta diventò notevolissima per la sempre più larga identificazione in lui in quanto simbolo dell’unità nazionale. Nel 1862 fu il patriota napoletano Luigi Settembrini, maestro della Loggia massonica Libbia d’oro, a costituire la “Società Dantesca Promotrice di un Monumento a Dante in Napoli”, in vista dei seicento anni dalla nascita del Sommo Poeta, che sarebbero caduti nel 1865. Gli scultori Tito Angelini e Tommaso Solari si offrirono per progettare e realizzare gratuitamente l’esecuzione del monumento, mentre la società dantesca si sarebbe fatta carico delle sole spese dei materiali.
Nel 1863 fu lanciata una “Sottoscrizione per un Monumento al F.. Dante Allighieri in Napoli” per iniziativa del giovane intellettuale napoletano Vittorio Imbriani, segretario della stessa Libbia d’oro. Nell’appello rivolto alle altre logge massoniche italiane, Imbriani affermò il chiaro intento simbolico:

“[…] Come i Longobardi infiggevano una lancia nel suolo conquistato, e noi così vorremmo innalzare un Monumento a Dante, quasi segno della presa di possesso di queste provincie da parte dell’Idea unitaria […].

Dante, padre della lingua nazionale, doveva dunque significare uno dei simboli della conquista del da poco tramontato Regno delle Due Sicilie. La realizzazione dell’opera fu piuttosto travagliata per mancanza di fondi e per una consistente lievitazione dei costi, e vide compimento solo il 10 maggio del 1871, tre mesi dopo la proclamazione di Roma capitale, da poco sottratta al Papa. Chiusura dei lavori grazie all’allora sindaco di Napoli, il patriota Paolo Emilio Imbriani, padre di Vittorio e amico di Settembrini, che fece accollare tutte le spese al Municipio. La statua di Dante, collocata nei pressi della nicchia dell’esedra (oggi avanzata a fronte strada), fu inaugurata il 14 luglio ’71, pur rimandando la realizzazione dell’iscrizione da apporvi.

E dalla piazza che la ospitò partiva via Roma, odonimo dato alla storica via Toledo dallo stesso sindaco Paolo Emilio Imbriani, artefice di una scelta assai impopolare sancita otto mesi prima per celebrare la Breccia di Porta Pia. Dopo 334 anni, anche la strada aperta dal viceré don Pedro di Toledo era stata privata della sua identità. Era divampato un accesissimo dibattito, con gran parte degli intellettuali locali assolutamente contrari al cambio di odonimo, imposto con la forza, addirittura facendo piantonare le nuove targhe dalle guardie armate, ed era persino nata una filastrocca contro il sindaco:

“Un detto antico, e proverbio si noma, dice: tutte le vie menano a Roma. Imbriani, la tua molto diversa, non mena a Roma ma mena ad Aversa”.

Ad Aversa si trovava lo storico primo manicomio d’Italia, e dovette considerare matto l’Imbriani pure il suo successore, Luigi de Monte, che non volle concedere ulteriori finanziamenti per completare il monumento a Dante. Il progetto dell’iscrizione venne ripreso soltanto negli anni Trenta del 900, e il 26 giugno del 1932, con una solenne cerimonia, venne inaugurata l’epigrafe “All’unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri 1862-71”.

I napoletani continuavano a chiamare “Toledo” la via Roma. Fecero giusto in tempo quelli del dopoguerra ad essere educati a nominarla con l’odonimo capitolino, ma nel 1980 la commissione toponomastica dell’amministrazione Valenzi decise opportunamente di restituire alla storica strada il suo antico nome e la sua identità. Dopo 110 anni Toledo tornò al suo odonimo. Non il Foro Carolino, la piazza assegnata a Dante per “piantare una lancia nel suolo conquistato”.

See Naples and then die


Angelo ForgioneNapulitanamente è un magazine cartaceo e online che si occupa della divulgazione della cultura napoletana e del patrimonio partenopeo all’estero, spaziando dall’intero Sud Italia a tutta l’area mediterranea, da Napoli a Teheran. Si tratta di un progetto editoriale libero e indipendente che, in meno di tre anni, ha pubblicato, con buon successo nel mondo, 6 numeri, più due extra, con articoli e interviste su storia napoletana, lingua, tradizioni, arte, artigianato, musica, teatro, cinema, filosofia, tecnologia, cucina, business e molto altro.
Nel n.7, appena pubblicato, spazio anche per me. Qui di seguito, la traduzione in italiano delle pagine a me dedicate, anche riportate sul sito napulitanamente.com.

Vedi Napoli e poi muori

Angelo Forgione sfata i miti napoletani e svela la realtà

di A. Sujit

Angelo Forgione, giornalista e scrittore, si occupa di cultura, di costumi e di storia di Napoli e del Sud Italia, oltre ad avere cura dell’integrità grammaticale e ortografica della lingua napoletana e a essere famoso anche perché esperto di sport. Nonostante il suo stretto legame con la terra e lo stile di vita napoletani, ha una visione assolutamente obiettiva, e le sue opinioni sono piuttosto significative. Leggendo i suoi saggi, quindi, è facile comprendere la reale situazione in cui si trovano i napoletani.

Per più di 150 anni, l’Italia ha diffuso miti negativi su quello che un tempo era il Regno di Napoli, che comprendeva tutto il Sud Italia. Tuttavia, le opinioni dei turisti smentiscono certe false affermazioni e dimostrano che Napoli è una città sorprendente e piena di bellezze. La capitale dell’Italia meridionale continua a impressionare sia i visitatori stranieri che quelli italiani, nonostante la cattiva propaganda di cui spesso soffre. Questo paradiso, abbracciato dal Vesuvio e dai Campi Flegrei, fu un tempo il più popoloso e vivace dello “Stivale”, almeno dal XIV alla metà del XIX secolo. Oggi si rivela un mondo più che una città.

Chi visita Napoli desidera qualcosa di più di un semplice luogo dove rilassarsi; vuole capire cosa vuol dire essere napoletani, assaggiare la deliziosa cucina, conoscere la storia intrigante e sperimentare la vita quotidiana. Forgione ci spiega che il viaggiatore avventuroso è motivato a scoprire come la tenace comunità napoletana abbia perseverato e continui a farlo sfidando due vulcani attivi che hanno il potenziale per causare conseguenze disastrose.

A causa di terribili miti, alcuni dei quali sono ancora diffusi tra gli italiani che vivono in Italia e nel mondo, la maggior parte delle persone, tra cui pure diversi napoletani, non sono a conoscenza delle maggiori ricchezze storiche della città. In alcuni libri di testo italiani distribuiti all’estero, i napoletani e gli abitanti dell’Italia meridionale sono descritti come gente incline al crimine, proprio come li definì Cesare Lombroso. Si tratta, come sostiene Forgione, di uno stereotipo ingiustificato che nasconde i veri grandi scandali nazionali e che hanno origine proprio in quel territorio con maggiori opportunità e capacità di attrarre ricchezza, cioè il Nord Italia, dagli scandali del vino all’etanolo agli appalti per l’Expo di Milano e per il MoSE di Venezia, dal crac Parmalat alle controversie della Juventus della famiglia Agnelli, fino a tutte le multinazionali del Nord e tutte le banche che hanno rubato molto più di tutti i ladri napoletani messi insieme dal dopoguerra a oggi. Spesso, la pulizia morale è stata fatta dai competenti magistrati napoletani.

La corruzione italiana ha raggiunto il suo picco con le gare d’appalto milanesi per l’Expo di Milano del 2015. Di conseguenza, il governo italiano si è visto costretto a costituire l’Associazione Nazionale Anticorruzione. Raffaele Cantone, magistrato napoletano incaricato di preservare la trasparenza e l’integrità delle procedure governative, fu il primo nominato a guidare tale istituzione. Considerata la grande moralità dei napoletani onesti, che costituiscono la netta maggioranza, e la provenienza dei responsabili delle grandi truffe italiane, risulta errato il presupposto che etichetta i partenopei come truffatori. Napoli fu scelta per ospitare il G7 del 1994 per presentare un’immagine diversa del Paese, della sua bellezza regale e del suo significato storico e della pulizia degli appalti, restituendo lustro a una città fino ad allora trascurata dalle istituzioni nazionali e spazzando via alcune spiacevoli percezioni sulla nazione italiana generate dalla Tangentopoli milanese di inizio anni Novanta. La graduale ripresa dell’immagine della città si arrestò bruscamente un decennio fa, ma momentaneamente, per le vicende dei rifiuti nelle strade, causata da un patto scellerato tra malavita campana, massoneria deviata e imprenditoria del Nord. Forgione invita ad informarci sul ruolo che ricoprirono i fratelli veneti Stefano e Chiara Gravioli e la loro cricca, che come altre, tenevano in scacco Napoli in quel periodo, per comprendere quello scenario.

Napoli, in quanto importante centro culturale d’Italia, è detentrice di numerosi primati internazionali, città d’arte tra le primissime d’Italia, culla della cultura occidentale, crogiuolo di stili artistici e di tesori eccezionali. La città accresce la sua immagine di luogo privilegiato di vacanza affrontando questioni moderne e riuscendo comunque ad attirare l’attenzione internazionale. È una destinazione irripetibile, non globalizzata, una città con un patrimonio materiale ed immateriale, intellettuale e storico, che la rende unica. Le principali risorse economiche di Napoli andarono perdute a seguito dell’Unità d’Italia, che fu di fatto una vera invasione. Preconcetti e timori, alimentati da rappresentazioni come quelle di certe serie televisive, possono essere spazzate via solo dopo aver visitato la città; viene così a scopersi una nuova prospettiva che evidenzia i migliori valori della realtà partenopea. Lontano dai luoghi comuni che associano Napoli esclusivamente a spaghetti pizza e mandolino, Forgione sottolinea nel suo libro Made in Naples che Napoli è uno scrigno di cultura, e avverte che il problema sta nel non riuscire a comunicare al mondo che si tratta di un luogo bellissimo con un’identità distintiva, e che affidarsi all’esperienza diretta e al passaparola è un modo inadeguato per interagire con i viaggiatori.

AF: “In Italia, in Europa, nel mondo, c’è uno scrigno da aprire. Dentro vi è custodita una città romantica quanto Parigi, colorata quanto Barcellona, aristocratica quanto Londra, eterna quanto Roma, accogliente quanto Berlino, colta quanto Vienna, sorprendente quanto Istanbul. E, cosa non dappoco, più buongustaia di tutte”.

Tutti possiamo fare molto per sfatare il mito di Napoli città maledetta. Forgione incoraggia i napoletani a impegnarsi nello scambio culturale con il resto del mondo al fine di abbattere le barriere isolazioniste, che i napoletani di oggi creano perché pensano di bastare a loro stessi. Per Forgione, la strada giusta da seguire è quella di porre fine all’ignoranza sostituendo le menzogne con la verità, acquisire una maggiore consapevolezza. Ma prima di tutto, i napoletani devono essere più uniti e non diffidare gli uni degli altri. Afferma che a molti napoletani manca la capacità di fare rete per un obiettivo comune, perché la città non può contare su risorse finanziarie sufficienti e deve competere con territori più ricchi che possono contare su buona pubblicità e valorizzazione. È un’urgente necessità, stante un rozzo e cronico atteggiamento anti-napoletano e anti-meridionale, spesso latente e talvolta manifesto, ma anche una crescente esaltazione neo-meridionalista di pancia che non produce nulla ma fa solo da freno. Bisogna convertire la menzogna in verità, la presunzione in consapevolezza e il rancore in fierezza.

AF: ”Il divario Nord-Sud si manifestò nella seconda metà dell’Ottocento, con le politiche dei governi del Regno sabaudo d’Italia che penalizzarono pesantemente il Mezzogiorno. Per decenni si è raccontata un’altra storia, e cioè che l’arretratezza del Sud preesisteva all’unità, ma la verità è che in quel momento storico non vi era un divario significativo in termini di prodotto interno lordo e una reale differenza tra Nord e Sud, tra due economie di pari livello, pur con specificità produttive diverse. Il Sud, infatti, disponeva di importanti porti commerciali ed era più avanzato del Nord per quanto riguarda l’innovazione tecnologica e il settore estrattivo. Il Nord Italia era all’avanguardia nel settore tessile e beneficiava della vicinanza ai principali mercati continentali. Era semmai tutta l’Italia ad essere arretrata rispetto ai paesi guida del progresso europeo, poiché dipendeva essenzialmente dall’agricoltura.”

La spaccatura fu inizialmente causata dalla moderna industria italiana, che interessò solo una piccola parte del Paese. Ad esso si aggiunse anche il debito pubblico per le guerre per il processo di unificazione del nuovo Stato, che iniziò sommando i debiti di tutti gli Stati preunitari annessi al territorio.

Forgione afferma che la nuova Italia repubblicana è responsabile di non aver colmato il divario, indipendentemente dalla sua origine storica. Nel Dopoguerra, i finanziamenti del Piano Marshall furono impiegati scientificamente per ricostruire le industrie settentrionali e portare gli operai meridionali al Nord, non per portare le fabbriche anche al Sud, e se poi qualcosa si è fatto con la Cassa per il Mezzogiorno è poi risultato effimero, perché la creazione di stabilimenti industriali nel Meridione, senza sviluppare strade e trasporti, ha privato gli stessi della necessaria competitività.

Arretratezza, criminalità e ignoranza facevano parte di tutti i territori italiani preunitari, e al Sud sono cresciuti come accade in tutti i territori più poveri. Perché si continua a raccontare una storia falsa? Per nascondere le colpe dei governi italiani da 160 anni a questa parte.

Forgione sottolinea la necessità di rafforzare l’influenza di Napoli, portando l’esempio della pinacoteca del Museo di Capodimonte, una delle più preziose d’Italia, accostabile per rilevanza e densità di capolavori a quella degli Uffizi a Firenze, di Brera a Milano e della Galleria Borghese a Roma, ma il numero di visitatori non è affatto all’altezza di tanta importanza.

La mostra “Naples à Paris” in corso al Louvre mira a mettere in risalto le risorse culturali della città in tutto il mondo come investimento di immagine a lungo termine. È importante ricordare che Napoli fu fondamentale nella trasmissione della cultura greca alla società romana. Ha avuto influenza anche nell’esercizio della cultura moderna, terreno fertile per artisti e innovatori nei campi industriale, scientifico e tecnologico. Ci sarebbe molto altro da dire sulla storia di questa città così complessa per natura e società, su ciò che è stato fatto e non. Da molti anni Angelo Forgione dedica il suo tempo e i suoi studi all’analisi di questi temi. Il suo ultimo libro si intitola Napoli Svelata, e svela lo “scrigno” attraverso quindici racconti che chiariscono il passato per comprendere il presente della città partenopea e della sua gente.

Cosa ci puoi dire di Napoli Svelata?

AF – “Come nei miei precedenti lavori su Napoli, tutti complementari tra loro, racconto e approfondisco vicende storiche sorprendenti, alcune sconosciute ma tutte importanti per capire Napoli, assai ricca di storie perché possa essere capito con facilità. Napoli, città porosa proprio come il tufo su cui poggia, ha assorbito e poi restituito con linguaggio proprio e idee nuove. Qui, tra i tanti ingegni, sono nate la viticoltura italiana con i suoi vini, la vulcanologia e l’archeologia. Qui sono state stimolate l’igiene ambientale e personale. Qui sono stati sperimentati e affinati i primi vaccini. Qui sono state perfezionate eccellenti maestrie, qualcuna superata, qualcun’altra in via di estinzione e altre ancora, come la sartoria maschile, solidamente apprezzate nel mondo. Qui, tra particolari usanze alimentari, si è diffuso il mangiare e bere ghiacciato. Qui sono germogliati il cinema, la cultura sportiva e persino il dogma dell’Immacolata Concezione. Insomma, racconto 15 grandi storie napoletane da conoscere per conoscere meglio una città tra le più antiche d’Europa, fondamentale – lo ribadisco – nella trasmissione della cultura greca alla società romana e di importanza sempre crescente dal Rinascimento in poi, fino a diventare una delle maggiori capitali d’Europa, la più espressiva, prima di decadere nell’Italia politicamente unita. E alla fine propongo anche una mia ricostruzione circa l’origine ignota del noto detto sulla città “vedi Napoli e poi muori”. Una città da vedere prima di morire, ma anche da capire. Io lavoro per questo.”

Oltre ad essere un appassionato ricercatore della storia e della lingua napoletana, sei anche un tifoso ed esperto di calcio. Dopo 33 anni il Napoli vince nuovamente il campionato italiano. Cosa rappresenta questo per i napoletani?

AF:”I napoletani amano il Napoli in modo viscerale, lo percepiscono come una voce della città, sperando sempre che faccia la voce grossa con le squadre del Nord e i loro tifosi, che sono dappertutto, ma anche con le realtà del capitale d’Italia. Vincere al Sud è difficilissimo, e il Napoli è l’unico club meridionale che può arrivare alla vittoria. I napoletani hanno la percezione che prima o poi il trionfo arriverà. E proprio per i motivi già spiegati di tifo identitario, il trionfo venturo sarà di quelli che doneranno gioia collettiva di popolo ed emozioni condivise.
Certo che il calcio non risolve i problemi di un luogo e le diseguaglianze, ma il calcio è la più coinvolgente delle passioni popolari, e perciò i trionfi del Napoli ritemprano l’umore collettivo, cosa di cui c’è sempre forte bisogno laddove c’è da impegnarsi costantemente per risolvere i quotidiani problemi esistenziali. E poi sono trionfi che significano che c’è un Sud del calcio che può guastare i piani del Nord, e questo è un esempio per tutto il resto della vita sociale d’Italia. Stavolta, lo scudetto, diversamente da quelli degli anni di Maradona, ha dato ulteriore spinta a una città in pieno rilancio culturale e turistico e non ha fatto da traino ma ha rafforzato ancora di più l’esposizione mediatica e l’appeal di Napoli.”

Napoli capitale in Piemonte

Angelo Forgione Non sono certo una novità le parole anti-risorgimentali di Aurelio De Laurentiis pronunciate al Passepartout Festival 2021 di Asti, anzi, e sarebbe banale sottolinearle ancora se non fosse che certe chiacchiere, stavolta, sono state fatte ad Asti, davanti ad una platea piemontese.
Beppe Rovera, redattore cuneese della Rai TgR Piemonte, ha snocciolato le parole del filosofo e politico milanese Giuseppe Ferrari, grande conoscitore della cultura umanistica di Napoli, di cui ho scritto in Napoli Capitale Morale. Parole pronunciate in una seduta del parlamento del Regno di Sardegna l’8 ottobre 1860, due settimane prima della falsa consultazione plebiscitaria per l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, durante la quale il deputato lombardo si espresse contro la colonizzazione della città più importante e popolosa d’Italia, rimproverando Cavour di perseguire un piano opportunistico e per niente democratico.
Il milanese Giuseppe Ferrari, da solo, denunciava gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi e si batteva politicamente per Napoli, città in cui lui era stato con gran curiosità. Non c’erano mai stati i torinesi Cavour e Massimo D’Azeglio, quest’ultimo governatore della provincia di Milano, che nove giorni dopo quella discussione parlamentare scrisse: “la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”.

Napoli Capitale Morale si apre appunto con un passaggio dell’intervento di Giuseppe Ferrari, filosofo e deputato milanese, al Parlamento di Torino durante la discussione sull’annessione delle province meridionali al Piemonte, a due settimane dai plebisciti dell’ottobre 1860:

“Ho visto una città colossale, ricca, potente […]. Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nel agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle Nazioni.”

Ferrari, estraneo a consorterie e a gruppi politici, di ritorno in Italia dopo un ventennio trascorso in Francia, sosteneva una confederazione degli stati italiani ed era contrario all’annessione al Piemonte delle province meridionali. L’unico parlamentare che vedeva l’Italia unita alla maniera giusta. Un idealista destinato ad essere isolato. Un milanese che studiò la cultura di Napoli, e visitò la città, cosa che non fece mai Cavour, e che Vittorio Emanuele II fece solo per andarsela a prendere. Ecco alcuni passaggi interessanti del lungo discorso del milanese.

“[…] Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che sia data a voi, che si dia a Torino. Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico lo vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalle volontà individuali, il vostro principio conduce alla confisca immediata e incondizionata della più grande delle città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di Napoli. (Mormorio)
[…]
La dedizione incondizionata (di Napoli) significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi tutte le leggi piemontesi…
(mormorio prolungato)
[…]
La parola incondizionata implica che il regno napoletano si troverà in balia di un Re o di un Senato piemontesi.
[…]
Le leggi delle Due Sicilie sono ottime, paragonate con quelle delle altre nazioni incivilite; esse sono da preferirsi a tutte; in una parola i codici francesi sono vigenti nella bassa Italia, e voi volete che Napoli si sottometta incondizionatamente e subito ad occhi chiusi a un regno i cui codici sono nel dubbio della discussione, le cui finanze ondeggiano nell’urto delle autonomie, e il cui ordinamento geografico è un mistero per i membri stessi del Gabinetto piemontese?
[…]
Del resto, voi lo sapete meglio di me, non ispetterebbe a me il dirlo, le Due Sicilie sono regolate col miglior governo che si possa in quest’istante immaginare.
(Ilarità)
[…]
Or bene, s’io avessi l’onore d’essere nato nella patria di Vico, e se l’alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci
. (Segni di disapprovazione)
E diffatti, giacché la storia non volle che l’Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo giungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra
(Rumore); […]”

Giuseppe Ferrari rimase una voce radicale isolata a denunciare gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi. Continuò solitario ad avversare le profonde sperequazioni sociali all’interno dell’Italia unitaria, accusando l’annessione incondizionata per l’alimentata piaga del brigantaggio.

160 anni di storia d’Italia in cerca di oblio

Angelo Forgione 160 anni. Tanti ne compie oggi l’Italia, giovanissima nazione ancora in cerca di unità. Il 160 anni di una nazione andrebbero festeggiati in forma solenne, anche solo per legge, quella che ha fissato al 17 marzo la celebrazione della proclamazione a Torino del Regno d’Italia e del suo primo Re, che però era il secondo Vittorio Emanuele di Savoia, e tale rimase per ribadire che quel nuovo regno era di fatto un Piemonte allargato.

Non tantissimi sanno che oggi è data patriottica, e ancora meno sanno il perché si è scelto il 17 marzo per festeggiare la nascita della Nazione. Ma poi, diciamolo chiaramente, cosa vuoi festeggiare con i chiari di luna della pandemia? Il disinteresse per una celebrazione già normalmente poco sentita è più normale che mai, anche perché i fini conoscitori della vicenda storica hanno persino invocato l’oblio del Risorgimento, chiedendo di chiudere qui quello che di fatto è stato il dibattito dell’ultimo decennio, tra sostenitori dell’epopea risorgimentale e più energici revisionisti in cerca di verità.

Dieci anni fa, ed è questa la ricorrenza più significativa, la vera novità delle celebrazioni per il 150esimo anniversario tricolore fu il sorgere di tesi critiche sulle modalità unitarie e sulla politica filosettentrionale che ne conseguì. Fiorirono pubblicazioni e narrazioni meridionaliste più profonde sulla storia d’italia e sulla “questione meridionale”, e i lettori più curiosi, stanchi di retorica e di piattezza di analisi, ne sancirono un successo tuttora vivissimo.

Oggi è più nitida la descrizione di un Risorgimento che non fu quel necessario processo democratico a beneficio di una comune identità di diversi popoli, ognuno con la propria da rispettare, ma fu purtroppo costruzione politica fondata sulla prepotenza, sulla violenza e sull’arte della diplomazia e condotta da un’élite che, per dirlo alla Salvemini, fece la “rivoluzione dei ricchi” mettendo il Nord contro il Sud, non con il Sud.

La sete di conoscenza non si è esaurita, e ciò ha infastidito i detentori del sapere ufficiale, cattedratici e storici patentati sempre più incalzati ma mai disposti al confronto e al contraddittorio, piuttosto impegnati anch’essi in un nuovo filone pubblicistico, quello del revisionismo accademico delle tesi dei revisionisti.

Il risultato è la richiesta di oblio, lo stesso che si è operato per 150 anni per quell’operazione di ingegneria sociale voluta dalla Massoneria, dieci anni fa definitivamente fallita. Oblio, si chiede, perché la memoria divide invece di unire, e questo la dice lunga su quanto non fu unità ma annessione. Quel che stato è stato, si chiede, e pazienza se la questione meridionale italiana è un unicum nel panorama internazionale per durata e proporzioni della sperequazione che l’alimenta. È problema nostro, e lo sarà ancora per molto se i danari del Recovery Fund non risolveranno quel che devono risolvere espressamente: il divario Nord-Sud nato nel secondo Ottocento.

In un certo senso, l’oblio appare opportuno, perché è ormai dimostrato che celebrare la storia dell’unificazione d’Italia con la stantia retorica è perdente e non serve a un paese che deve ancora capire il grande valore dell’unità. E dunque, meglio dimenticare e non celebrare niente che celebrare male e con superficialità.

A Tg2 Dossier l’apologia del Risorgimento

Angelo Forgione TG2 Dossier del 13 marzo ha proposto una puntata celebrativa del Risorgimento e dell’unità d’Italia, ma a senso unico, in direzione netta dell’esaltazione dell’epopea e dei protagonisti. Lo ha fatto con l’ausilio di testimonial “genealogici”, come li ha definiti il comunicato del Tg2, quali Costanza Ravizza Garibaldi, Giuseppe Garibaldi jr e Francesco Garibaldi Hibbert, discendenti di Giuseppe e Anita Garibaldi; Nicolò San Martino d’Agliè di San Germano, parente ed erede di Camillo Benso di Cavour; Aimone di Savoia-Aosta, discendente di Re Vittorio Emanuele II; Anna Maria Menotti, pronipote del patriota Ciro Menotti; Guido Palamenghi Crispi, discendente di Francesco Crispi; Ernesto Pisacane, pronipote di Carlo Pisacane.
Un “dossier” per nulla attendibile, quanto meno di parte. L’idea di dar voce agli eredi lontani in una vicenda storica così complicata non garantisce affatto la qualità delle testimonianze. Cosa potevano mai dire coloro che portano i cognomi dei padri della patria italiana? Che erano invece ladri della patria napolitana? Certo che no. Dunque, scontato sentire riflessioni lontane dalla realtà, una su tutte quella al principio del programma di Francesco Garibaldi Hibbert, per il quale l’antenato Giuseppe “fu un grande uomo perché non aveva interessi personali”, e tanto sarebbe bastato per cambiare immediatamente canale.
Non una voce degli sconfitti, quantunque si sia trattato di un lungo processo culminato con una guerra illegittima mossa da italiani del nord a italiani del sud. Almeno questo sarebbe stato opportuno, e chissà se sarà d’accordo il napoletano Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, testata giornalistica della tivù di Stato e di tutti gli italiani.
Ascoltati anche alcuni storici in un’insalata mista di temi vari, con il risultato di un approfondimento storico non solo agiografico ma anche poco profondo. La redazione a cura di Adriano Monti Buzzetti ha però avuto il merito di evitare i soliti noti che avrebbero aumentato il tasso di superficialità, a partire dall’onnipresente Alessandro Barbero (vale anche per Emanuele Filiberto di Savoia).
Chiusura del “dossier” degna dell’intero “dossier”, con la classica retorica sugli italiani mai nati, costruita sulla manipolazione della frase di Massimo d’Azeglio: “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Frase mai scritta, bensì così posta dall’autore: “purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani”. E precisamente:

Il primo bisogno d’Italia è che si formino italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’italiani.

Quella di d’Azeglio non fu affatto un’esortazione alla fratellanza, e figuriamoci; per lui unirsi con i Napolitani era “mettersi a letto con un vaiuoloso”. La sua fu una constatazione, dopo aver capito che gli italiani erano legati al Papa, comunque cattolici, quindi impossibilitati ad alti e forti caratteri, e non sarebbe stato possibile cacciare del tutto il Pontefice per sostituire la dottrina cattolica con la dottrina massonica. La sua. Appunto, nel “dossier” nessun accenno alla vera regia del Risorgimento: la Massoneria.

L’antipasto della tivù di Stato in vista del 160esimo anniversario dall’autoproclamazione di Vittorio Emanuele II quale re d’Italia è ben servito. Appuntamento al 17 marzo con la solita “storia”.

Clicca qui per il podcast di Tg2 Dossier del 13 marzo

160 anni fa il Piemonte conquistava il Sud

Angelo Forgione Il 13 febbraio 1861, 160 anni fa, Francesco II di Borbone si arrendeva all’esercito di Vittorio Emanuele II di Savoia in quel di Gaeta. Il Sud veniva così conquistato dal Regno di Sardegna.
La capitolazione chiuse tre drammatici mesi di assedio alla piazzaforte napoletana, con le truppe del generale Cialdini a cannoneggiare violentemente da Castellone di Mola, la collina dell’attuale Formia.
Una guerra mossa con cupidigia e ferocia dai piemontesi e dai lombardi ai Napolitani. Una guerra che solo in quell’ultimo atto, e senza considerare la decennale repressione del brigantaggio che ne seguì, significò più di 3.000 vittime civili gaetani e 846 soldati meridionali caduti, oltre a 46 tra gli aggressori settentrionali.
Seguirono massimi onori e promozioni per i militari delle truppe del Regno di Sardegna. 5 medaglie d’oro al valore militare e 2098 d’argento, oltre a 98 onorificenze. Al generale Cialdini, che pure a tre ore dell’imminente firma della resa borbonica, per dimostrare la sua superiorità d’armi, aveva fatto cannoneggiare all’indirizzo dei Napolitani stremati dalle distruzioni e dal tifo petecchiale, Vittorio Emanuele II concesse il titolo di Duca di Gaeta, cioè della città letteralmente raso al suolo.

A 160 anni dagli eventi, l’Europa assegna all’Italia la quota maggiore del Recovery Fund perché c’è da ridurre un divario tra Nord e Sud, nato nel 1861, e il nuovo capo del Governo affida due ministeri tra i più strategici (sviluppo economico e turismo) a due uomini della Lega Nord.

Per non dimenticare come è stata fatta l’Italia senza italiani.

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Bombardamenti su Gaeta – Pasquale De Luca

Il giorno della memoria

Gaeta_fineChi diede il diritto a degli italiani di assediare altri italiani? Di puntargli contro odio, fucili e cannoni?

Quali gli ideali, se non quello di conquista di ricchezza che muove chiunque faccia guerra?

Poteva farla Napoli l’Italia, da Sud a Nord, e senza spargimento di sangue. E sarebbe stato un altro paese.

Il 13 febbraio 1861, dopo aver ferocemente resa al suolo “la fedelissima” Gaeta, a conclusione di una guerra di occupazione che chiamano “unificazione”, l’invasore piemontese conquistava la fu Magna Grecia, e ne faceva colonia.

Oggi, 13 febbraio 2020, l’Eurispes certifica che dal 2000 al 2017 il Centro-Nord ha sottratto 840 miliardi di sola spesa pubblica al Sud. Senza contare tutto quello che il Sud passa al resto del Paese in termini di acquisti di beni e servizi (70 miliardi/anno), di formazione scolastica e universitaria dei propri ragazzi che emigrano (20 miliardi/anno), di emigrazione sanitaria (2 miliardi/anno) e di raccolta dei risparmi negli sportelli bancari (700 miliardi/anno) che finiscono per finanziare le aziende settentrionali. Dal 2000 al 2017. E dal 1861 al 1999?

La statua più giusta per la stazione di Napoli

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Angelo ForgioneIn una città orgogliosa e coraggiosa, in una nazione che non fosse intrisa di propaganda massonico-risorgimentale nella sua odonomastica e nei suoi monumenti, per la piazza della stazione di Napoli, a pochi metri dal primo terminal ferroviario della Penisola, dal quale partì il primo convoglio ferroviario dei territori italiani, si penserebbe a una statua dedicata a chi, nel 1839, firmò quello slancio verso la modernità. Con annesso cambio di odonimo, ovviamente.
Lì, da 115 anni, troneggia invece il monumento a chi quel treno lo prese a Salerno per entrare a Napoli in pompa magna, sotto le ali protettive dei delinquentucoli della Bella Società Riformata, ai quali promise un totale colpo di spugna dei casellari giudiziali e lauti vitalizi in cambio di violenza per sottomettere i nemici dell’Unità in nome dei Savoia. Inaugurata il 7 settembre 1904, in occasione del 44esimo anniversario del suo ingresso in città, la statua di Garibaldi, opera dello scultore fiorentino Cesare Zocchi, spodestò la fontana della sirena Parthenope firmata dal marcianisano Onofrio Buccini, oggi a piazza Sannazaro. Un monumento ubicato al centro del corso che interseca la piazza, tra la Porta del Carmine e la Porta Nolana, oggi detto corso Garibaldi ma un tempo chiamato strada dei Fossi. Meriterebbe piuttosto di esserci Ferdinando II, la cui statua al museo ferroviario di Pietrarsa renderebbe giustizia alla storia di Napoli e delle ferrovie, e sarebbe certamente più amata di quella del massone in camicia rossa, non un massone qualunque ma uno sempre più insigne dopo l’Unità: Gran Maestro ad vitam del Grande Oriente d’Italia e Gran Hyerophante del Rito Egizio di Memphis, uno dei massimi rappresentanti della Massoneria a livello internazionale. Ecco perché la sua statua, a Napoli come altrove nel mondo, è inamovibile. Qui, per giunta, usurpatrice.

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I massacri del Risorgimento non sono una fiction

Imma Tarantanni, produzione Rai ambientata a Matera, in una scena trova l’occasione per raccontare senza veli la triste verità del Risorgimento e della guerra al brigantaggio.

«Ma ti rendi conto che questi… “galantuomini” sono finiti nei libri di storia come gli eroi del Risorgimento? I “grandi” che hanno fatto l’Italia»

Tratto da Napoli Capitale Morale:

La formazione scolastica di base, assegnata a ministri massoni quali Francesco De Sanctis, Michele Coppino e Guido Baccelli, fu la prima cura dell’Italia unita, dottrina d’ingegneria sociale della Massoneria del secondo Ottocento, impegnata nell’obiettivo di diffondendo la fede laica nell’Unità. Nacque una narrazione del Mezzogiorno calunniosa e una romanzata Storia Patria di tutti, che in realtà non apparteneva a nessuno, riempita di un tronfio spirito dei miti fondanti della Nazione e delle battaglie che avevano condotto all’indipendenza. Tutto passava per la celebrazione dei Padri della Patria italiana, cioè ladri della patria napolitana, massoni elevati a somme figure morali della moderna storia nazionale nei libri di storia, negli odonimi stradali e sui basamenti monumentali dello Stivale, dove ancora li si ritrova ben saldi a indicare ai meno sprovveduti quanto influente sia la Massoneria in un paese di profonde radici cattoliche.

Ma la realtà non è una fiction. La puoi sotterrare, ma è un seme che prima o poi germoglia.

juorno.it: “Napoli Capitale Morale libro di vera conoscenza”

recensione di Napoli Capitale Morale a cura della redazione di juorno.itjuornopuntoit

“Napoli Capitale Morale” Così s’intitola l’ultimo libro di Angelo Forgione dopo  i grandi successi di Made in Naples e Dov’è la vittoriatutti editi da Magenes. Il sottotitolo è ancora più intrigante del titolo: Dal Vesuvio a Milano – storia di un ribaltamento nazionale tra Politica, Massoneria e Chiesa. Ancora un ottimo strumento fornito da Forgione per capire l’Italia, per comprendere le ragioni delle differenti velocità di Nord e Sud di oggi e per individuare le origini delle questioni meridionali irrisolte, ma anche per indirizzarsi verso le necessarie soluzioni, come nella tradizione per niente nostalgica dell’autore, che nei suoi lavori parte sempre dal passato ma per arrivare al presente, motivandolo, e poi provare a dare uno sguardo anche al futuro.
Nel titolo è chiaro il riferimento a Milano, la co-protagonista, ma è Napoli la prima attrice, perché oggi è la controversa metropoli del Sud ad aver bisogno di essere decifrata e capita. Forgione lo fa raccontandone il percorso storico, dal Quattrocento a oggi, ma tenendo d’occhio quello del capoluogo lombardo, che sembra non aver bisogno di approfondimenti. E invece ne ha, perché gli elementi dominanti della narrazione di entrambe si sono ridotti ai ritardi partenopei e ai progressi meneghini, alla criminalità organizzata napoletana e alla finanza milanese.
Il paradosso di Napoli è l’occultamento dei suoi valori positivi dietro l’immagine imposta del male; quello di Milano è l’eccessivo ingombro della sua immagine di città impegnata nel progresso.
Documentazione e passione vera affiorano dalla lettura di questo interessante saggio, ricco di fonti e spunti per capire come si sia passati da una capitale vera, la Napoli preunitaria dagli Angioini ai Borbone, a una capitale “morale” della nazione unita qual è Milano, che alla vigilia dell’unificazione era città subordinata a Vienna e a quell’Impero austriaco con cui Napoli aveva dialogato intensamente nel Settecento, allorché la corte asburgica aveva portato la cultura partenopea e le novità del Regno borbonico nel sottoposto Ducato lombardo. Dal 1861 in poi il rapporto è cambiato, le due città hanno smesso di rapportarsi ed è stata invece Milano ad anticipare tutti, tant’è che la sua galleria “Vittorio Emanuele” in ferro e vetro ha fatto da modello per la “Umberto I” di Napoli. Da periferica contea asburgica, il centro lombardo è cresciuto enormemente di rilevanza, fino ad affermare la sua identità di metropoli moderna ed europea e a diventare quel che era Napoli un secolo prima, ovvero meta di professionisti e talenti.
Forgione compie un interessantissimo percorso parallelo e intrecciato della storia di due città che fanno parte della stessa nazione, anche se non sembra, e lo fa con ricchezza di racconti e chiarimenti. Pur non essendo il presupposto dello scrittore, ne viene fuori anche un paragone pregno di riflessioni interessanti. Più che mai attuali quelle relative al ruolo della Massoneria e della Chiesa nei territori italiani, partendo dal Settecento, come pure quelle sulle manipolazioni mediatiche più recenti, di cui troppo spesso Napoli è vittima. Ma la lettura svela, tra tanti racconti, quel che si credeva di sapere e che invece non si sa ampiamente sui simboli culturali delle due città: il San Carlo e la Scala. Il padre del glorioso teatro milanese, Giuseppe Piermarini, non avrebbe mai potuto costruire quella sala e tutta la Milano neoclassica di fine Settecento se prima non fosse stato a imparare a Napoli alla cerchia di Luigi Vanvitelli. E fu un napoletano trapiantato a Milano a fondare Il Corriere della Sera, il quotidiano oggi più diffuso in Italia, e ancora un napoletano fu a definire Milano la “capitale morale”, ma con un significato ben diverso da quello che gli si è dato erroneamente dal dopoguerra in poi, con riferimento a Torino, non a Roma. Sempre un napoletano, nel primo Novecento, salvò dal fallimento la giovane fabbrica di automobili di Milano, creando il mito motoristico della “casa del biscione”, l’Alfa Romeo.
Un libro di vera conoscenza, insomma, davvero denso e completo, dal quale viene fuori tutta una realtà più concreta su Napoli, Milano e l’Italia impossibile da capire senza inoltrarsi nell’operazione ottimamente e opportunamente condotta da Angelo Forgione.