Il giorno della memoria

Gaeta_fineChi diede il diritto a degli italiani di assediare altri italiani? Di puntargli contro odio, fucili e cannoni?

Quali gli ideali, se non quello di conquista di ricchezza che muove chiunque faccia guerra?

Poteva farla Napoli l’Italia, da Sud a Nord, e senza spargimento di sangue. E sarebbe stato un altro paese.

Il 13 febbraio 1861, dopo aver ferocemente resa al suolo “la fedelissima” Gaeta, a conclusione di una guerra di occupazione che chiamano “unificazione”, l’invasore piemontese conquistava la fu Magna Grecia, e ne faceva colonia.

Oggi, 13 febbraio 2020, l’Eurispes certifica che dal 2000 al 2017 il Centro-Nord ha sottratto 840 miliardi di sola spesa pubblica al Sud. Senza contare tutto quello che il Sud passa al resto del Paese in termini di acquisti di beni e servizi (70 miliardi/anno), di formazione scolastica e universitaria dei propri ragazzi che emigrano (20 miliardi/anno), di emigrazione sanitaria (2 miliardi/anno) e di raccolta dei risparmi negli sportelli bancari (700 miliardi/anno) che finiscono per finanziare le aziende settentrionali. Dal 2000 al 2017. E dal 1861 al 1999?

Nessuno tocchi Cialdini e la Guerra al Sud

Angelo Forgione La recente revoca della cittadinanza napoletana onoraria al generale dell’esercito sardo Enrico Cialdini, conferita nel 1861 dal Decurionato di Napoli, ha prodotto la reazione di alcuni accademici, ancor più preoccupati dalla mozione del Movimento 5 Stelle che, nelle regioni del Sud, ha proposto una giornata della memoria per le vittime meridionali del Risorgimento.
A opporsi al “linciaggio” nei confronti di Cialdini è stato inizialmente Perluigi Romeo di Collaredo, dalle pagine di Storia in Rete n. 139 di maggio, accusando il consiglio comunale di Napoli  di seguire “una moda tanto ridicola quanto diffusa” che tende a sotterrare le figure dei protagonisti del Risorgimento sotto una montagna di luoghi comuni e invenzioni propagandistiche. Nel suo scritto, lo storico romano, oltre a dare una notizia infondata asserendo che “anche la Camera di Commercio ha deciso di togliere un busto del generale” (in realtà è il consiglio comunale ad aver deciso di chiedere la rimozione alla Camera di Commercio, che non pare averne intenzione), definisce l’atto finale della battaglia sferrata deliberatamente all’esercito napoletano da quello piemontese-lombardo, come “da entrambe le parti, una bella prova del valore italiano”, cioè indicando l’assedio di Gaeta, ovvero la conclusione di una  guerra voluta da italiani verso altri italiani, come dimostrazione di alto spirito italico. E assolve Cialdini non perché non abbia compiuto quel che gli si imputa, ovvero la repressione della resistenza meridionale in nome del diritto di rappresaglia, ma perché “fu duro come erano duri i generali nel suo secolo e non si comportò diversamente dai suoi contemporanei”. Romeo di Collaredo non nasconde certamente la parola “assedio”, la più corretta per descrivere la conclusione della conquista del Sud: “Oggi c’è chi si permette di accusare Cialdini di «crimini di guerra» per aver bombardato Gaeta, come se un assedio si faccia in modo diverso”. Ed è proprio l’assedio il punto nodale, perché il presupposto sta proprio nel considerare normale quello che non fu un processo democratico di Unità, che le gran parte delle masse popolari del Mezzogiorno non volevano, ma una vera e propria guerra piombata sulla testa di una legittima nazione di diritto. Aveva forse, il Regno di Sardegna, il divino diritto di invadere il Regno delle Due Sicilie senza dichiarazione di guerra? Certo che no, e perciò mandò avanti una spedizione irregolare, quella garibaldina, che avesse le finte spoglie di una rivoluzione popolare della quale raccogliere il testimone nel momento in cui l’opinione internazionale si fosse convinta che la volontà degli italiani fosse l’Italia Unita sotto la corona dei Savoia.
Alla reazione filo-risorgimentale si è accodato con due interventi in tre giorni su la Repubblica anche il salernitano Francesco Barbagallo, docente universitario a Napoli, dove vive. Il primo scritto contro il “neo-sudismo antiunitario”, nel quale si legge di obiettivo del Regno di Sardegna limitato all’Alta Italia. Non era quello un obiettivo dei piemontesi bensì dei protettori francesi, secondo gli accordi segreti di Plombières tra Cavour e Napoleone III, che erano subordinati alla volontà dell’Imperatore di cancellare gli austriaci dalla penisola italiana e instaurare la propria egomonia anche al Sud, magari sostituendo il Borbone con Luciano Murat, figlio di Gioacchino. Barbagallo non racconta che il piano fallì quando Napoleone III, preoccupato dalla possibile espansione del conflitto ingaggiato contro gli austriaci, concluse un armistizio con Francesco Giuseppe a Villafranca di Verona e gli lasciò il Veneto, violando gli accordi sardo-francesi e facendo venir meno in modo indiretto la necessità di preservare la legittimità e la sopravvivenza del Regno delle Due Sicilie. Nel secondo intervento, Barbagallo stigmatizza l’ignoranza su Cialdini del consiglio comunale di Napoli come e quanto Romeo di Collaredo, e se la prende col Movimento 5 Stelle per la richiesta d’istituzione di una giornata della memoria per il Sud, dove per Sud non si intende necessariamente briganti ma anche cittadini inermi, cioè bambini, donne, anziani trucidati, e pure i soldati che giurarono fedeltà per l’esercito del loro regno. Anche Barbagallo ammette che “fu una guerra feroce, da entrambe le parti”, una guerra che “fece più morti delle guerre d’indipendenza”. Possibile che si debba ancora considerare normale il presupposto di una guerra tra italiani, ai napolitani, più sanguinosa di quelle agli austriaci? Possibile che non si comprenda che il concetto di guerra, anche dopo un secolo e mezzo, non può aiutare a conseguire la necessaria unità ma semmai continua dividere per l’ostinata giustificazione a un’invasione e alle azioni di personaggi che del Sud avevano la peggiore considerazione?
Ciò detto, Romeo di Collaredo e Barbagallo hanno ragione a condannare il neo-sudismo che si accontenta della “guerra” a Cialdini, il quale era un esecutore. Che senso ha revocargli cittadinanza e cancellarlo dalle toponomastiche del Sud mentre i mandanti restano degli intoccabili nelle pagine di storia e sui piedistalli delle piazze d’Italia? Cialdini sta diventando il Moggi del Risorgimento. Certamente colpevole, ma non unico colpevole, tra tanti anche più colpevoli e impuniti.

Il Vesuvio rugge, revocata la cittadinanza onoraria a Cialdini

Angelo Forgione È stata approvata in giunta, su proposta del sindaco de Magistris, la delibera con la quale viene revocata la cittadinanza onoraria di Napoli ad Enrico Cialdini, generale dell’esercito piemontese e, successivamente dal luglio 1861, Luogotenente Regio delle province meridionali, responsabile dei massacri di civili a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, del bombardamento di Gaeta e di altri atti dispotici e sanguinosi nel periodo dell’invasione sabauda nel Mezzogiorno d’Italia.
La revoca è stata decisa “come atto di riconoscimento della memoria storica delle vittime delle stragi che il generale Cialdini ha perpetrato nel nostro territorio e nel Mezzogiorno d’Italia”.
La cittadinanza al Generale dell’esercito del Regno di Sardegna fu conferita il 21 Febbraio del 1861 dal Decurionato di Napoli, presieduto dall’allora sindaco Giuseppe Colonna, a conclusione dell’assedio di Gaeta che aveva decretato la scomparsa del Regno delle Due Sicilie. Giuseppe Colonna aveva “ereditato” la carica dal dimissionario Andrea Colonna, nominato Sindaco con decreto di Giuseppe Garibaldi del giorno 8 settembre 1860, al principio del periodo dittatoriale della Città.
Quando Cialdini si insediò in città, il 19 luglio 1861, proclamò minacciosamente: «quando rugge il Vesuvio, Portici trema», alludendo alla paura che egli incuteva nei confronti della nobiltà filoborbonica, ritiratasi nei paesi vesuviani per non vedere la cancellazione della patria napolitana. Quando il Generale lasciò, al termine della sua luogotenenza, disse: «Tolga il cielo che il mio soggiorno tra Voi sia stato di danno a queste belle Provincie». Sui muri della città i napoletani gli lasciarono un messaggio esplicito: «quando il Vesuvio rugge, Cialdini fugge». Il Vesuvio, evidentemente, dopo più di un secolo e mezzo, continua a ruggire.

Il generale Cialdini sempre più sgradito al Comune di Napoli

Angelo Forgione Il Consiglio comunale di Napoli, nel corso della seduta del 20 marzo, ha approvato la modifica dello statuto con cui si riconosce a Napoli il ruolo di “Città di Pace e di Giustizia”. Inoltre, dando seguito al confronto sulla storia e l’identità di Napoli nel contesto del Meridione e del Mediterraneo tenutosi l’11 marzo in Commissione Cultura, si è discusso, tra i vari ordini del giorno, dell’istituzione di una giornata giornata della memoria del popolo meridionale e della revoca del della cittadinanza onoraria al generale Enrico Cialdini, responsabile dei massacri di civili a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, del bombardamento di Gaeta e di altri atti dispotici nel periodo dell’invasione sabauda nel Mezzogiorno d’Italia. La cittadinanza al Generale dell’esercito del Regno di Sardegna fu conferita il 21 Febbraio del 1861 dal Decurionato di Napoli, presieduto dall’allora sindaco Giuseppe Colonna, a conclusione dell’assedio di Gaeta che aveva decretato la scomparsa del Regno delle Due Sicilie. Giuseppe Colonna aveva “ereditato” la carica dal dimissionario Andrea Colonna, nominato Sindaco con decreto di Giuseppe Garibaldi del giorno 8 settembre 1860, al principio del periodo dittatoriale della Città.
Nel corso della discussione dell’ordine del giorno, approvato all’unanimità, ha preso la parola Luigi De Magistris, sollecitato dal consigliere Andrea Santoro a cogliere l’invito unanime del Consiglio a proporre all’ente Camera di Commercio di Napoli di rimuovere il busto di Cialdini dal salone delle contrattazioni del palazzo dellal Borsa. Il sindaco ha riferito di essersi già attivato per procedere alla revoca della cittadinanza onoraria conferita a Cialdini. «Sin dal primo momento – ha detto il Primo Cittadino – questa amministrazione ha avuto grande attenzione per la toponomastica. Mettere la storia al suo posto significa anche revocare la cittadinanza a Cialdini. Presto inaugureremo l’area dedicata ai Martiri di Pietrarsa e continueremo, perché la gente che legge il nome di una strada o vede un monumento deve capire qual è la storia di Napoli. Auspico che il Consiglio si pronunci all’unanimità, perché comunque andremo in quella direzione per dire a tutti che la Città di Napoli ha revocato la cittadinanza a chi si è macchiato di crimini orrendi nei confronti del popolo meridionale».
Il successivo ordine del giorno ha riguardato l’istituzione di una giornata della memoria del popolo meridionale, con relative modifiche ai programmi e ai testi scolastici per il ripristino della verità storica sull’Unificazione d’Italia, alle intitolazioni di strade e piazze e conseguente rimozione di monumenti dedicati a discussi personaggi del Risorgimento. Quest’ordine del giorno, per la sua complessità, è stato rinviato ad un maggiore approfondimento in Commissione Cultura.

Il Generale Cialdini è sgradito al Comune di Napoli

Angelo ForgioneA conclusione della seduta del consiglio comunale di Napoli del 23 dicembre 2016, si è svolta la discussione sull’ordine del giorno presentato dal consigliere Andrea Santoro (Fratelli d’Italia-An) con cui si intendeva proporre al sindaco Luigi de Magistris di esplicitare presso la Camera di Commercio la volontà di rimuovere i busti del generale Enrico Cialdini e del conte Camillo Benso di Cavour dalla sala delle contrattazioni del palazzo della Borsa.
Santoro ha preso la parola e spiegato le motivazioni della mozione tra la confusione dei colleghi, con numerosi consiglieri deputati al voto a confabulare come al bar. A ricondurre l’intero Consiglio all’attenzione, più che il presidente Alessandro Fucito, è stato il consigliere Salvatore Pace (Lista DEM), che si è appellato alla serietà dell’argomento e ha sollecitato un nuovo percorso di rivisitazione della toponomastica. Da questi è giunto favorevole sostegno alla mozione, come pure dalla collega di lista Eleonora Di Majo, proveniente da quel collettivo politico (Insurgencia) che già in passato ha manifestato per chiedere la rimozione dei busti. Francesca Menna (Movimento 5 Stelle) ha poi proposto una commissione per la rivisitazione della storia del Meridione e per la divulgazione nelle scuole cittadine. Ha chiuso la discussione Gaetano Simeone, che ha chiesto al collega di banco Santoro di limitare la proposta di rimozione al solo Cialdini, «dato per assodato che per tutti trattasi di cialtrone», e di rimandare Cavour a un maggior approfondimento storico sulla sua figura in un’opportuna commissione consiliare. Spazio anche a una battuta finale dello stesso Simeone: «a meno che Pace non ci dica che Cavour era uno juventino, perché in quel caso…». Dal banco della presidenza, Fucito ha chiarito che la Juventus, nel 1861, non era ancora nata.
Atto modificato ma approvato all’unanimità.
La parola passa ora alla Camera di Commercio di Napoli. Sarà l’ente di Piazza Bovio a decidere se il busto di Cialdini potrà essere rimosso o dovrà restare dove si trova. Intanto è già significativo che per l’attuale consigliatura comunale di Napoli sia ufficialmente considerata sgradita l’effigie del Generale e Luogotenente di Vittorio Emanuele II, massacratore di circa 9000 meridionali durante l’inavsione piemontese del Sud e responsabile dei violentissimi bombardamenti dell’assediata Gaeta, della distruzione di una decina di paesi interamente dati alle fiamme (Pontelandolfo e Casalduni i più noti), oltre che dei feriti, dei prigionieri, dei deportati, delle perquisizioni e dei saccheggi delle chiese.

Resta comunque impresa arda la sua sparizione, poiché il Sindaco non ha potere sulla Camera di Commercio, e certamente si attiveranno forti opposizioni. Facile prevedere che si dirà che il Palazzo della Camera di Commercio di Napoli è stato costruito a fine Ottocento anche grazie all’elargizione dello stesso Cialdini di una parte di quanto risparmiato dalle spese di rappresentanza per conto di Vittorio Emanuele II. Quell’edificio, infatti, è proprio un simbolo di colonizzazione co-finanziato da un criminale di guerra, che in tal modo intese cancellare lo splendore della precedente sede della Borsa Cambi e Merci di Napoli (nata nel 1778) nella Gran Sala del Real Edificio dei Ministeri di Stato, l’attuale Palazzo di San Giacomo, a metà dell’antico cammino coperto in ferro e vetro realizzato da Stefano Gasse che conduceva a via Toledo (ostruito nel Ventennio fascista dalla costruzione del palazzo del Banco di Napoli). Cialdini era convinto che, con quel gesto, il suo nome non sarebbe stato maledetto dai napoletani, che tanto lo detestarono. «Tolga il cielo che il mio soggiorno tra Voi sia stato di danno a queste belle Provincie», disse il Generale lasciando la città. Sui muri, i napoletani gli lasciarono un messaggio esplicito: “Quando il Vesuvio rugge, Cialdini fugge”. Era il verso alla frase «quando rugge il Vesuvio, Portici trema» con cui, il 19 luglio 1861, il generale concluse il minaccioso proclama di insediamento a Napoli. Nel Vesuvio c’era l’allusione a se stesso, e dietro al nome di Portici c’era la nobiltà filoborbonica ritiratasi nei paesi vesuviani per non dover assistere alla cancellazione della patria napolitana.

Il busto di Cialdini rispedito a Torino, ma è solo protesta

Angelo Forgione Incursione degli attivisti del gruppo meridionalista Insurgencia nel salone delle contrattazioni della Borsa di Napoli, in piazza Bovio. Obiettivo: il busto del generale Enrico Cialdini, con la sua espressione sprezzante e autoritaria. Imballato completamente e simbolicamente spedito a Torino, la città dalla quale il luogotenente del Regno di Sardegna fu inviato a Napoli per reprimere nel sangue la reazione dei meridionali all’invasione sabauda del 1860.
“Siamo convinti – commentano sulla loro pagina Facebook gli autori della protesta – che dal punto di vista simbolico (ma non solo) oggetti come quello di cui parliamo rappresentino la plastica volontà di cancellare un pezzo di storia coloniale e di parte che è la storia del saccheggio che ha subito il nostro territorio a partire dall’unità. Una storia che ha condizionato e condiziona le nostre condizioni di vita, di sviluppo, che ancora determina l’iniqua distribuzione delle risorse economiche e l’assoluta sproporzione tra le condizioni di vita del Nord e del Sud del paese. L’azione di questa mattina serve esattamente a ribadire il nostro rifiuto radicale per questi continui tentativi di mettere le mani sulla città, sulla nostra città, le mani della speculazione e del saccheggio, le mani dell’oppressione delle forze dell’ordine la cui presenza nelle strade aumenta solo l’insicurezza e occlude la libertà. Napoli piuttosto rivendica tutta la libertà che merita, rivendica autonomia nella gestione delle proprie questioni e rivendica soprattutto una inversione radicale dell’ordine di discorso intriso di razzismo con cui da sempre vengono affrontate da sempre tutte le questioni sociali”.
Vale la pena ricordare che il busto fu voluto dallo stesso Cialdini, al quale si deve la costruzione del palazzo della Borsa per motivi meramente propagandistici. Evidentemente non è bastato per cancellare il triste significato che continua a sprigionare: circa 9.000 fucilati (anche esponenti del clero), circa 10.000 feriti, circa 7.000 prigionieri, circa 1.000 case incendiate, circa 3.000 famiglie violate, circa 14.000 deportati in Piemonte, 6 paesi interamente messi a ferro e fuoco, circa 1.400 comuni assediati, circa 160.000 bombe scaricate su Gaeta che fecero circa 5.000 vittime tra napoletani (in grande maggioranza) colpiti anche da tifo, e poi chiese e regge saccheggiate. Tutto sommato basta per descrivere il generale vanaglorioso e spietato che “liberò” Napoli e il Sud per conto di Vittorio Emanuele II.

Centinaia di persone ad Avellino per “Made in Naples”

avellino_ottopaginedi Ilde Rampino per Ottopagine del 7 dicembre ’14

avellino_6Una presenza importante nel giorno in cui la ’Accademia dei Dogliosi’, presieduta dall’Avv. Fiorentino Vecchiarelli, con il contributo fondamentale del Preside Giovanni Sasso, presidente della Società Filosofica di Avellino, assegna annualmente borse di studio “Pina Cerullo”agli studenti meritevoli delle scuole superiori di Avellino e provincia, è stata quella del giornalista e scrittore napoletano Angelo Forgione, che ha presentato all’Hotel de la Ville di Avellino il suo libro Made in Naples che sta ottenendo un grande successo.

L’intervento di Angelo Forgione è stato molto interessante e ha trasmesso la sua passione e il suo impegno per ridare dignità alla nostra terra che deve risollevarsi dal baratro in cui sembra essere caduta, e con estrema disponibilità ha risposto ad alcune domande.

Cosa rappresenta per lei Napoli e il Meridione?

Una sola parola: universalità. Napoli rappresenta un pilastro culturale, a livello mondiale, con tutto ciò che ha espresso e ha trasmesso oltre i suoi confini e quelli dello Stato.

Qual è stato secondo lei, il periodo storico che più degli altri ha lasciato un’impronta sulla città di Napoli?

Sicuramente il periodo borbonico, perché è quello che dal punto di vista culturale ha dato di più in tutti i campi, anche a livello sociale, al di là delle pecche innegabili e che pur vanno riconosciute, ma è stato il periodo che ha reso Napoli una capitale europea, e abbiamo il dovere di affermarlo con forza. Nella descrizione del centro storico di Napoli patrimonio dell’Umanità UNESCO c’era scritto che con Garibaldi finiva “il regime e la tirannia borbonica”. Io mi sono battuto per ottenere una modifica e oggi c’è scritto che “si chiuse l’epoca della dinastia borbonica.

Come si è posto nei confronti dell’indifferenza con cui gli italiani trattato la città di Napoli e i meridionali?

Si tratta in realtà di una sorta di vero e proprio accanimento nei confronti della città e del Meridione, che credo sia dettata da un profondo senso di invidia per il nostro passato importante; l’identità di Napoli e del Sud Italia è forte, ed è anche temuta, perché l’Italia nel mondo è un po’ vista come una grande Napoli, nel bene e nel male. Non dimentichiamo mai che l’intolleranza verso la diversità nasce da ciò che è percepito come un pericolo.

Il suo libro è stato scritto con uno scopo revisionistico o rappresenta un atto d’amore nei confronti della sua città?

Entrambe le cose, non c’è rabbia, ma tanto amore per Napoli che deve essere raccontato per quello che è, per questa grande capitale che faceva e promuoveva cultura in tutto il Sud, è un libro denso di nozioni storiche e di riflessioni basate su fonti documentarie.

Da cosa può rinascere un senso di riscatto da parte dei napoletani e dei meridionali in genere per recuperare il senso di ciò che siamo stati nel passato?

Ci sono dei passaggi obbligati per recuperare ciò che ci è stato tolto: la memoria, la rabbia, l’orgoglio e il riscatto. Siamo al terzo stadio e per arrivare alla fine c’è bisogno di unione e condivisione per pervenire a una piena coscienza popolare.

Dopo la proiezione di un DVD sulla storia delle rivolte avvenute in Irpinia nel 1860–61, scritto e diretto dall’Avv. Antonio De Martino, il Presidente Fiorentino Vecchiarelli, ha affermato la necessità di stabilire la verità storica in un territorio che fino al 1860 era molto importante e ricco, che ha subito ingiustizie e soprusi, e ha proposto che le strade siano intitolate a personalità importanti del nostro Sud, al fine di rivendicare il nostro orgoglio meridionale. Angelo Forgione è rimasto molto colpito ed emozionato dalle vicende storiche presentate nel filmato e ha invitato tutti a chiedersi chi avesse il diritto di invadere le nostre terre e sottomettere il nostro popolo, poiché è stata portata avanti una verità storica che non è tale, riguardo al compiersi dell’Unità d’Italia: «C’è stata una carneficina – ha detto lo scrittore – ma noi non abbiamo un sacrario della memoria per i nostri morti. È necessario capire chi siamo. L’Unità d’Italia non è nata per un moto liberale spontaneo, ma è stata voluta dalle nazioni forti d’Europa».
Forgione ha ricordato l’importanza che Napoli e il Regno delle Due Sicilie avevano nell’’800, e i rapporti di amicizia tra Ferdinando II di Borbone e lo zar Nicola I – a tal proposito ha ricordato i due cavalli “di bronzo” posti davanti al Maschio Angioino, dono dello Zar, ve ne sono di simili a San Pietroburgo sulla Neva – e i problemi di carattere economico, che sorsero in occasione dell’apertura del Canale di Suez, nel 1869, perché il Regno delle Due Sicilie ne sarebbe stato favorito commercialmente.
Lo scrittore, spiegando la genesi del suo libro davanti ad un uditorio attento e interessato – all’incontro hanno partecipato 400 persone – ha messo in rilievo che il “muro della cultura” meridionale è stato sfondato e cancellato. Egli ha preso i mattoni sparpagliati e l’ha ricostruito. Ed è di tufo giallo, simbolo della zona vulcanica e del nostro essere capaci di assorbire culture diverse. «Napoli le ha sempre accettate», ma ora, secondo Forgione, sta venendo fuori la convinzione di essere colonizzati.
Sulla copertina vi è l’immagine della mela annurca, la regina delle mele, ma nessuno la compra più, perché ci sono alcuni territori inquinati – in realtà solo il tre per cento del territorio campano – riferendosi alla “Terra del Fuochi”, «ma fare certe battaglie non deve creare altri problemi: la mela annurca è diventata nera di rabbia, ma serve positività».
Il libro è fatto di mattoni: fiabe che nascono nel territorio campano come “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile; l’Opera e la Musica sacraMozart ha frequentato i conservatori di Napoli, città che apprezzava molto – e a questo punto lo scrittore spiega che in origine questi erano luoghi in cui venivano accolti i bambini poveri e si dava loro un’istruzione, ma poi, vista la grande tradizione di questa città, l’insegnamento musicale divenne preponderante e quindi il termine definì principalmente le scuole di musica. Tra i vari “mattoni” del libro Made in Naples troviamo: la Canzone, che nell’’800 fu influenzata da Donizetti; la Tolleranza e le Pari opportunità (a San Leucio, prima della Rivoluzione francese, Ferdinando IV e Maria Carolina convivevano con i coloni e le donne potevano scegliere chi sposare); la Previdenza sociale, per cui si poteva chiedere assistenza sociale anche senza dare le proprie generalità; la Protezione Civile e il Governo del territorio; l’Economia civile, il cui termine deriva da “civitas” romana che includeva anche il popolo; la Pasta di grano duro, rivoluzione alimentare della conservazione; il Presepe, che non era la rappresentazione di una grotta, bensì di Pompei, con gli archi e le rovine che si offrono al mondo, in seguito alla cui scoperta nasce il Neoclassicismo che ha influenzato persino la Casa Bianca a Washington; gli Antibiotici con la scoperta della penicillina fatta prima di Fleming dallo studioso napoletano Vincenzo Tiberio.

Jean-Noël Schifano illustra la disunità d’Italia nella città di Garibaldi

al C.U.M. di Nizza conferenza su “la désunité italienne”

Angelo Forgione per napoli.com  – Sempre affascinato da Napoli, Jean-Noël Schifano, direttore letterario per l’editrice Gallimard e critico di Le Monde, ovunque si trovi, descrive la Capitale con stile e ricrea il fascino di una civiltà che mantiene la sua autonomia culturale.
Schifano è stato protagonista mercoledì 4 giugno di una conferenza al Centre Universitaire Méditerranéen di Nizza dal titolo “la désunité italienne”. Sì, la disunità italiana, raccontata proprio nella città natale di Garibaldi. Un’ora e mezza di racconti storici, più un quarto d’ora di risposte alle domande dei più di 300 presenti, per descrivere la realtà meno nota del Regno delle Due Sicilie nel 1860, le sue eccellenze, e l’interruzione del progresso ad opera di Garibaldi il nizzardo, Bixio, Cialdini, Vittorio Emanuele II e Cavour, «i criminali», attraverso «le menzogne e i plebisciti falsati agli occhi di tutti e sempre benedetti dalla Repubblica italiana».
Il percorso storico è culminato nel disastro del presente, nel degrado sociale del Mezzogiorno di oggi che muore sempre più e non può trovare speranze nelle contraddizioni verbali del premier italiano Matteo Renzi, «un nanomachiavelli», prima lusinghiero in campagna elettorale europea nei confronti dell’antico Stato meridionale, a tal punto da eleggerlo a modello di rinascita economica, e poi offensivo subito dopo le elezioni.
Vibrante anche la denuncia del museo lombrosiano di Torino, definito da Schifano «un obbrobrio dell’umanità». Quando dal pubblico l’esposizione è stata definita “una sfumatura della storia”, Schifano ha risposto con decisione: «Fatti e date, caro Signore, fatti e date che il mondo intero può controllare… E, scusi, se lei scoprisse un bel giorno in un museo, su uno scaffale nuovo fiammante, in un boccale conservato da 150 anni, la testa del suo bisnonno, farebbe delle sfumature?» Applausi scroscianti in sala.
Significativa una citazione di Rocco Scotellaro: «Bisogna strappare le maschere con i denti…». Vera emozione del pubblico, unita alla commozione per le reclusioni nel forte di Fenestrelle e per la descrizione, con dovizia di particolari, di alcuni massacri commessi delle truppe piemontesi.
Schifano ha pure messo in evidenza le campagne denigratorie di cui Napoli è vittima da più di un secolo e mezzo, descrivendo per esempio le varie copertine de l’Espresso, tra cui l’ultima titolata “Bevi Napoli e poi muori”: «Innumerevoli umiliazioni per coprire la sola Città capitale d’Italia di onta identitaria e rinforzare a spazi regolari, da 154  anni, una xenofobia storica degna dei peggiori colonizzatori».
«Non immaginate – ha detto l’intellettuale francese – con quanta rabbia Napoli e il Sud stiano riprendendosi sempre di più l’identità rubata, nonostante tutte le razzie economicamente mortali che da 154 anni si sono fatte, da Marsala alla Campania Felix. E questo grazie anche al coraggio di scrittori come Pino Aprile e Angelo Forgione (ringraziamenti, NdR), determinati a pubblicare libri-verità accecanti».
Chiusura con una sentenza: «A giudicare dalla partecipazione, Garibaldi, a Nizza, sembra “seppellito” da molto tempo».

Il palazzo della Borsa che inganna i napoletani

Lo ordinò Cialdini per nascondere la scia di sangue lasciata al Sud

Angelo Forgione – Il Comune di Casamassima, Bari, ha cancellato Enrico Cialdini dalla toponomastica stradale; dal 30 dicembre 2013 non esiste più (leggi qui). Lo stesso, dopo pochi giorni, ha fatto Mestre, Venezia (leggi qui).
Cialdini, per chi non lo sapesse, fu il luogotenente di Vittorio Emanuele II a Napoli, con poteri eccezionali per fronteggiare il brigantaggio. Lasciò una scia di sangue e dolore in tutto il Sud, firmando la condanna a morte di circa 9000 meridionali, oltre ai violentissimi bombardamenti dell’assediata Gaeta, la decina di paesi interamente dati alle fiamme (Pontelandolfo e Casalduni i più noti), i feriti, i prigionieri, i deportati, le perquisizioni e le chiese saccheggiate. A chi si domanda a cosa serva ritirare fuori tutto questo dal passato basti ricordare che l’Italia ha fatto sparire il capitano delle SS naziste Erich Priebke nel nulla di un posto segreto per le 335 vittime delle Fosse Ardeatine. Non è forse passato anche quello? E però quest’Italia non si è mai scomposta per figure ben più feroci come quella di Enrico Cialdini, serenamente seppellito a Livorno. La guerra tra italiani ha portato in gloria un generale sanguinario e vanaglorioso che continua a godere di falsi onori.
Recentemente, in una seduta consiliare del Comune di Bacoli è passato un documento per la celebrazione del bicentenario dei Carabinieri, ringraziati anche “per la lotta ai briganti”. I consiglieri indipendenti Adele Schiavo e Josi Della Ragione si sono opposti, proponendo un emendamento con cui chiedevano l’eliminazione della parte della frase relativa alla lotta ai briganti, bocciato per i voti contrari dei consiglieri di PD e Forza italia. Briganti o patrioti? La rilettura degli avvenimenti che sconvolsero il meridione dopo il 1860 è in corso ma fatica a trovare accoglimento nei luoghi istituzionali. Al palazzo della Borsa di Napoli in piazza Bovio, ad esempio, nel salone delle contrattazioni, c’è proprio il simbolo della colonizzazione culturale dalla quale deriva tutto il resto: il busto di Cialdini (clicca sulla foto per ingrandire). Fu una sua volontà. Un bell’edificio costruito a fine Ottocento per cancellare lo splendore della precedente sede della prima Borsa d’Italia, la Borsa Cambi e Merci, nata nel 1778. Dal 1826 svolgeva la sua attività nella Gran Sala del Real Edificio dei Ministeri di Stato, l’attuale Palazzo di San Giacomo, a metà dell’antico cammino coperto in ferro e vetro realizzato da Stefano Gasse che conduceva a via Toledo, cancellato nel Ventennio fascista dalla costruzione del palazzo del Banco di Napoli (nel 1778, le contrattazioni avvenivano nel chiostro del complesso religioso di san Tommaso d’Aquino, tra via Toledo e via Medina, abbattuto nel 1932, e poi, con l’arrivo dei francesi, nella sede del palazzo del Monte dei Poveri Vergognosi in via Toledo, divenuto successivamente quello de “La Rinascente”).
Quello attuale si chiama salone delle contrattazioni solo pro forma, visto che Cialdini compartecipò allo svuotamento delle casse degli istituti di credito meridionali e alla progressiva sparizione della Borsa di Napoli dalle scene finanziarie nazionali ed internazionali. Quel busto, insieme a quello di Cavour che gli sta di fianco, sempre voluto da Cialdini, è una beffa, un simbolo di colonizzazione a bella posta. Il luogotenente modenese elargì una parte di quanto risparmiato dalle spese di rappresentanza per conto di Vittorio Emanuele II sui fondi messigli a disposizione dal Re d’Italia, e fece costruire il palazzo della Borsa in modo che il suo nome non fosse maledetto dai napoletani e dai meridionali, auto-assolvendosi in questa maniera per le sventure procurate. La sua coscienza era sporca e lo si capisce dalle parole pronunciate quando lasciò la città al termine della sua luogotenenza: «Tolga il cielo che il mio soggiorno tra Voi sia stato di danno a queste belle Provincie». Sui muri della città i napoletani gli lasciarono un messaggio esplicito: «quando il Vesuvio rugge, Cialdini fugge». Era il verso alla frase «quando rugge il Vesuvio, Portici trema» con cui, il 19 luglio 1861, il generale concluse il minaccioso proclama di insediamento a Napoli. Il Vesuvio era egli stesso, e dietro il nome di Portici alludeva alla nobiltà filoborbonica ritiratasi nei paesi vesuviani per non vedere la cancellazione della patria napolitana.
Cialdini non immaginava che sarebbero trascorsi circa quarant’anni prima che il palazzo col suo busto fosse inaugurato. Solo dopo la sua morte (1894) furono avviati i lavori di costruzione. La difficoltà di trovare un suolo adeguato allungò i tempi, durante i quali si aggiunsero contributi della Provincia, del Comune e del Banco di Napoli. A rendere ancora più grande la beffa ci ha pensato l’amministrazione Iervolino che, nel dicembre 2010, ha fatto sistemare il monumento equestre di Vittorio Emanuele II (rimosso da piazza Municipio) nella piazza appena rimessa a nuovo con la chiusura dei cantieri della metropolitana. Qualche tempo fa, come riportato su questo blog, Jean-Noël Schifano chiese al presidente della Camera di Commercio di Napoli di far rimuovere il busto di Cialdini perché, appunto, offensivo. Maurizio Maddaloni rispose che se fosse stato per lui avrebbe già incappucciato anche Cavour. Chi sta a guardia di certi simboli su cui non ci si deve interrogare?

Sissi e Maria Sofia, due sorelle regine in guerra

wittelsbachAngelo Forgione per napoli.com Maria Sofia Wittelsbach, l’ultima regina di Napoli, sposa di Francesco II di Borbone, e la più celebre sorella Elisabetta, moglie di Francesco Giuseppe d’Austria, detta “Sissi”, erano donne molto simili e tanto affiatate. Figlie del duca di Baviera Max e della duchessa Ludovica, crebbero insieme nella tenuta di Possehofen, dove divennero abili cavallerizze, impararono a tirare di scherma, a fare ginnastica e a nuotare. Maria Sofia, di circa quattro anni più giovane, era la preferita del padre che si rivedeva in lei. Ma Elisabetta era molto somigliante a Maria Sofia, non solo esteticamente: entrambe erano molto vicine a rassicuranti per i loro soldati. La “napolitana” resistette con i suoi sul forte di Gaeta, sotto assedio delle bombe dei potenti cannoni rigati in dotazione ai piemontesi, guidati dal feroce generale Cialdini. Si recava sul fronte, e poi negli ospedali, dove portava il suo conforto. Aveva diciannove anni, il suo Francesco ventiquattro. Due ragazzi catapultati sullo scenario internazionale, ad accompagnare la fine di un Regno. Si erano sposati l’8 gennaio 1859 a Monaco di Baviera e lei, subito dopo, prima di trasferisi a Napoli, si era recata per un breve soggiorno a Vienna, per stare accanto alla sorella Sissi, in quel momento malata. Ciò nonostante, Elisabetta ricambiò il gesto, accompagnando Maria Sofia a Trieste, da dove si imbarcò alla volta di Bari per giungere a Napoli, dove avrebbe presto preso le redini di uno Stato considerato il giardino d’Europa.
Gli eventi, per le due, stavano per precipitare. Napoleone III e Cavour si accordarono segretamente per una guerra a Francesco Giuseppe, combattuta tra il 27 aprile e il 12 luglio. L’Austria, perdente, fu costretta a cedere alla Francia la Lombardia, girata poi al Regno di Sardegna. Ne conseguì la fine delle ingerenze politiche della sovranità austriaca in Italia, con Toscana, Parma, Modena e Romagna pontificia che consegnarono il potere a governi provvisori filopiemontesi. Restavano da spodestare i Borbone dal Sud e fu più facile con la morte di Ferdinando II, che, durante gli ultimi giorni della sua vita, aveva istruito i principi ereditari sulle faccende del Regno, raccomandando la bavarese di non fidarsi mai dei “parenti di Torino”, definiti “piemontesi falsi e cortesi”.
Garibaldi iniziò l’invasione a maggio. La preoccupazione per l’amata sorella Maria Sofia spinse Elisabetta a chiedere un intervento dell’Austria a favore delle Due Sicilie, ma Francesco Giuseppe preferì evitare di intromettersi in uno scenario in cui le grandi potenze di Inghilterra e Francia avevano deciso perentoriamente le sorti italiane. Il matrimonio tra i due, già minato da notizie di infedeltà da parte dell’Imperatore, entrò in crisi.
L’8 dicembre, Francesco II decretò la resa al Piemonte e il 14 febbraio successivo, dalla piazzaforte di Gaeta, diede il suo commiato ai soldati al culmine di una resistenza valorosa. La borbonica Gaeta fu rasa al suolo, punita perché nel 1848 aveva ospitato Pio IX nel suo riparo dalla Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini. Con il Re, Maria Sofia lasciò la “fedelissima” per l’esilio vaticano di Roma, a bordo del piroscafo francese Mouette, mentre sulla fortezza le truppe sabaude ammainavano per l’ultima volta la bandiera bianca delle Due Sicilie per issare il tricolore sabaudo. L’Italia iniziava lì, e poco più di un mese più tardi Vittorio Emanuele II si sarebbe autoproclamato “Roi de l’Italie”. La piccola Wittelsbach avrebbe odiato per sempre i piemontesi, covando vendetta e sperando sempre di trovare il modo per riprendersi il suo Regno. Già dalla sua nuova residenza di Palazzo Farnese, proprietà dei Borbone in una sporca e decadente Roma, progettò con legittimisti, banditi e avventurieri, il riscatto. Non vi riuscì mai. Anzi, subì infamia, a cominciare dalla pubblicazione, nel 1862, del primo fotomotaggio della storia con il suo volto applicato al corpo nudo di una prostituta, messo in circolazione da agenti liberali filo-piemontesi. Nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, appoggiò l’Impero tedesco e quello austro-ungarico contro il Regno d’Italia dei Savoia. Come a Gaeta 56 anni prima, visitò i campi dei prigionieri italiani per portare loro dei libri, dei sigari e un po’ di cibo. Cercava quelli meridionali, ai quali si rivolgeva con un curioso accento tedesco-napoletano, e quelli non sapevano chi fosse quell’anziana signora così sensibile e cordiale. La valorosa donna tedesca visse sempre in esilio, lontana dalla “sua” Napoli.
Nell’ex Capitale si recò invece Sissi, l’11 settembre del 1890; un tour di cinque giorni per vedere i posti in cui la sorella minore aveva regnato e per lenire un grosso dolore: l’anno prima, il figlio Rodolfo si era tolto la vita dopo aver ucciso la donna amata. Elisabetta non si sarebbe mai ripresa da quel dolore, portando il lutto fino all’ultimo giorno della sua vita, in preda a continui esaurimenti nervosi. Giunse a Napoli a bordo del suo yacht e si tuffò subito nella città della congiunta. Tra caffè e gelati al Gambrinus, visitò monumenti, gustò panorami e curiosò tra negozi e botteghe, dove si rifornì di porcellane, pastori da presepe, coralli e molte altre specificità locali che gli artigiani napoletani lavorarono esclusivamente per lei. Fu anche alla Reggia di Caserta, dove ammirò con emozione i ritratti della sorella e, fortemente scossa, si soffermò in contemplazione al cospetto di quello col figlio Rodolfo. Il 17 novembre Sissi prese il treno e andò a Pompei, dove alcuni artisti stavano copiando per lei affreschi e decorazioni da riprodurre nella sua villa di Corfù. Quattro anni dopo, il cognato Francesco II delle Due Sicilie, malato di diabete, morì ad Arco di Trento. Nel 1898 toccò a lei: a Ginevra fu accoltellata da un anarchico squilibrato, trovando riposo eterno nella Cripta Imperiale di Vienna.
Maria Sofia visse più a lungo. Solo il 19 gennaio del 1925, a Monaco, l’ultima regina di Napoli lasciò questo mondo. Riuscì a tornare a Napoli col marito solo il 18 maggio 1984, quando le loro spoglie furono traslate dalla chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani a Roma nella basilica di Santa Chiara. Poco più di un mese dopo, un certo Diego Armando Maradona sarebbe sbarcato a Napoli. Un altro re, che avrebbe portato il primo scudetto in città in un 10 maggio (1987), la stessa data dell’ingresso di Carlo di Borbone nel 1734. Ma questa è un’altra storia.