––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione per Napoli freepress– È in dirittura d’arrivo il percorso iniziato nel 2015 dalla giunta De Magistris per il cambio toponomastico della strada prospiciente il Castel Nuovo, sottratto a Vittorio Emanuele III e assegnato a Salvatore Morelli, liberale pugliese, massone e avversario di Ferdinando II di Borbone. Un passaggio di consegne non troppo rivoluzionario nei significati politici ma certamente clamoroso per l’importanza del personaggio spodestato, il terzo re dell’Italia unita. In suo soccorso è giunto il discendente Emanuele Filiberto, con una lettera pubblicata sulle pagine de Il Mattino in cui è contenuto il lamento indirizzato al sindaco di Napoli per la decisione, inoltrandosi in un vicolo cieco della storia, una strada senza uscita.
Il principe basa la sua dolente rimostranza sui risultati del referendum istituzionale del Giugno 1946, allorché la monarchia ebbe a Napoli quasi l’ottanta per cento dei consensi, e sul fatto che per circa un decennio, fino ai primi anni Sessanta, un partito dichiaratamente monarchico governò la città. Due furono i motivi di quel coro partenopeo pro-Savoia che ancora oggi fa discutere l’Italia intera.
Primo motivo fu il retaggio storico dei napoletani, storicamente legati alla forma monarchica e poco inclini a quella repubblicana. Ospitare un re in città nutriva ancora l’antico ricordo di una capitale e di un regno ormai scomparsi, un regno che aveva portato il nome della città stessa. Strano a dirsi, ma Vittorio Emanuele III aveva mostrato amore per Napoli, la sua città di nascita. Ne parlava ottimamente il dialetto, e del resto qui era stato messo a mondo l’11 novembre del 1869, e alla Scuola militare “Nunziatella” era stato allevato. Conosceva anche il piemontese ma, ancor più strano a dirsi, non amava troppo il Piemonte. Prima di ereditare il trono d’Italia, era stato il Principe di Napoli, titolo nobiliare affascinante per la gente della città, quantunque fosse subalterno e simbolo di una chiara sudditanza poiché spettante al primogenito del Principe di Piemonte, ovvero dell’erede al trono d’Italia. Quel titolo, sin dall’annessione del Sud al Regno di Sardegna, aveva avuto sempre l’intento di rafforzare fra i napoletani il sentimento patriottico di matrice piemontese.
Un altro fattore, secondario ma non poco incisivo sulla maggioranza bulgara dei monarchici napoletani e del resto del Mezzogiorno, fu rappresentato dalle manipolazioni politiche del ministro dell’Interno, il repubblicano piemontese Giuseppe Romita, che orchestrò le prime elezioni amministrative dopo la dittatura fascista in modo da mettere in secondo piano l’espressione dei meridionali. Quelle consultazioni si svolsero, fatto fondamentale, poco prima del referendum, ma non dappertutto. Le votazioni furono distribuite non in una sola tornata ma, irregolarmente, in due momenti, il primo in primavera e il secondo in autunno, a distanza di mesi, in modo da piazzarvi in mezzo proprio il più importante referendum del 2 e 3 giugno per scegliere tra la monarchica e la repubblicana. Il clima politico di quei mesi lo espresse il socialista Pietro Nenni: «O la repubblica o il caos». Liberata l’Italia dal Nazifascismo e dalla furia distruttiva anglo-americana, bisognava liberarsi anche dei Savoia.
I napoletani e tutti i meridionali, quindi, si videro pure aggirati ed estromessi dalle scelte politiche, tutte ormai dominate dal “vento del Nord”, definizione coniata in quei frangenti per definire la spinta politica settentrionale alla destituzione della monarchia e alla svolta democratica, accusando la strategia del ministro Romita, da lui stesso spiegata in seguito: mettere in minoranza il Sud, storicamente legato alla forma monarchica, facendo votare immediatamente il Nord alle amministrative prima che si votasse per il referendum, il quale si sarebbe svolto con i primi risultati, prevedibilmente filo-repubblicani, delle elezioni amministrative nel Settentrione. Furono mandate molto presto al voto locale le città di tendenza repubblicana, Milano compresa, la più filo-repubblicana, quella che era stata la sede in Alta Italia del Comitato di Liberazione Nazionale e che, a guerra finita, risultava a tutti quale primaria roccaforte del nuovo corso politico repubblicano. I milanesi votarono il 7 aprile, mentre si fecero votare dopo il referendum i napoletani, il 10 di novembre, sette mesi più tardi, come un po’ tutte le città del Sud, tendenzialmente filo-monarchiche, evitando così che un risultato anti-repubblicano potesse condizionare altre città nella consultazione sull’istituzione statale.
Il referendum spazzò via, dopo ottantacinque anni di regno indegno, la Corona sabauda, colpevole negli ultimi venti di aver dato il potere al Fascismo e poi di aver abbandonato la nave fuggendo dalla Capitale. A pesare di più fu proprio la volontà delle regioni settentrionali: in tutte le province a nord di Roma, tranne Cuneo e Padova, prevalsero le preferenze per la repubblica. Nelle restanti a sud, tranne Latina e Trapani, vinsero quelle per la monarchia. Ancora una conferma di quanto fossenettamente diviso il Paese. Milano si espresse in gran maggioranza, per quasi il settanta per cento, a sostegno della forma repubblicana. Napoli si proclamò la città più monarchica d’Italia, con un risultato record che sfiorò l’ottanta per cento, ma in realtà non tutti i votanti credevano veramente nel Re come rappresentante unitario della nazione. Per alcuni, più che di effettiva affezione ai Savoia, si trattò di dare uno schiaffo alla classe politica settentrionalista che marginalizzava il Sud da ormai ottant’anni e di un’espressione di protesta contro un Nord guidato da Milano che influenzava le scelte e decideva le sorti dell’Italia.
A risultati accertati, tra mille polemiche di brogli, il fronte monarchico del capoluogo campano insorse in via Medina, dove si trovava la sede del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti. Sotto ordine giunto da Roma, la polizia sparò ad altezza d’uomo. In nove persero la vita e undici tra i circa centocinquanta feriti morirono in agonia, senza processo e giustizia. Per placare gli animi e “risarcire” la città, il 28 giugno l’Assemblea Costituente mise a Capo dello Stato un monarchico napoletano, Enrico De Nicola, eletto al primo scrutinio con circa il settantacinque per cento dei suffragi dopo aver votato egli stesso a favore della monarchia, convinto dalla necessità di assicurare un trapasso meno traumatico possibile al nuovo sistema e di proporre ai filo-monarchici meridionali una figura capace di riscuoterne il gradimento.
Nella sua lettera, Emanuele Filiberto scrive anche che “la storia non si affronta a colpi di censura” e che “le rimozioni toponomastiche sono una forma tipica di ogni sistema illiberale che pensa di sviare il dialogo con il proprio passato a colpi di bianchetto”. È esattamente il presupposto per cui condannare la cancellazione della toponomastica borbonica operata dai suoi antenati, a partire dall’elegantissimo corso Maria Teresa in corso Vittorio Emanuele, pure rovinato da un secondo tratto post-unitario verso la Cesarea edificato in spregio alla vista panoramica che i Borbone avevano preservato sul primo, e la differenza la si notare a vista d’occhio. Furono proprio i Savoia a cancellare per primi i nomi di quelle strade che erano intitolate alla dinastia decaduta, abbattendo gli stemmi gigliati e apponendo lapidi e statue per l’edificazione della nazional piemontesizzazione. Il giglio del granducato e il leone di San Marco lo lasciarono in bella vista sui palazzi di Firenze e Venezia, ma a Napoli lo scudo sabaudo lo sostituirono a ogni stemma gigliato delle Due Sicilie, magari coperto, come l’effigie reale borbonica posta sull’arco scenico del Real Teatro di San Carlo, poi riscoperta e ripristinata nel 1980. Impossibile ripristinare il palco reale, marchiato a rilievo dalla croce sabauda, usurpatrice della magnificenza della bellissima tribuna coronata.
Emanuele Filiberto dovrebbe sapere almeno che il suo Vittorio Emanuele III era segretamente legato alla Gran Loggia d’Italia, avvalorata da una comunione nazionale in una Conferenza mondiale dei Supremi Consigli di rito scozzese, e che fu quella loggia ad accreditare Mussolini presso le importanti massonerie britanniche e americane. Ma quando il Duce si oppose alle organizzazioni massoniche, queste gli misero contro il Re d’Italia, il quale ne ordinò l’arresto nel 1943, sostituendolo col massone Pietro Badoglio. E se l’amata Napoli, la città più bombardata d’Italia, fu rasa letteralmente al suolo, con morti e conseguenze sociali ancora oggi drammaticamente vive, fu anche a causa di quel re pupazzo, Vittorio Emanuele III, che concordò e siglò segretamente l’armistizio con gli Alleati anglo-americani a luglio, ma l’accordo fu reso noto solo qualche mese dopo per insistere ancora nella strategia psicologica finalizzata a stimolare la disapprovazione popolare nei confronti di Mussolini per la decisione di seguire la Germania di Hitler in guerra. Il piano, concertato tra Washington e Londra, fu accettato in modo occulto anche dalla Casa Reale a Roma e, soprattutto, dalla Massoneria italiana in cerca di riscatto. Tutti corresponsabili di immotivate vessazioni sulla pelle e sulle vite della popolazione, Vittorio Emanuele III in primis.
Emanuele Filiberto avverte infine che Napoli ha molti problemi più urgenti e prioritari della crociata toponomastica, perché tanti giovani non trovano un lavoro e la criminalità organizzata non accenna a deporre le armi contro lo Stato. Drammaticamente vero, ma tutto ebbe inizio con l’invasione sabauda al Sud, con la cancellazione di Napoli Capitale, con il patto scellerato con l’allora contenibile camorra voluto dell’amico di famiglia Garibaldi, usato e poi licenziato a lavoro ultimato, e con il cagionato inizio dell’emigrazione.
Emanuele Filiberto si accontenti dello scippo del parto della pizza “margherita”, dazio pagato per pubblicizzare la salubrità dell’acqua e dei cibi assicurata dopo il colera del 1884 dal nuovo acquedotto del Serino. Si accontenti dell’efigie marmorea dei Savoia all’ingresso di Palazzo Reale, dove una statua, quella di un suo avo, è l’unica minacciosa con spada sguainata. Si accontenti di ciò che ancora è intitolato alla sua casata, ed è sempre tanto, finché il tempo non lo spazzerà via inesorabilmente, perché per Umberto I, che finì ammazzato al quarto attentato dopo aver seminato malcontento in lungo e in largo, e per il minaccioso Vittorio Emanuele II si potrebbe suonarla come per “sciaboletta”. È verissimo che la storia non si censura, e infatti la si deve raccontare a fondo, soprattutto quando risulta manipolata per processo di edulcorazione.
Angelo Forgione– Era la mattina del 21 luglio 1941, ore seguenti il primo bombardamento degli Alleati anglo-americani su Napoli, quando i napoletani lessero un volantino di rivendicazione firmato dagli inglesi, su cui era scritto:
Noi inglesi, che mai finora fummo in guerra contro di voi, vi mandiamo questo messaggio.
Questa notte abbiamo bombardato Napoli. Non volevamo bombardare voi cittadini Napoletani perché non siamo in lite con voi. Noi vogliamo soltanto la pace con voi. Ma siamo stati costretti a bombardare la vostra città perché voi permettete ai Tedeschi di servirsi del vostro porto.
Finché partono da Napoli navi cariche di armi e materiali Tedeschi per le forze Germaniche in Libya, Napoli sarà ripetutamente bombardata.
Il bombardamento di questa notte è solo il primo rombo della tempesta che s’avvicina…
Una minaccia, insomma. Qualche giorno prima, il presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Roosevelt aveva scritto al primo ministro del Regno Unito Winston Churchill:
[…] Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l’Italia ad un incessante e sempre crescente bombardamento aereo. Queste misure possono da sole provocare un rivolgimento interno o un crollo.
Era iniziato l’accanimento bellico, una strategia psicologica, puramente terroristica a base di incursioni dal cielo finalizzate all’esasperazione popolare. Bisognava stimolare la sollevazione contro i tedeschi e la disapprovazione popolare nei confronti di Mussolini per la decisione di seguire la Germania di Hitler e trascinare l’Italia in una guerra proibitiva.
Roosevelt, tra il 1941 e il 1943, invitò più volte il primo ministro del Regno Unito Winston Churchill a sottoporre gli italiani ad un incessante e sempre crescente attacco aereo. Nell’ottobre del 1942, l’americano scrisse ancora all’inglese:
[…] deve essere nostro irrinunciabile programma un sempre maggior carico di bombe da sganciare sopra la Germania e l’Italia.
Nel luglio del ’43, sempre il presidente USA dichiarò:
Bombardare, bombardare, bombardare […] io non credo che ai tedeschi piaccia tale medicina e agli italiani ancor meno […] la furia della popolazione italiana può ora volgersi contro intrusi tedeschi che hanno portato, come essi sentiranno, queste sofferenze sull’Italia e che sono venuti in suo aiuto così debolmente e malvolentieri […]
Le bombe, dopo aver demolito i siti strategici, dovevano abbattere anche il morale della gente. Il piano, concertato tra Washington e Londra, fu accettato in modo occulto anche dalla Casa Reale Savoia a Roma e, soprattutto, dalla Massoneria italiana in cerca di riscatto dalla messa al bando fascista, cui era legato il maresciallo piemontese Pietro Badoglio, candidato a sostituire Mussolini alla guida del Governo, ruolo conferitogli poi, nel luglio del 1943, dal massone Vittorio Emanuele III, il quale ordinò l’arresto del Duce. Il Regno d’Italia concordò e siglò segretamente l’armistizio con gli Alleati anglo-americani, ma l’accordo fu reso noto solo l’8 settembre per insistere ancora qualche mese nella strategia psicologica, poiché la guerra non si poteva vincere senza convincere. Tutti corresponsabili di immotivate vessazioni sulla pelle dei napoletani pur di rovesciare il dittatore. Tra congiure di palazzo e bombardamenti sugli innocenti, Napoli fu messa letteralmente in ginocchio. Il porto fu raso al suolo e i monumenti risultarono gravemente danneggiati. Persino la Reggia di Caserta e gli scavi di Pompei furono ripetutamente, violentemente e selvaggiamente colpiti, perdendo reperti e preziosissimi dipinti.
Napoli, con tutto il Sud, fu colta di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, quando in città vi erano circa ventimila tedeschi. La situazione divenne di colpo caotica e il popolo, senza protezione alcuna, divenne ostaggio e vittima della furia vendicativa nazista. L’esacerbazione popolare diede soddisfazione agli Alleati con la rivolta delle Quattro giornate di Napoli del settembre 1943, in cui i partenopei, spazientiti dall’ordine di sfollare il centro urbano e rassicurati dall’avanzata degli anglo-americani da Salerno, poterono portare a compimento la cacciata dei nazifascisti tanto stimolata da Roosevelt. La Resistenza avrebbe trionfato nell’aprile del 1945, ma grazie alla positiva conclusione dell’operazione militare segreta “Sunrise”, occultata dalla storiografia ufficiale per non sminuire lo spirito partigiano, ma decisiva per la resa separata delle truppe tedesche in Italia e per risparmiare al Nord ulteriori distruzioni civili e industriali.
Migliaia di famiglie napoletane in lutto, un terzo degli edifici in macerie, il porto distrutto, mancanza di gas, carenza d’acqua e di viveri, condizioni igieniche pessime e tifo petecchiale insorto per la promiscuità nelle affollate cavità sotterranee adibite a ricoveri pubblici. In queste condizioni Napoli, la città più bombardata d’Italia (circa 200 raid di cui 120 a segno), inaugurò il suo dopoguerra molto prima che finisse la guerra e si inoltrò in un periodo senza terrore ma con mille angosce. Per ben un anno e mezzo, infatti, i napoletani furono costretti a badare a se stessi, rappresentando un mondo a parte, duramente martirizzato e umiliato, che si arrangiava alla meglio sotto il controverso controllo degli Alleati. La precoce liberazione segnò purtroppo l’avvio di una caduta morale e spirituale di un popolo che tanto ricco di dignità si era mostrato durante la cacciata dei nazisti.
Governatore di Napoli fu il colonnello americano Charles Poletti, riferimento per la mafia e già governatore in Sicilia, dove gli Alleati erano sbarcati e avevano sostituito i sindaci fascisti con mafiosi allontanati dal regime. Con atteggiamento utilitaristico, l’alto funzionario statunitense scelse come aiutante e interprete don Vito Genovese, socio del famigerato Lucky Luciano e boss di una delle cinque famiglie mafiose di New York, rifugiatosi in Italia per sfuggire a un processo per omicidio, passato opportunamente dalla parte degli antifascisti e resosi molto utile, grazie ai suoi particolari legami, allo sbarco sull’Isola degli Alleati, cioè all’inizio dell’invasione nazionale che portava la liberazione. Il boss, approfittando del razionamento dei viveri, fece prosperare il commercio clandestino dei generi alimentari a Napoli, coperto dagli ufficiali americani che ne favorivano gli affari.
La delinquenza dilagò enormemente. Centinaia di detenuti cui i tedeschi in fuga aprirono le celle nelle prigioni napoletane ebbero campo libero per depredare e alimentare la criminalità. La camorra fece un ulteriore salto di potere. Quando, nel 1945, la Criminal Investigation Division giunse a Napoli per indagare sulle connivenze tra la malavita locale e i militari americani, i loschi affari di don Vito Genovese si interruppero di fronte all’arresto e all’estradizione negli Stati Uniti. Il boss fu sottoposto al processo che aveva cercato di evitare fuggendo in Italia, durante il quale un testimone chiave morì avvelenato in circostanze “misteriose”. Don Vito fu assolto dalle accuse per mancanza di prove, e partì alla conquista dei vertici della mala statunitense. La sua repentina ascesa diede modo alla camorra napoletana di allacciare rapporti e collegamenti con la mafia d’America e con i poteri internazionali, orientando gli affari verso l’allettante traffico intercontinentale della droga. Riaffiorò più forte di prima la malavita organizzata, con drammatiche conseguenze morali e sociali nel futuro di Napoli, sulla cui pelle furono impresse le cicatrici di un lunghissimo periodo di anarchia e sostanziale autogestione.
Nella povertà napoletana degli anni Cinquanta guadagnò potere la camorra, ingannevolmente cancellata dal regime fascista ma maggiormente rinvigorita dal narcotraffico instaurato con le cosche statunitensi e dai rapporti con i politici repubblicani. Complici i clientelismi politici crescenti, le mafie del Sud aumentarono progressivamente il loro radicamento e la loro influenza sia nel tessuto sociale della plebe che negli ambienti più decisivi dell’amministrazione.
Molti malavitosi meridionali furono mandati al confino settentrionale dal ‘soggiorno obbligato’, una legge del 1956 con cui la classe politica del tempo pensò di allontanare dai territori d’origine i mafiosi senza condanna, nella convinzione che al Nord non sarebbero riusciti a ricreare una rete criminale. E invece l’operazione finì con il ribaltare l’assioma secondo cui le mafie erano esclusivo frutto della sottocultura meridionale e che il trapianto fosse impossibile in zone con un più alto tasso di civismo e di capitale sociale. A Milano e nei centri limitrofi furono relegati circa quattrocento uomini delle cosche, soprattutto calabresi, che sfruttarono le convenienti condizioni economiche del florido periodo postbellico e la maggiore autonomia d’azione rispetto alle lontane zone di origine, facendo di quei luoghi dei veri e propri quartieri generali del crimine organizzato. Nei favolosi anni Sessanta iniziarono ad allacciarsi i primi occulti rapporti fra mafiosi meridionali e imprenditori lombardi. Nella zona esplose il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, gestiti per lo più dalla ’ndrangheta, talora con l’appoggio entusiasta delle bande locali. Ben presto, il capoluogo lombardo divenne uno dei mercati più importanti per il traffico e il consumo di stupefacenti, e la nuova possibilità permise ai clan di acquisire ingenti capitali e liquidità utile a creare importanti legami con l’imprenditoria e la politica del posto. La zona si consacrò come cuore economico della malavita organizzata e si avviò a posizionarsi tra le peggiori d’Italia per numero di reati mafiosi.
Proprio in questi giorni si discute del maxi blitz contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia. “Milano come San Luca”, titolano i quotidiani di oggi, ma è così da decenni. Grazie alla “liberazione” americana, interessata a imporre la sua egemonia economica e commerciale in Europa, e alla fallimentare politica repubblicana d’Italia, per nulla diversa da quella del periodo monarchico, cioè da quell’ottantennio 1861-1945 in cui Napoli è passata dall’essere città più importante d’Italia, ordinata capitale, a emblema di un crollo morale ed economico tuttora drammaticamente in corso.
(brani essenziali dell’articolo tratti da Napoli Capitale Morale, Magenes 2017)
Angelo Forgione –La recente revoca della cittadinanza napoletana onoraria al generale dell’esercito sardo Enrico Cialdini, conferita nel 1861 dal Decurionato di Napoli, ha prodotto la reazione di alcuni accademici, ancor più preoccupati dalla mozione del Movimento 5 Stelle che, nelle regioni del Sud, ha proposto una giornata della memoria per le vittime meridionali del Risorgimento.
A opporsi al “linciaggio” nei confronti di Cialdini è stato inizialmente Perluigi Romeo di Collaredo, dalle pagine di Storia in Rete n. 139 di maggio, accusando il consiglio comunale di Napoli di seguire “una moda tanto ridicola quanto diffusa” che tende a sotterrare le figure dei protagonisti del Risorgimento sotto una montagna di luoghi comuni e invenzioni propagandistiche. Nel suo scritto, lo storico romano, oltre a dare una notizia infondata asserendo che “anche la Camera di Commercio ha deciso di togliere un busto del generale” (in realtà è il consiglio comunale ad aver deciso di chiedere la rimozione alla Camera di Commercio, che non pare averne intenzione), definisce l’atto finale della battaglia sferrata deliberatamente all’esercito napoletano da quello piemontese-lombardo, come “da entrambe le parti, una bella prova del valore italiano”, cioè indicando l’assedio di Gaeta, ovvero la conclusione di una guerra voluta da italiani verso altri italiani, come dimostrazione di alto spirito italico. E assolve Cialdini non perché non abbia compiuto quel che gli si imputa, ovvero la repressione della resistenza meridionale in nome del diritto di rappresaglia, ma perché “fu duro come erano duri i generali nel suo secolo e non si comportò diversamente dai suoi contemporanei”. Romeo di Collaredo non nasconde certamente la parola “assedio”, la più corretta per descrivere la conclusione della conquista del Sud: “Oggi c’è chi si permette di accusare Cialdini di «crimini di guerra» per aver bombardato Gaeta, come se un assedio si faccia in modo diverso”. Ed è proprio l’assedio il punto nodale, perché il presupposto sta proprio nel considerare normale quello che non fu un processo democratico di Unità, che le gran parte delle masse popolari del Mezzogiorno non volevano, ma una vera e propria guerra piombata sulla testa di una legittima nazione di diritto. Aveva forse, il Regno di Sardegna, il divino diritto di invadere il Regno delle Due Sicilie senza dichiarazione di guerra? Certo che no, e perciò mandò avanti una spedizione irregolare, quella garibaldina, che avesse le finte spoglie di una rivoluzione popolare della quale raccogliere il testimone nel momento in cui l’opinione internazionale si fosse convinta che la volontà degli italiani fosse l’Italia Unita sotto la corona dei Savoia.
Alla reazione filo-risorgimentale si è accodato con due interventi in tre giorni su la Repubblica anche il salernitano Francesco Barbagallo, docente universitario a Napoli, dove vive. Il primo scritto contro il “neo-sudismo antiunitario”, nel quale si legge di obiettivo del Regno di Sardegna limitato all’Alta Italia. Non era quello un obiettivo dei piemontesi bensì dei protettori francesi, secondo gli accordi segreti di Plombières tra Cavour e Napoleone III, che erano subordinati alla volontà dell’Imperatore di cancellare gli austriaci dalla penisola italiana e instaurare la propria egomonia anche al Sud, magari sostituendo il Borbone con Luciano Murat, figlio di Gioacchino. Barbagallo non racconta che il piano fallì quando Napoleone III, preoccupato dalla possibile espansione del conflitto ingaggiato contro gli austriaci, concluse un armistizio con Francesco Giuseppe a Villafranca di Verona e gli lasciò il Veneto, violando gli accordi sardo-francesi e facendo venir meno in modo indiretto la necessità di preservare la legittimità e la sopravvivenza del Regno delle Due Sicilie. Nel secondo intervento, Barbagallo stigmatizza l’ignoranza su Cialdini del consiglio comunale di Napoli come e quanto Romeo di Collaredo, e se la prende col Movimento 5 Stelle per la richiesta d’istituzione di una giornata della memoria per il Sud, dove per Sud non si intende necessariamente briganti ma anche cittadini inermi, cioè bambini, donne, anziani trucidati, e pure i soldati che giurarono fedeltà per l’esercito del loro regno. Anche Barbagallo ammette che “fu una guerra feroce, da entrambe le parti”, una guerra che “fece più morti delle guerre d’indipendenza”. Possibile che si debba ancora considerare normale il presupposto di una guerra tra italiani, ai napolitani, più sanguinosa di quelle agli austriaci? Possibile che non si comprenda che il concetto di guerra, anche dopo un secolo e mezzo, non può aiutare a conseguire la necessaria unità ma semmai continua dividere per l’ostinata giustificazione a un’invasione e alle azioni di personaggi che del Sud avevano la peggiore considerazione?
Ciò detto, Romeo di Collaredo e Barbagallo hanno ragione a condannare il neo-sudismo che si accontenta della “guerra” a Cialdini, il quale era un esecutore. Che senso ha revocargli cittadinanza e cancellarlo dalle toponomastiche del Sud mentre i mandanti restano degli intoccabili nelle pagine di storia e sui piedistalli delle piazze d’Italia? Cialdini sta diventando il Moggi del Risorgimento. Certamente colpevole, ma non unico colpevole, tra tanti anche più colpevoli e impuniti.
Tratta dal portale Vesuvio Live, una mia analisi sui reali significati dello storico incontro del 26 ottobre 1860 tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano, o meglio a Vairano.
Angelo Forgione–Confronto tra gallerie urbane più belle d’Italia, quelle di Milano e Napoli. La ‘Vittorio Emanuele II’ e la ‘Umberto I’, eleganti passaggi commerciali del secondo Ottocento sotto forma di camminamento coperto da vetro e ferro. Portano nomi sabaudi per questioni di opportunismo edilizio più che per convinta devozione ai Savoia, in particolar modo a Milano, che di Torino era ed è tuttora rivale. I permessi di espropriazione dei vecchi edifici che sorgevano al posto dei due salotti cittadini erano rilasciabili solo per decreto reale e timbrare ad imperitura memoria piemontese le nuove opere apriva una corsia preferenziale per i regi decreti. Milano accelerò sviolinando all’inviso monarca, primo Re d’Italia. Napoli ne ossequiò il figlio in epoca di Risanamento, bisognoso di simpatie dopo che l’anarchico meridionale Giovanni Passannante, rabbioso per le disillusioni risorgimentali, aveva tentato di ucciderlo in via Toledo. In entrambi i casi l’esigenza pubblica fu quella di riattare delle aree cittadine centrali in pessime condizioni. A Milano sorgeva un complicato, sudicio e insicuro quartiere medievale, al posto del quale si invocava una collegamento diretto tra la piazza del Duomo e il Teatro alla Scala. A Napoli c’era da bonificare l’antico rione tra via Toledo, il Teatro San Carlo e il Maschio Angioino, dove tra il 1835 e il 1883 erano scoppiate ben nove epidemie di colera. Progetti avveniristici per l’epoca, di respiro internazionale, e pure costosi. La milanese fu progettata in stile neorinascimentale da Giuseppe Mengoni, avviata a costruzione nel 1865, inaugurata nel 1867 e completata nel 1876, ma solo grazie all’imposizione del Re, che obbligò il Comune al completamento dell’opera a proprie spese, dopo che l’impresa privata che ne aveva avuto la concessione era finita in gravissime difficoltà finanziarie. Quella napoletana fu edificata in modo sicuramente più spedito, avviata nel 1887 e inaugurata nel 1890. Il progetto di Emmanuele Rocco si ispirò al modello milanese ma risultò più ricercato e sfarzoso nelle decorazioni in stile Liberty, un vero trionfo dell’architettura tardo-ottocentesca. La maggiore bellezza, però, sarebbe stata umiliata nel tempo dalla presenza dei popolari quartieri a ridosso e da un’amministrazione dissennata dello spazio, divenendo l’emblema della sciatteria napoletana, a partire dal frazionamento della proprietà privata che ancora oggi rende impossibile la gestione organica degli immobili. Il raffronto è impetoso per Napoli, e non dal punto di vista della bellezza, che appartiene a entrambe, o dell’abbondanza che intercettano, ma del decoro che offrono. Certo, la Galleria ‘Vittorio Emanuele II’ è sede di alberghi di alto livello, tra cui il Seven Stars, un esclusivissimo 7 stelle, con sette suite che affacciano direttamente all’interno. Insomma, un vero salotto del lusso, che nella Napoli di oggi, forse, non avrebbe senso di esistere. E però sul decoro non si discute, quello dovrebbe essere garantito anche nella ‘Umberto I’. Basta raffrontare la cartellonistica commerciale e l’illuminazione dei due luoghi per capire come vengano intesi dalle amministrazioni comunali. A Milano le insegne sono tutte regolamentate, su fondo nero con marchi in oro, e illuminate da lampioni storici lungo le pareti laterali; a Napoli gli spazi appositi, cui gli architetti del tempo pure avevano provveduto, sono completamente ignorati, ognuno fa come gli pare, e l’illuminazione è fornita da fari moderni che, tra l’altro, a chiusura delle attività, consegnano il luogo alla penombra delle lampade sull’altissima copertura, più alta di quella meneghina. Ma a Milano operano anche boutique di grandi marchi (Prada, Luis Vuitton, Versace, Tod’s, Mercedes); a Napoli, attorno al monopolio di un solo lussuoso marchio familiare (Barbaro), peraltro lontano dalla grande tradizione sartoriale napoletana, ruotano esercizi commerciali del tutto normali. A Milano si danno da fare rinomati ristoranti (il Savini), bar d’epoca (Biffi, Camparino, Motta, etc.) e caffè letterari, ognuno con una tettoia rigorosamente uguale all’altra e rispettando gli spazi concessi; a Napoli i normali bar organizzano tavolini senza criterio e ordine.
Il fatto è che se le hai viste entrambe ti accorgi di quanto sia bella e sciatta quella di Napoli. Ti accorgi che quella partenopea è il tempio del liberismo, dove le varie amministrazioni comunali si arrendono alla complessità sociale del centro cittadino, in cui borghesia e popolo minuto convivono come non accade né a Milano né altrove, e non riescono a impedire ai venditori ambulanti di esporre la loro merce sui mosaici e agli scugnizzi dei dirimpettai Quartieri Spagnoli di giocare a pallone, sbeffeggiare i turisti e vandalizzare a piacimento.
Entrambe interessate da recenti restauri. La ‘Vittorio Emanuele II’, grazie all’Expo, in 13 mesi di lavori con un ponteggio semovente che ha limitato al minimo i disagi, ha riscoperto l’originaria bicromia delle facciate e si è rafforzata nel suo già marcato ruolo centrale nella vita commerciale e turistica della città. La ‘Umberto I’, dopo i continui crolli (ancora in corso) e la morte del povero quattordicenne Salvatore Giordano, è una galleria sfregiata dalle impalcature di un intervento senza fine e ritinteggiata con diversi colori, o non ritinteggiata, a causa di una cervellotica lite tra condomini inadempienti.
Passerà alla storia un sindaco di Napoli che riuscirà a regolamentare il salotto della città e a dargli splendore come fosse quello di casa sua.
Angelo Forgione– Tra gli ideali che ispirarono l’Unità italiana, quello laicista fu sicuramente uno dei più importanti. Rifacendosi alle più avanzate nazioni protestanti europee, gli artefici dell’annessione di Napoli e Roma al Regno d’Italia piemontese dovevano rendersi protagonisti della diffusione di un’ideologia svincolata dalla fortissima tradizione cattolica d’Italia, e contribuire ad allentare lo stretto rapporto con la Chiesa di Roma che aveva sempre caratterizzato la vita degli stati italiani.
A preservare l’autorità del Papa ci pensò un francese, non un italiano. Napoleone III, imperatore di quella Francia “figlia primogenita della Chiesa” piena di cattolici e di un consenso da preservare, piazzò le sue truppe in territorio romano mentre il Piemonte incamerava parte dello Stato Pontificio, e fu un bel problema per Garibaldi ma anche per la pletora sabauda. Vi era bisogno di tutta la scaltrezza piemontese per risolvere la rogna, anche perché la posizione geografica di Torino, troppo vicina al confine nemico, la condannava a non essere per troppo tempo la capitale d’Italia. Le trattative diplomatiche portarono alla Convenzione di settembre del 1864, con cui il Re di Francia si impegnò a ritirare gradualmente i suoi uomini in cambio dell’impegno a non invadere il territorio pontificio. A garanzia degli impegni presi dai piemontesi, il sovrano francese impose il trasferimento della capitale in un’altra città, cosa che avrebbe dovuto provare la definitiva rinuncia alle seducenti mitologie di Roma capitale dell’Italia laica. I piemontesi miravano semplicemente a far sloggiare i garanti di Pio IX, per poi rompere i patti alla loro maniera. C’era solo da rinunciare in anticipo ai ministeri di Torino, alle ambasciate e ai fiumi di danaro pubblico, e da affrontare la rivolta dei cittadini torinesi, convinti che in assenza di Roma dovesse farne le veci solo la loro città, ormai pienamente interessata dagli investimenti per l’edilizia espansiva. Sommossa repressa nel sangue di cinquantacinque uomini disarmati, ma ormai tutto era già deciso: la capitale doveva trasferirsi altrove. Furono proposte Firenze, sostenuta dal Consiglio dei generali perché non esposta all’aggressione marittima, e Napoli, preferita dal consiglio dei ministri in quanto maggior metropoli italiana, lontana dal confine e meno esposta a un eventuale intervento austriaco richiesto dal Papa, ex capitale rispettata in Europa, la terza più popolata del Continente e già pronta a ricevere i dicasteri senza necessità di grandi spese, città di cultura degna delle grandi capitali europee. Tale scelta, secondo i sostenitori dell’ipotesi, avrebbe potuto contribuire a sradicare il brigantaggio meridionale che metteva a rischio la compattezza geografica. Prevalse la piccola Firenze, ma la volontà fu più che altro sovrana. Vittorio Emanuele II sapeva quanto fosse rilevante il peso di Napoli agli occhi dell’Europa e cercò di evitare che tornasse capitale. Il Re, invitato ad esprimere il suo pesante parere ai ministri, indirizzò la scelta verso la città toscana:
«Andando a Firenze, dopo due anni, dopo cinque, anche dopo sei se volete, potremo dire addio ai fiorentini e andare a Roma; ma da Napoli non si esce; se vi andiamo, saremo costretti a rimanerci. Volete voi Napoli? Se ciò volete, badate bene, prima di prendere la risoluzione di andare a stabilire la capitale a Napoli, bisogna prendere quella di rinunziare definitivamente a Roma.»
Tutti a Firenze! Una città di poco più di centomila abitanti invasa dalle istituzioni, dal Parlamento, dal Re, dalla corte e di tutto ciò che necessitava una capitale. Trentamila burocrati piemontesi a sconvolgerne le abitudini, le tradizioni e l’urbanistica. Ma gli uomini del “Re Galantuomo”, che gli accordi li prendevano per romperli, attesero che Roma fosse defrancesizzata e, dopo cinque anni e mezzo, invasero lo Stato Pontificio. Pio IX si ritirò in Vaticano, dichiarandosi “prigioniero d’Italia” fino alla morte, e si rifiutò di riconoscere la legge delle Guarantiglie, con cui il Regno d’Italia dei Savoia intese regolare i rapporti con la Santa Sede. Il Pontefice vietò ai cattolici di partecipare all’attività politica italiana e scomunicò tutti coloro che avevano partecipato al processo risorgimentale, a partire dai Savoia, ma si trovò di fronte l’ambigua figura di Vittorio Emanuele II, ricorso ai poteri forti d’Europa e alla Massoneria internazionale per coronare l’unificazione nazionale anche contro il Cattolicesimo, nonostante fosse riconosciuto religione di Stato dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del Regno di Sardegna, poi esteso all’Italia unita. Pio IX scomunicò il primo re d’Italia per ben tre volte lungo l’arco della sua trono tricolore, ma ritirò il provvedimento nel 1878, in punto di morte del baffuto piemontese, inviando un sacerdote al suo capezzale per impartirgli l’assoluzione, poiché il primo sovrano dello stato nazionale italiano, comunque cattolico, non poteva e non doveva morire senza sacramenti.
Il Vaticano e l’Italia restarono separati in casa fino all’avvento del Fascismo, nel primo Novecento, mentre a rappresentare il rafforzato potere laico contrapposto alle forze conservatrici e clericali ci pensò la Massoneria. Il Potere temporale fu in qualche modo riabilitato dai negoziati tra Benito Mussolini e Pio XI, culminati nei Patti Lateranensi, con cui fu siglato un reciproco riconoscimento tra Regno d’Italia e Stato Vaticano. Fallita sul nascere la creazione di un Paese condiviso e giusto, naufragava anche lo scopo fondante di sradicare la sua appartenenza religiosa.
Angelo Forgione – Sapevate che Giovanni Agnelli senior non fondò la Fiat ma partecipò da comprimario alla cordata di imprenditori e se ne impossessò con oscure macchinazioni? Sapevate che il principale finanziatore della Fiat fu trovato morto dopo aver denunciato illeciti interni? Sapevate che la Magistratura di Torino indagò e processò Giovanni Agnelli senior per truffa ai soci? Sapevate che Giovanni Agnelli senior strinse un patto di convenienza con Mussolini e fece in modo di ostacolare l’acceso della Ford in Italia? Sapevate che, dopo la guerra, Giovanni Agnelli junior e Vittorio Valletta strinsero un patto con gli americani ed entrarono nel gruppo Bilderberg? Sapevate che gli Agnelli hanno beneficiato di un sostanziale monopolio secolare? Sapevate che, nel 2000, un partner commerciale degli Agnelli comprò il Torino e, prima di farlo fallire, lasciò alla Juventus il conteso terreno della Continassa per la costruzione del nuovo stadio bianconero? Conoscete tutti gli intrecci tra la Fiat e la Juventus?
Tratto da Dov’è la Vittoria (Magenes), pubblico parte del capitolo “Il Regno d’Italia”, dedicato alla dinastia che, attraverso la Fiat e la Juventus, vetrina sportiva di famiglia, ha costruito una fortuna oggi ereditata da due rami famigliari. Non si può dare completa spiegazione alla lunga egemonia industriale della casa nata e cresciuta a Torino e allo storico dominio nazionale del pluriscudettato club bianconero senza conoscere la storia della famiglia Agnelli, lontano dai più stantii schemi agiografici.
Juventus e Fiat. È il matrimonio tra Calcio e Industria più duraturo e significativo del panorama sportivo nazionale. Se la storia tra il Milan e Berlusconi è proseguita per 29 anni e quella dell’Inter coi Moratti è durata complessivamente 34 stagioni (15 Angelo e 19 Massimo), il legame tra la Juve e la famiglia Agnelli, temporaneamente interrotto nel periodo 1936-1947, ha macinato fin qui ben 89 anni, ed è decisamente saldo. Non c’è altro club di rilievo internazionale che abbia un’identificazione così antica con la sua proprietà. Si tratta di un binomio-paradigma degli intrecci tra sport, politica e finanza che hanno attraversato un secolo d’Italia, e merita un approfondimento per la sua specificità. Tutto iniziò il 24 luglio 1923, 26 anni dopo la fondazione della Juventus, quando il trentunenne Edoardo Agnelli ne acquisì la proprietà, inaugurando una costante della storia nazionale: la Fiat in camicia bianconera. In quella squadra degli anni Venti militava il terzino Antonio Bruna, un operaio che trovava difficoltà ad allenarsi per via degli impegni in fabbrica. Il caporeparto non volle accordargli un permesso e così il difensore pensò bene di andare a chiedere al dirigente juventino Sandro Zambelli di parlare con Giovanni Agnelli senior. Non era una richiesta semplice in quegli anni di aspre battaglie operaie avversate dal padrone e dal Regime fascista, eppure l’impavido dirigente si fece ricevere nell’ufficio presidenziale e iniziò a parlare di Calcio e di quel giocatore che necessitava di allenamento. Agnelli acconsentì, inaspettatamente. Tanta disponibilità poteva permettere di alzare le richieste, e il lungimirante Zambelli approfittò per chiedere al suo interlocutore di acquistare la proprietà della Juventus. Lo scaltro imprenditore non mostrò interesse al coinvolgimento diretto nel club torinese, ma intuì che il Calcio, fenomeno in ascesa, avrebbe assicurato il favore popolare alla famiglia, e che avrebbe potuto concedere il ruolo al figlio Edoardo, non troppo coinvolto nella gestione aziendale. Erano gli anni in cui il Fascismo attirava a sé ogni ramo della cultura e dell’intrattenimento per dare una diversa identità al popolo italiano e una nuova immagine alla Nazione. Nuova immagine se la stava dando anche la Fiat, con la costruzione e l’inaugurazione nel 1922 del Lingotto, l’avveniristica fabbrica pensata sull’esempio della Ford. L’impatto con la modernità portò all’acquisizione della Juventus, club dilettantistico da trasformare in qualcosa di ben più organizzato. Edoardo Agnelli diede corpo alla filosofia del finanziamento industriale in cambio di passione e consenso, rendendo grande una squadra modesta che, con il sostegno motoristico, non avrebbe mai smesso di guadagnare il riconoscimento popolare. Il rampollo sarebbe rimasto in sella per 12 anni, davvero importanti: 6 scudetti, di cui 5 di fila. Improvvisamente, nel luglio del 1935, si rovesciò con un idrovolante nel mare genovese e se ne andò prematuramente.
La Juventus era nata il 1 novembre 1897 per iniziativa di un gruppo di giovani studenti del liceo classico D’Azeglio che, dopo le lezioni, erano soliti recarsi in corso Duca di Genova per la ricreazione pomeridiana. Avevano visto giocare il Foot-ball al parco del Valentino e in piazza d’Armi, e si erano quindi associati. Mentre la beata gioventù dava vita alla Juventus, in quella Torino un certo Giovanni Battista Ceirano, meccanico cuneese che costruiva velocipedi, coltivava il sogno di costruire carrozze automobili senza cavalli. 20 mesi dopo sarebbe nata la F.I.A.T.
L’11 luglio 1899 è la data del raduno di una cordata composta da una decina tra nobili, aristocratici e imprenditori allettati dalle prospettive aperte dall’iniziativa di Ceirano. Appuntamento nella sede del Banco di Sconto e Sete, un istituto di credito torinese partorito nel 1863 dalla fusione dalla Cassa di Sconto di Torino e quella di Genova, sotto l’alto patrocinio della famiglia Rothschild, e lì fu versato il capitale sociale per la fondazione della Società Anonima Fabbrica Italiana di Automobili – Torino. Fu proprio il meccanico di Cuneo a mettere insieme i soci benestanti per l’inizio dell’avventura, sostenuta in prima linea dal conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, nel cui studio, il 1 luglio, fu sottoscritto l’atto di costituzione.
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Le manovre di Giovanni Agnelli per prendersi la Fiat
Nella cordata anche Giovanni Agnelli. Non un nobile, ma un imprenditore agricolo con grande disponibilità di danaro. Fu coinvolto in extremis per coprire parte della quota azionaria di Ceirano, escluso ingiustamente dai finanziatori per questioni di rango e di risorse, e liquidato in cambio di brevetti, progettisti, maestranze e sogni.
Giovanni Agnelli senior
Nato nell’agosto del 1866, Agnelli proveniva da una famiglia borghese di proprietari terrieri originaria di Racconigi. Dopo un principio di carriera militare al servizio del re Vittorio Emanuele II di Savoia, si era dedicato all’azienda agricola di famiglia e alla carriera politica nel paese natio, Villar Perosa. Trasferitosi a Torino nel 1892, a 26 anni, era entrato in contatto con l’aristocrazia locale, appassionata di meccanica e automobilismo. Era stato proprio il nobile possidente Ludovico Scarfiotti, eletto presidente (al conte di Bricherasio andò solo la carica di vicepresidente), a interessarlo all’ultimo istante nell’avventura industriale della nascente F.I.A.T., di cui ottenne il ruolo formale di segretario del Consiglio di Amministrazione. Fu ugualmente l’inizio di una scalata impensabile, partita dalle prime presenze alle riunioni del C.d.A., passando per la candidatura vincente a membro delegato del Consiglio con ampi poteri, carica che gli consentì di mettere le mani sulla gestione commerciale e sui conti dell’impresa.
I conflitti tra i soci non tardarono ad arrivare e qualcosa iniziò a non quadrare al principale finanziatore, Emanuele Cacherano di Bricherasio, che nell’autunno del 1904 annunciò di voler verificare le carte per denunciare illeciti e intrighi di cui si era convinto. Non riuscì a portare avanti il suo proposito poiché fu trovato morto nel castello del duca Tommaso di Savoia-Genova, cugino del re Vittorio Emanuele III, dove gli inquirenti dissero si era suicidato con un colpo di pistola alla nuca. Motivi del gesto oscuri e versione ufficiale non suffragata da alcuna autopsia, inchiesta o spiegazione. Solo un nobile amico, il grande cavallerizzo Federico Caprilli, ne vide il corpo prima del funerale, riferendo che il viso e le tempie erano integri. La sorella del defunto conte di Bricherasio affidò le indagini sulla morte proprio a Caprilli, il quale, 3 anni dopo, alla vigilia delle sue annunciate dimissioni dall’esercito che lo avrebbero svincolato dal giuramento di fedeltà al Re, morì con il cranio sfondato. Altro mistero. Si disse che era rimasto vittima di una caduta da cavallo nella notte, in una strada innevata di Torino. Anche per lui niente autopsie, niente inchieste e nessuna spiegazione: solo una frettolosa sepoltura e la distruzione del baule in cui era custodita la corrispondenza con l’amico Emanuele. Giovanni Agnelli mostrò ambizione e arrivismo, riuscendo a scalzare già nel 1906 molti dei restanti fondatori con un complesso gioco azionistico-bancario che gli garantì la maggioranza, approfittando poi dei guai che coinvolsero l’azienda col primo crollo della Borsa del 7 luglio 1907. Mentre i quotidiani smascheravano una truffa ai danni dei soci estromessi, la questura di Torino, nel 1908, denunciò lui e altri dirigenti per “illecita coalizione, aggiotaggio in Borsa e alterazione di bilanci sociali”, convinta del fatto che il dissesto finanziario della F.I.A.T. dovesse attribuirsi a sue losche macchinazioni. Secondo le indagini, Agnelli aveva provocato nel biennio 1905-1906 “enormi e ingiustificati rialzi nelle azioni della F.I.A.T.” affinché l’azienda venisse posta in liquidazione, per poi rifondarla immediatamente senza i soci originari e priva dei punti nell’acronimo (Fiat). Le accuse riguardavano anche la diffusione di false notizie di importanti commesse provenienti dall’America, mai ricevute, e la rassicurazione agli azionisti sulla prosperità dell’azienda attraverso il pagamento di corposi dividendi, tutti garantiti da un mutuo concesso da un consorzio di banche e aziende creditrici capeggiate dalla compiacente Banca Commerciale, prestatasi per salvare l’azienda. Agnelli, dopo il rinvio a giudizio per aggiotaggio e truffa, andò a processo nel 1911, in un clima di forti manovre politiche e sotto la protezione dal capo del Governo, il cuneese Giovanni Giolitti, che già nel 1907 gli aveva concesso la croce di Cavaliere al merito del lavoro e che aveva nel frattempo riempito il Senato di piemontesi. Sulla Magistratura di Torino fece pressione la massoneria, attraverso il ministro di Grazia e Giustizia Vittorio Emanuele Orlando, libero muratore, che dichiarò:
«Un’azione penale nei confronti di Agnelli avrebbe conseguenze negative sulla nascente industria nazionale, in particolare piemontese.»
Agnelli, che aveva fornito mezzi militari per la vittoriosa guerra in Libia, fu assolto con formula piena e a nulla servì il ricorso del pubblico ministero, che in secondo grado di giudizio si trovò contro l’ormai ex-ministro Orlando in difesa dell’imputato e i dirigenti della Banca Commerciale come testimoni. Alla fine della Grande Guerra l’industriale riuscì ad acquisire la maggioranza del capitale azionario, completando l’ascesa al trono della Fiat.
Il patto Fiat-Fascismo durante il Regno d’Italia
Mussolini e Agnelli a Torino nel 1932
La trasformazione da fabbrica locale ad azienda di fama mondiale si concretizzò durante il Fascismo, quando il monarchico Agnelli, consapevole che gli italiani non disponevano né di un reddito sufficiente per permettersi le automobili né di autostrade su cui farle sfrecciare, produsse forniture belliche negli stabilimenti torinesi, in modo massiccio e anche per il mercato estero. Ormai piegato il movimento di lotta operaia che aveva prodotto l’occupazione delle fabbriche nel cosiddetto “Biennio rosso” 1919-1920, e completato nel 1922 l’imponente stabilimento del Lingotto sul modello americano della catena di montaggio introdotto da Henry Ford, Agnelli sostenne con immediato opportunismo la formazione del Governo Mussolini (1922), ricambiato con la nomina a senatore del Regno (1923). Dopo il delitto dell’antifascista Giacomo Matteotti, l’industriale piemontese votò a favore del Duce la fiducia in Parlamento e, allo stesso tempo, intrattenne relazioni con il Regime, seppur in modo tale da sembrare per quanto possibile apolitico. In realtà, tra Agnelli e Mussolini non vi era simpatia e il sostegno reciproco fu dettato dagli interessi. Da un lato, il presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia non pretendeva dall’industriale plateali manifestazioni di lealtà ideologica, consapevole che la Fiat fosse utile all’economia nazionale e necessaria alla politica internazionale del Regime. Dall’altra, ciò che interessava ad Agnelli era far leva sul nazionalismo esasperato di Mussolini, che tornava utile alla sua azienda sia in termini di spinta del prodotto interno che nella repressione del movimento dei lavoratori. Il do ut des si concretizzò nell’acquisizione de La Stampa di Torino (1926) e di altri quotidiani – gli stessi che in passato avevano denunciato le irregolarità compiute da Giovanni – coi favori dalle autorità fasciste. Attraverso la carta stampata, Agnelli si assicurò i favori dell’opinione pubblica e la protezione della Casa Reale, mentre i gerarchi, dal canto loro, allinearono la stampa alle direttive e alla propaganda di Regime.
In conseguenza della lunga recessione dell’economia occidentale, causata dal crollo della Borsa americana del 1929, per la Casa torinese si chiusero le porte del mercato estero e il fatturato si ridusse considerevolmente. La sopravvivenza passò per l’annullamento di ogni concorrenza interna, a cominciare da quella della pericolosa Ford. La casa americana, che retribuiva i suoi operai 4 volte di più e vendeva le sue autovetture a un prezzo 4 volte inferiore, si era già insediata in Italia nel 1923 con una fabbrica a Trieste e cercò di sfondare definitivamente sul mercato locale con uno stabilimento a Livorno, progettato con la collaborazione di finanzieri e imprenditori milanesi e con l’appoggio del gerarca fascista livornese Costanzo Ciano, suocero di Edda Mussolini. Agnelli, impaurito dalle più moderne e potenti presse americane che aveva ammirato personalmente a Detroit, protestò fortemente col Duce, che ne accolse i timori e disse no al suo influente gregario. Dapprima furono aumentati i dazi doganali sulle autovetture estere del 130%. Successivamente, una volta varata una legge straordinaria per includere l’industria automobilistica tra le attività interessanti la difesa nazionale, fu impedito il commercio di autovetture non costruite integralmente in Italia e furono chiusi d’autorità gli stabilimenti Ford a Trieste. Favori enormi per Giovanni Agnelli, che non poté più nascondersi quando la Fiat divenne apertamente un’azienda protetta dal Regime. Puntualmente “consigliato” dal prefetto di Torino, il senatore prese opportunamente la tessera del Partito Nazionale Fascista e la scrittrice Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, per commentare il matrimonio di convenienza, scrisse:
Agnelli affettava con umiltà un’assoluta innocenza nelle cose della cultura e della politica, ma non ci voleva molto ad accorgersi che la prima era fatta di disprezzo, e la seconda di calcolo e paura.
Forte della sua consolidata posizione in Italia, l’industriale torinese fece fronte al calo del fatturato riducendo orari di lavoro, salari e maestranze. Per risollevarsi, volle fortemente l’autostrada Torino-Milano, inaugurata nel 1932 dopo aver decimato le casse dello Stato; si oppose al paventato rilancio delle ferrovie e sfornò, sempre nel 1932, l’automobile che avrebbe dovuto avviare la motorizzazione in Italia. La chiamò “Balilla”, soprannome del giovane che nel 1746 accese la scintilla dell’insurrezione per la cacciata degli austriaci da Genova, simbolo di patriottismo adottato dal Regime per formare lo spirito, la cultura e il fisico dei ragazzi italiani. Un segno dovuto di riconoscenza al Duce, per sedurlo in cambio di altri favori. Il successo commerciale della vettura necessitava infatti di un ulteriore aiuto politico: la concessione di agevolazioni fiscali. Benito voleva “l’auto del popolo”, ma non nutriva simpatia per Giovanni e non vedeva di buon occhio le vetture Fiat perché, da appassionato di corse automobilistiche, preferiva decisamente le sportive Alfa Romeo, pure più consone all’immagine dinamica che di sé dava al Paese e che del Paese dava al mondo. Solo dopo aver capito che il prezzo contenuto e le buone soluzioni di compromesso della “Balilla” avrebbero dato uno slancio alla massiccia motorizzazione degli italiani concesse la totale esenzione dal pagamento della tassa di circolazione per un anno, equivalente a circa uno stipendio dell’epoca.
Sempre nel 1932, Mussolini decise di festeggiare alla Fiat il decimo anniversario della marcia su Roma, accolto in fabbrica da Giovanni Agnelli in camicia nera. Un anno dopo uscirono dallo stabilimento torinese i treni popolari battezzati “littorine”, in onore al fascio littorio.
Neutralizzata la concorrenza estera in Italia, tutto era funzionale a sottomettere anche quella nazionale, rappresentata dall’Alfa Romeo, molto competitiva, ammirata dal Duce e rispettata anche dagli americani. L’ingegnere napoletano Nicola Romeo, di Sant’Antimo, aveva rilevato nel 1915 la fallimentare A.L.F.A. (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili) di Milano, rendendola nel tempo tra le migliori fabbriche di automobili al mondo, apprezzata da Henry Ford, il quale, per esternare la sua ammirazione, dichiarò:
«Quando vedo un’Alfa Romeo mi tolgo il cappello.»
Nello stabilimento napoletano di Pomigliano d’Arco, Nicola Romeo costruiva anche trattori, locomotive e persino aeroplani e idrovolanti militari e civili. Ma il crollo di Wall Street e la conseguente recessione portarono all’accumulo di debiti enormi per un’impresa in concorrenza con la privilegiata Fiat. In soccorso delle aziende in difficoltà e delle banche ad esse vincolate accorse Mussolini, che, per proteggere l’economia del Nord Italia, nel 1933 creò l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, col compito di finanziare il rilancio e di acquistare dagli istituti di credito le azioni delle imprese in difficoltà. Fu fatto a prezzi decisamente più alti dei valori effettivi, in modo da dare ossigeno sia alle banche che alle aziende. Lo Stato si accollò la crisi generale e la stessa Alfa Romeo diventò statale, cessando di rappresentare un serio pericolo per la Fiat.
Favorita dalla politica autarchica del Regime, l’azienda di Giovanni Agnelli costruì alla fine degli anni Trenta un nuovo stabilimento a Mirafiori, inaugurato nel maggio del 1939 alla presenza di Mussolini, che arrivò con due ore di ritardo a bordo proprio di un’Alfa Romeo. La provocazione fu forte e dettata dal fatto che, nonostante lo stato maggiore della Fiat fosse schierato in camicia nera nel piazzale, gran parte delle maestranze era socialista e comunista, e il Duce sapeva che quella gente gli era avversa perché insoddisfatta dalle promesse non mantenute, dal rincaro dei prezzi e dalle restrizioni dei consumi imposti dalla politica economica dell’autarchia. In effetti, quel giorno, gli operai non si mostrarono particolarmente felici di assecondare il comizio del Duce. Poche ovazioni e molti silenzi all’annuncio di nuove promesse. Mussolini si irritò fortemente e al termine del furioso comizio voltò le spalle per andarsene. L’ormai settantatreenne Agnelli gli corse dietro, lo afferrò per le spalle e lo convinse a tornare indietro per salutare la folla; Mussolini tornò, fece il saluto romano, e poi se ne andò definitivamente, a cerimonia in corso, non prima di essersi sfogato sottovoce all’indirizzo dei 50.000 operai presenti:
«Questi piemontesi sono tutti dei porci.»
Non erano tutti piemontesi. C’erano anche molti veneti, friulani e pugliesi, confluiti a Torino per fare della Fiat il più grande polo operaio del Paese, ed erano decisi a dare corpo a una nuova lotta di classe, in passato soppressa con la forza dall’alleanza tra Fascismo e classe industriale italiana. L’incidente diplomatico innervosì fortemente Mussolini, che non sarebbe più tornato a Torino. Rivolgendosi ai “piemontesi” intese riferirsi alla Torino piena di operai, in cui serpeggiava l’antifascismo, e ai vertici aziendali della Fiat, ben conscio che il gran calcolatore Agnelli chiamava i gerarchi del Partito Nazionale Fascista «quei coglioni di Roma». Certo, l’Alfa Romeo fu spodestata in alcune grandi forniture statali a beneficio dell’azienda torinese, ma i rapporti tra i due peggiorarono col gravare delle imposte generate dalle ambizioni belliche del Governo fascista e si ruppero definitivamente nel 1943, quando proprio a Mirafiori iniziò lo sciopero che portò moltissimi operai del Nord Italia a protestare e a dare le prime spallate al Regime, poi caduto alcuni mesi più tardi.
Il patto Fiat-Stati Uniti-Italia durante la Repubblica
Vittorio Valletta e Giovanni Agnelli junior
La rottura fra potere economico e Fascismo si palesò a guerra persa, tra l’inverno del 1942 e la primavera del 1943, con le fabbriche del gruppo danneggiate dai bombardamenti. Agnelli, come una bandiera al vento e in difesa dei suoi interessi, si produsse in un gioco diplomatico su tutti i fronti, concedendo sovvenzioni al movimento partigiano, creando rapporti economici con gli Alleati anglo-americani, mantenendo legami coi fascisti e sostenendo il colpo di Stato. Ammiccò infatti al generale Pietro Badoglio, candidato a sostituire Mussolini alla guida del Governo, ruolo conferitogli poi dal re Vittorio Emanuele III il 25 luglio del 1943. Per via del proprio coinvolgimento con il Regime, Agnelli rischiò di perdere la proprietà dell’azienda prima della sua morte, avvenuta il 16 dicembre del 1945, quando le redini passarono al fido Vittorio Valletta, uomo legato alla massoneria, in attesa che maturasse il ventiquattrenne Giovanni junior, figlio di Edoardo. Il giovane erede fece tornare la Juventus nelle mani di famiglia nel luglio 1947, ripercorrendo le orme del padre.
Gli aiuti stanziati dal Piano Marshall tra il 1948 e il 1951 rimisero in piedi gli stabilimenti Fiat e assicurarono commesse negli Stati Uniti. La Casa torinese ricevette da sola ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico, oltre il 12% dell’intero aiuto all’industria italiana, garantendo in cambio il licenziamento degli operai comunisti concordato tra Vittorio Valletta e Clare Boothe Luce, ambasciatrice americana in Italia, forte oppositrice del comunismo italiano, sostenuto esternamente dal grande blocco sovietico. Con il quotidiano di famiglia, La Stampa, i vertici Fiat tentarono di sottrarre gli operai alla lettura de L’Unità e della Gazzetta del Popolo.
Nel 1949 fu creato a New York un gruppo di studio per analizzare gli effetti del Piano Marshall, predisposto dagli USA con lo scopo recondito di ottenere liberalizzazioni commerciali in Europa per le multinazionali statunitensi e forte influenza della politica americana su quella europea. Alla convocazione aderirono alcuni alti dirigenti dell’appena costituita CIA (Central Intelligence Agency), l’agenzia di spionaggio – responsabile dell’ottenimento e dell’analisi delle informazioni sui Governi e sugli individui stranieri – che creò dei “fondi neri” per contribuire agli “aiuti” per l’Europa, finanziando le politiche anticomuniste in Francia e Italia attraverso giornalisti, sindacalisti, politici e leader dei due Paesi. Le relazioni occulte tra i due continenti trovarono compimento nel 1954, con la nascita del Gruppo Bilderberg, un’organizzazione segreta riservata agli uomini più influenti d’Europa e degli Stati Uniti, in buona parte legati a varie massonerie, e finalizzata alla creazione di un Governo ombra dell’economia, della finanza e della politica mondiale. Vittorio Valletta e Gianni Agnelli aderirono al Gruppo, partecipando alla prima riunione di 50 delegati da 11 Paesi europei e 11 statunitensi. Proprio in quell’anno, Fiat, Eni, Pirelli e Italcementi diedero vita alla SISI Spa (Sviluppo Iniziative Stradali Italiane) e interagirono per favorire il mercato automobilistico a scapito del trasporto su ferro, attraverso l’imposizione all’opinione pubblica dell’equazione “autostrade uguale sviluppo economico, uguale benessere”. La verità è che, con le autostrade, le macchine non le avrebbero acquistate solo i più ricchi borghesi delle grandi città e le merci prodotte dalle industrie del Nord sarebbero giunte al Sud anche su gomma. Lo Stato intervenne a sostegno, costituendo la Società Concessioni e Costruzioni Autostrade Spa, presieduta dal ministro dei Lavori pubblici, per aggirare le limitate disponibilità dell’ANAS (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade), mentre alle Ferrovie dello Stato furono destinate scarse risorse con le quali fu solo riattivata, e lentamente, una rete ormai inadeguata, invece bisognosa della costruzione di nuove tratte e della correzione di quelle insufficienti. Il progetto pilotato di “motorizzazione” degli italiani prevedeva un asse orizzontale Torino-Milano-Venezia-Trieste, una diramazione da Milano per Genova, un asse verticale da Milano verso Bologna che si sarebbe biforcato, verso Roma-Napoli e verso Ancona-Pescara. Per le auto che scendevano al Sud, mentre gli operai che le costruivano salivano al Nord col “Treno del Sole”, occorreva un nome simbolico: “Autostrada del Sole” era perfetto. 19 maggio 1956 – 4 ottobre 1964: soli 8 anni e poco più per completare la grande opera, con addirittura 3 mesi di anticipo sul termine previsto; tempi impensabili per l’infinita autostrada Salerno-Reggio Calabria, invece presa in carico nel 1962 dallo Stato, attraverso l’ANAS, senza alcun coinvolgimento dei privati e con soluzioni tecniche sciagurate (due strette corsie senza quella d’emergenza) che l’avrebbero condannata a un’interminabile ricostruzione. La realizzazione della rete autostradale e il boom economico misero gli italiani al volante e la Fiat crebbe in produzione, dipendenti, esportazione e fatturato. Solo quando ormai tutti ebbero acquistato una macchina e lo scenario delle città cambiò (con l’invasione dal nuovo simbolo del miraggio di libertà) furono affrontati, con maggiori finanziamenti, gli aspetti critici della rete ferroviaria, alcuni ancora oggi irrisolti al Centro-Sud.
Gli accordi segreti tra la Fiat e gli statunitensi avevano prodotto effetti a lungo termine. Qualche mese prima dell’ingresso di Valletta e Agnelli nel Gruppo Bilderberg era stata avviata una sistematica attività di spionaggio degli operai, scoperta 20 anni dopo da un giovane pretore trentenne, Raffaele Guariniello. Nell’agosto 1971 furono perquisiti i vecchi uffici del management aziendale a Torino e scoperte oltre 350.000 schede relative alle idee politiche, alla vita privata e alle tendenze sessuali dei dipendenti, di cui circa 151.000 inerenti al quinquennio 1967-1971, quello immediatamente successivo all’approdo dell’ormai maturo Gianni Agnelli al comando della Fiat (1966). Il tutto con allegate note spese per investigatori e informatori pagati profumatamente, rami di una rete comprendente servizi segreti dello Stato, impiegati comunali, vigili urbani, Carabinieri, Polizia e parrocchie. Tra gli schedati anche uomini politici, dirigenti pubblici, sindacalisti e giornalisti. Per capire come comportarsi, Gianni Agnelli, in compagnia del procuratore generale di Torino Giovanni Colli, si precipitò a un incontro ad Antagnod, in Valle d’Aosta, convocato dal preoccupato presidente del Repubblica Giuseppe Saragat, lì in vacanza. Questi avocò a sé l’inchiesta, tenendola nel cassetto per circa un mese, per poi inviarla alla Corte di Cassazione a Roma, sostenendo che per motivi di ordine pubblico l’inchiesta non poteva essere condotta a Torino. Tra le proteste, il processo fu assegnato al Tribunale di Napoli, che dopo un anno emise l’ordinanza di 52 rinvii a giudizio. La sentenza di primo grado giunse solo nel febbraio del 1978: 36 condanne, di cui 5 a carico di dirigenti Fiat per reato di corruzione e violazione del segreto d’ufficio; amnistia per i reati minori. L’appello dichiarò estinte le pene per intervenuta prescrizione, grazie alla concessione delle attenuanti generiche. Nessuno pagò per i reati commessi, ma la vicenda appurò il metodo investigativo messo in piedi dai vertici Fiat per estromettere il comunismo dall’azienda. Vittorio Valletta, nel 1965, lasciò il comando del maggior produttore motoristico d’Europa a Gianni Agnelli. E venne il tempo in cui ogni concorrenza interna fu cancellata con l’acquisizione dei marchi della produzione nazionale: Autobianchi, Lancia e, soprattutto, Alfa Romeo, azienda statale indebitata che, negli anni Ottanta, fu consegnata alla Fiat dal Governo Craxi e dall’IRI, guidato da Romano Prodi, il quale, tra le polemiche, ne impedì l’acquisto da parte della Ford, tanto temuto da Gianni Agnelli. Niente da fare neanche questa volta per la casa americana. Ma all’inizio degli anni Settanta giunse anche il declino del marchio torinese che aveva controllato oltre l’80% del mercato automobilistico italiano e che nel 2004, in condizione prefallimentare, fu affidato al nuovo amministratore delegato Sergio Marchionne, dopo la morte di Umberto Agnelli, già orfano del figlio Giovanni Alberto, del gran fratello Gianni e del nipote suicida Edoardo (ma qualcuno ipotizza l’omicidio per evitare che il patrimonio di famiglia finisse ad un musulmano). Il manager abruzzese, incaricato del salvataggio, impose fin da subito condizioni di lavoro decisamente discutibili pur di condurre una politica aziendale di sfida ai sindacati, approdando dopo un decennio all’acquisizione di Chrysler, all’uscita da Confindustria, al decentramento a Londra e Amsterdam delle sedi fiscali e legali e alla quotazione a Wall Street. Misure ricche di opportunismo adottate alla chiusura dei rubinetti degli aiuti di Stato a beneficio dell’azienda probabilmente più assistita della storia dell’industria mondiale, dopo un secolo di protezioni e favori. L’ultima assemblea della Fiat, dopo 115 anni di vita, si tenne il primo giorno d’agosto del 2014 e deliberò la nascita del marchio Fiat Chrysler Automobiles, abbreviato in FCA.
Gli effetti della Fiat sulla Juventus
Senza gli Agnelli non parleremmo di gloriosa Juventus, regina d’Italia. La sua ambizione di vittoria è esattamente l’ambizione della famiglia: la brama di azzerare la concorrenza interna, costi quel che costi. È la Fiat che ha sempre ispirato la Juve, la cui supremazia non è mai stata endogena, ma indotta esternamente dall’azienda. Lo dice la storia: senza gli Agnelli, dal 1898 al 1923, periodo antidiluviano di monopolio calcistico settentrionale, il club bianconero ha vinto il solo titolo tricolore del 1905, “sbaragliando” la concorrenza di due squadre di Genova e due di Milano, e sarebbe addirittura sceso di categoria nel 1911 e nel 1913 se non vi fosse stato prima un blocco delle retrocessioni e poi un artificioso ripescaggio nel girone della Lombardia per evitare il minacciato scoglimento, dettato da gravi condizioni economiche dopo che nel 1906 alcuni soci erano fuoriusciti per fondare il Torino. Tra il 1924 e il 1935, nei 12 anni di Edoardo Agnelli, 6 scudetti. Dal 1936 al 1947, 12 anni di Juventus fascista senza Fiat e senza tricolore firmati Emilio de la Forest de Divonne e Piero Dusio. E poi di nuovo e solo Agnelli, fino ad Andrea, erede di Umberto, con altri 29 trionfi. Tutta la sala dei trofei, escluso 1 scudetto e 3 Coppe Italia, è collocata all’ombra del tetto di casa Agnelli, troppo grande e solido per non pensare che sia proprio la famiglia la marcia in più della Juventus.
Non si tratta di solo palmarès – evidentemente chiaro a tutti – ma anche di possibilità di dettare legge in città. La Juve è sovrana di Torino, e lo è dal disastro aereo di Superga del 1949 che cancellò la squadra più famosa nel mondo tra le due locali: il Toro. Per coincidenza storica seguì la migrazione di massa in direzione del capoluogo piemontese, coi meridionali ad abbracciare la nuova dominatrice. La fotografia delle gerarchie è nitida: a Torino sorgono oggi uno stadio privato e uno comunale. L’impianto modello, quello che apporta importanti entrate nei bilanci di una delle due società, costruito su un’area aspramente contesa da entrambe, è della Juventus.
La storia racconta che la Fiat ha ricoperto un ruolo importante per la realizzazione del primo stadio di “ultima generazione” d’Italia. Dopo i Mondiali del ‘90, il Delle Alpi, costruito e gestito dalla Società dell’Acqua Pia Antica Marcia di Roma, si era rivelato un ostacolo alle ambizioni delle due squadre cittadine, caricate di costi di utilizzo e vincolate a un accordo pluriennale stipulato con la Pubbli-Gest SpA, subconcessionaria dello stadio dal maggio 1991 al giugno 2000, che godeva di una percentuale sulla bigliettazione e degli introiti dei parcheggi, della ristorazione e della pubblicità. I costi di affitto e i mancati introiti dalla cartellonistica e dagli incassi (in parte) condussero alla ferrea volontà dei vertici juventini di possedere uno stadio di proprietà, passando per la strategia della sistematica critica diffamatoria del Delle Alpi. Con l’avvento del triumvirato Giraudo-Moggi-Bettega, nel 1994, iniziarono le insistenti minacce di trasferimento in altre città, cosa che avrebbe procurato un enorme danno patrimoniale al Comune di Torino. La Juve, in occasione di partite internazionali, fu portata spesso a giocare lontano da casa, riempiendo due volte il Meazza di Milano, così diffondendo l’idea di una squadra pronta ad andarsene dal Piemonte.
Lo scontro frontale, sempre più duro, con la Pubbli-Gest e col Comune di Torino, cui la Concessionaria Acqua Marcia cedette gratuitamente il Delle Alpi, iniziò a smussarsi nel 2000, subito dopo l’assegnazione delle Olimpiadi invernali 2006 al capoluogo piemontese e il conseguente acquisto del Torino da parte dell’imprenditore calabrese Francesco Cimminelli, proprietario della Ergom Automotive, un’azienda specializzata nello stampaggio della componentistica automobilistica con una decina di stabilimenti tra Italia, Polonia e Turchia. Il vero regista dell’operazione fu il tifoso granata Paolo Cantarella, allora amministratore delegato della Fiat, di cui la Ergom era principale fornitrice. Lo confessò proprio Cimminelli, uno juventino dichiarato, al giornalista Marco Ansaldo de La Stampa, che gli chiese perché avesse preso una squadra di cui non gli interessava nulla:
“Mi obbligò Cantarella che era un grandissimo tifoso del Toro e l’amministratore delegato della Fiat, cioè l’uomo che più faceva lavorare la mia azienda. Disse che sarei stato il capofila di una cordata per rilevare la società. Quando mi presentai non trovai nessuno e rimasi da solo con il cerino acceso.”
Cimminelli realizzò un matrimonio di puro interesse, e infatti non ricoprì mai quella carica di presidente che assegnò al portavoce di Gianni Agnelli, il torinista Attilio Romero, pescato dall’area comunicazione Fiat, la stessa persona che 33 anni prima, sfrecciando con la sua Fiat 124 Coupé lungo il corso Re Umberto, aveva investito e causato la morte del funambolico calciatore del Toro Gigi Meroni. Di che interesse si trattava? La Fiat avrebbe assicurato commesse, pagamenti più veloci e aumento di fatturato alla Ergom; Cimminelli avrebbe evitato conflitti con gli Agnelli nell’affare stadio. E infatti firmò nel 2003 un accordo squilibrato con il Comune e con la Juventus con cui espresse l’interesse a ottenere il vecchio Comunale, impegnandosi a ristrutturarlo per i Giochi olimpici invernali e a pagare la concessione del nuovo Olimpico per 99 anni, e offrì il consenso ai cugini per il trasferimento della proprietà superficiaria, per lo stesso periodo, dell’area Delle Alpi in cui edificare lo Stadium. Un patto scellerato, perché così il Torino si impegnò nella ristrutturazione a proprie spese di uno stadio situato nel quartiere urbano di Santa Rita, in un area architettonicamente vincolata, cioè non adatta alla realizzazione di redditizie attività commerciali, e rinunciò di fatto a ogni pretesa sulla più vasta e fruttuosa Cascina Continassa, lasciata ai cugini. Il club granata concordò anche il pagamento ai bianconeri di 1,5 milioni di euro l’anno per l’affitto del Delle Alpi, fino al 2006, in attesa di entrare in possesso del nuovo impianto. Completato il nuovo Olimpico, sarebbe toccato alla Juve chiedere ospitalità per consentire la realizzazione del suo progetto. Il club bianconero, però, avrebbe pagato soli 250.000 euro l’anno per il fitto dello stadio dei cugini.
I granata, sotto la gestione Cimminelli, accumularono debiti su debiti e il 9 agosto 2005 furono dichiarati falliti per una fideiussione falsa a parziale copertura dei debiti col fisco fatta confezionare da Luigi Gallo, presidente del fallimentare Venezia Calcio. Una truffa in cui il proprietario del Toro rimase incastrato, ma i guai erano venuti anche a causa della ristrutturazione del Comunale, su cui gravò un’ipoteca di circa 38 milioni di euro accesa dall’Agenzia delle Entrate per mancati versamenti del club. I 30 milioni necessari per il completamento del rifatto Olimpico se li accollò il Comune, che tornò a essere proprietario dello stadio. I 250.000 euro annuali della Juventus per il fitto della struttura finirono quindi nelle casse comunali, mentre i 1.500 milioni di euro annuali del Torino erano finiti nelle casse bianconere. Per chiudere il fallimento e far fronte ai debiti, Cimminelli impegnò il suo patrimonio personale, dando in pegno pure le azioni Ergom, azienda fornitrice di importanza strategica per il Gruppo Fiat, la cui dirigenza sollecitò l’avvocato Angelo Benessia ad assistere il proprietario granata, al fine di impedire il coinvolgimento dell’azienda plastica nel fallimento sportivo. La Ergom, per i guai del suo proprietario e per il calo delle vendite Fiat, non riuscì a evitare una profonda crisi. Gli scioperi degli operai interruppero le forniture e bloccarono la produzione Fiat in alcuni stabilimenti, finché l’impotente e dimissionario Cimminelli, nell’estate 2007, non se la vide sfilare al prezzo simbolico di un euro. Una moneta versata da chi? Dal Gruppo Fiat, che si assicurò così la normale prosecuzione delle forniture.
Per realizzare il moderno stadio juventino, in un’Italia spettatrice di speculazioni e orfana di strumenti legislativi adeguati per la realizzazione di un’impiantistica moderna, si ricorse anche a un bel po’ di espedienti. Il miracolo, evidentemente, riuscì grazie alla disponibilità di un ente pubblico (il Comune di Torino), alle risorse della proprietà juventina (la Exor S.p.A. facente capo agli eredi Agnelli) e al sostegno di una banca pubblica (l’Istituto per il Credito Sportivo). Il 6 dicembre 2002, il Comune trasformò la zona del Delle Alpi da “area destinata a servizi pubblici” a “zona urbana di trasformazione”, rendendo di fatto privato un terreno inizialmente destinato a “verde e servizi” dal piano regolatore; il 15 luglio 2003, l’ente comunale trasferì alla Juventus, per 99 anni e con possibilità di rinnovo, la proprietà e il diritto di superficie di un totale di circa 349.000 metri quadrati delle aree della Continassa, a fronte della demolizione del Delle Alpi e della costruzione di un nuovo stadio funzionale contornato da zone di commercio e parcheggi, grazie al quale il club avrebbe ammortizzato velocemente il fruttuoso investimento. La Juventus acquistò i diritti sulla Continassa a prezzo di favore: 25 milioni di euro, meno di 72 centesimi al metro quadrato per ogni anno di concessione, quando il valore di una licenza commerciale a Torino era pari a 75 euro al metro quadrato.
Tra giugno 2005 e gennaio 2006, su istanza della società bianconera, furono concesse delle autorizzazioni commerciali e, soprattutto, una variante al piano regolatore per “redistribuire le consistenze edificatorie commerciali”. Ottenuti i permessi, la Juve cedette a Nordiconad (cooperativa aderente al Consorzio nazionale Conad), CMB (Cooperativa muratori e braccianti di Carpi) e Unieco i 34.000 metri quadrati di spazi commerciali intorno allo stadio, ottenendo ben 20,25 milioni di euro. A questi si aggiunsero i circa 35 milioni di euro anticipati dai complessivi 75 milioni garantiti nella primavera 2008 dall’agenzia di marketing Sportfive Italia (gruppo francese Lagardère) in cambio dei diritti, fino al giugno 2023, sull’intitolazione commerciale dello stadio. L’impianto fu inizialmente battezzato Juventus Stadium, in attesa che Sportfive trovasse lo sponsor interessato a legare il proprio nome alla struttura. 35 milioni di anticipo freschi, fondamentali per costruire lo stadio, e nessuna azienda interessata al naming a distanza di diversi anni dall’accordo. Il fatto è che per contratto non poteva trattarsi né di un concorrente dello sponsor tecnico dei bianconeri, né di una casa automobilistica che non fosse la Fiat. Difficoltà accentuate anche dalla scarsa appetibilità del campionato italiano per gli investitori stranieri. A conti fatti, l’operazione Continassa produsse un esborso di 25 milioni di euro e una liquidità di oltre 55. Strada spianata per avviare la costruzione del nuovo impianto, persino in discesa coi circa 60 milioni per finanziare gli investimenti che la Juventus ottenne accendendo, tra il 2009 e il 2010, due mutui con l’Istituto per il Credito Sportivo, una banca pubblica, quindi finanziata da soldi dei contribuenti, con tassi certamente convenienti. Il recupero dei materiali derivati dalla demolizione del Delle Alpi consentì di limare un risparmio globale di 2,3 milioni di euro sulle spese. Infine, nell’autunno 2012, sempre su proposta della Juventus, con una nuova variante al piano regolatore, fu creata dal Comune di Torino una nuova “zona urbana di trasformazione” di circa 263.000 metri quadrati degradati adiacenti l’ormai sorto Juventus Stadium, di cui oltre 175.000 destinati alla Juventus per la realizzazione di una cittadella bianconera, comprendente campi di allenamento per la prima squadra, strutture ricettive e attività commerciali. 99 anni in diritto di superficie al prezzo ancor più stracciato di 10,5 milioni di euro (esclusi i costi di costruzione), cioè 60 centesimi al metro quadrato per ogni anno di concessione. Un bel trattamento riservato agli eredi Agnelli da parte di quello che era divenuto il Comune più indebitato d’Italia, anche a causa degli investimenti sostenuti per completare lo stadio Olimpico e per realizzare l’insieme delle opere per i Giochi del 2006. Per aggirare la burocrazia e compiere il miracolo Stadium si scaricò parte dei costi sui cittadini torinesi… e sul Torino.
(Il capitolo prosegue con le vicende seguite alla morte dei fratelli Gianni e Umberto, il conflitto ereditario, le implicazioni in Calciopoli e la divisione di poteri tra John Elkann e Andrea Agnelli.)
Tutti i capitoli di Dov’è la Vittoria
Un affare da “screanzati” – prefazione di Oliviero Beha
Divide et impera – introduzione dell’autore
Sudditi di Sua Maestà – impronte anglosassoni sul pallone
Una Questione nazionale – il divario Nord-Sud
Prima il Nord – la Federazione con la palla al piede
Fatta l’Italia, facciamo i tifosi – il tifo nel Paese dei campanile
Stringiamci a Coorte – il triangolo Genova-Torino-Milano
Il Regno d’Italia – il matrimonio Juventus-Fiat
Fratelli d’Italia – la discriminazione territoriale
Libera frode in libero Calcio – un secolo di scandali italiani del pallone
L’Italia chiamò – il maxiflop nazionale dei Mondiali ‘90
Angelo Forgione– Proclamato ‘Festa nazionale’, il 17 marzo non lo festeggia nessuno, e nessuno ricorda né cosa ricorra né che lo si festeggi. Così è lo spirito patriottico italiano, figlio dell’operazione di ingegneria sociale operata dal 1861 in poi con l’invenzione di una storia nazionale mai esistita. Sempre meno sono le persone che credono alle gesta eroiche dei padri della Patria italiana e sempre più sono i consapevoli che trattasi di ladri della patria napolitana. A Napoli si dice «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… chi ha dato, ha dato, ha dato… scurdámmoce ‘o ppassato…», e ce lo saremmo evidentemente messo alle spalle se non fosse cambiato nulla, e mai, in questi 155 anni. Oggi tocca ancora ascoltare Matteo Renzi, successore di Camillo Benso di Cavour, “minacciare” che il Sud se lo riprenderanno pezzo dopo pezzo, ma dopo averlo completamente smontato, e che lo riporteranno al ruolo di guida del Paese, come nel 1860. Proclami vuoti e pieni di retorica, mentre il suo esecutivo di Governo, nonostante apparenze e pomposa propaganda, è tra i più decisi nel tagliare risorse e investimenti nel Mezzogiorno.
Angelo Forgione – Se non fossimo tristemente abituati alla sciatteria napoletana non ci crederemmo. Eppure la Galleria Umberto I è diventata multicolor dopo la messa in sicurezza seguita alla morte del povero quattordicenne Salvatore Giordano del luglio 2014. Quell’incidente non fu casualità ma conseguenza di pura negligenza, dopo anni di accorati appelli (molti di chi scrive; ndr) per mettere in sicurezza un plesso monumentale che da più di dieci anni mostrava continui cedimenti. Anche in quell’occasione, rimbalzo di responsabilità tradotto in filone giudiziario tutt’ora aperto, con 7 persone, tra amministratori di condominio, dirigenti e impiegati pubblici, rinviate a giudizio per imperizia, imprudenza, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline dopo le reiterate denunce. All’indomani di quella tragedia si alzarono le impalcature sulla Galleria (e un po’ su tutti i monumenti cittadini). Ora, dopo circa 20 mesi, dai catafalchi si stanno lentamente levando i veli sui lavori sin qui effettuati. La storia, sia pur meno tragicamente, si ripete. Ed ecco ancora negligenza e inosservanza di sorveglianza e di regolamenti. Tra facciate ritinteggiate diversamente ed altre rimaste come prima, cioè annerite, la Galleria è diventata il trionfo dell’eclettismo cromatico. Solo che il risultato non è affatto gradevole. Di sfregio vero e proprio si tratta.
Il fatto noto è che le facciate sono condominiali e non comunali, e i lavori, eseguiti da imprese diverse a spese dei condomini, evidentemente, sono andati avanti nella totale mancanza di coordinamento, in barba ai regolamenti che impongono omogeneità per gli interventi su edifici monumentali. La Sovrintendenza aveva dettato le linee guida: il colore di riferimento doveva essere quello del civico 208, ovvero quello della facciata destra su via Toledo. Ordine impartito ma controllo assente.
E la mente corre all’omologo edificio milanese, bello non quanto il parente napoletano. È evidente quanto fregi e decori degli edifici della Galleria Umberto I siano più ricchi e curati dell’antecedente Galleria Vittorio Emanuele II. Ma la perizia che gli architetti Emmanuele Rocco, Antonio Curri ed Ernesto di Mauro impiegarono tra il 1887 e il 1890 è eclissata e umiliata da tanta, troppa incuranza, al contrario di quello che a Milano è un vero e proprio salotto, pure trattato da tale dai cittadini. Basta evidenziarne l’illuminazione notturna e l’omogeneità delle insegne commerciali (tutte su fondo nero con marchi in oro), cui gli architetti di Napoli pure avevano provveduto, attribuendo ai locali degli spazi appositi ma di fatto ignorati, perché ognuno può fare, e fa (Barbaro a parte), di testa propria. E ora pure le facciate multicolor. Ennesima manifestazione di ignoranza e di totale mancanza di sensibilità circa il decoro e la bellezza monumentale della città. Scempio intollerabile!
Angelo Forgione– Incursione degli attivisti del gruppo meridionalista Insurgencia nel salone delle contrattazioni della Borsa di Napoli, in piazza Bovio. Obiettivo: il busto del generale Enrico Cialdini, con la sua espressione sprezzante e autoritaria. Imballato completamente e simbolicamente spedito a Torino, la città dalla quale il luogotenente del Regno di Sardegna fu inviato a Napoli per reprimere nel sangue la reazione dei meridionali all’invasione sabauda del 1860. “Siamo convinti – commentano sulla loro pagina Facebook gli autori della protesta – che dal punto di vista simbolico (ma non solo) oggetti come quello di cui parliamo rappresentino la plastica volontà di cancellare un pezzo di storia coloniale e di parte che è la storia del saccheggio che ha subito il nostro territorio a partire dall’unità. Una storia che ha condizionato e condiziona le nostre condizioni di vita, di sviluppo, che ancora determina l’iniqua distribuzione delle risorse economiche e l’assoluta sproporzione tra le condizioni di vita del Nord e del Sud del paese. L’azione di questa mattina serve esattamente a ribadire il nostro rifiuto radicale per questi continui tentativi di mettere le mani sulla città, sulla nostra città, le mani della speculazione e del saccheggio, le mani dell’oppressione delle forze dell’ordine la cui presenza nelle strade aumenta solo l’insicurezza e occlude la libertà. Napoli piuttosto rivendica tutta la libertà che merita, rivendica autonomia nella gestione delle proprie questioni e rivendica soprattutto una inversione radicale dell’ordine di discorso intriso di razzismo con cui da sempre vengono affrontate da sempre tutte le questioni sociali”. Vale la pena ricordare che il busto fu voluto dallo stesso Cialdini, al quale si deve la costruzione del palazzo della Borsa per motivi meramente propagandistici. Evidentemente non è bastato per cancellare il triste significato che continua a sprigionare: circa 9.000 fucilati (anche esponenti del clero), circa 10.000 feriti, circa 7.000 prigionieri, circa 1.000 case incendiate, circa 3.000 famiglie violate, circa 14.000 deportati in Piemonte, 6 paesi interamente messi a ferro e fuoco, circa 1.400 comuni assediati, circa 160.000 bombe scaricate su Gaeta che fecero circa 5.000 vittime tra napoletani (in grande maggioranza) colpiti anche da tifo, e poi chiese e regge saccheggiate. Tutto sommato basta per descrivere il generale vanaglorioso e spietato che “liberò” Napoli e il Sud per conto di Vittorio Emanuele II.