Angelo Forgione per Napoli freepress – Effetto emulazione a parte, è un fatto che le babygang esistano da sempre, così come è un dato di fatto che quelle napoletane facciano più notizia delle altre. È un vecchio guasto mediatico, antico quanto le babygang stesse, che i più scafati conoscono bene. I gruppetti del male sono a Napoli, a Roma, a Milano, a Torino e in città anche più ricche, come Londra, dove Scotland Yard sta cercando di arginare un serio problema di controllo minorile del mercato della droga (nella seconda parte del video).
E meno male che qualche procuratore di città importanti, come quello di Torino, Anna Maria Baldelli, abbia precisato che «Torino non è Napoli», e che lì, nel capoluogo piemontese, «non ci sono le babygang ma ci sono ragazzi che commettono reati in gruppo e che quindi vanno perseguiti per quello di cui si rendono responsabili». Qualcuno dovrebbe spiegarle che per babygang, nel dizionario italiano, si intendono delle bande di giovanissimi teppisti, laddove per banda si intende un “qualsiasi gruppo turbolento di persone” e per teppisti si intende “gruppo di violenti e vandali”. Ora, si dà il caso che la parola teppista deriva da “teppa”, ossia il misto fra erba e sassi che contraddistingueva il terreno attorno al castello Sforzesco di Milano nell’Ottocento, dove si riuniva la Compagnia della Teppa, composta da milanesi antiaustriaci dediti ai danneggiamenti, al furto e alle imprese di natura goliardica. Insomma, anche l’etimologia coinvolge il Nord, Milano, laddove le babygang non fanno di certo sentire la loro mancanza. Basta digitare su google le parole “babygang Torino” oppure “babygang Milano” e “babygang Roma” per fare la loro conoscenza e sapere delle loro gesta. Accoltellano e uccidono, sfasciano treni e stazioni delle metropolitane. Ma non permettetevi di chiamarle babygang, quelle appartengono solo a Napoli. Gli altri sono solo ragazzi che commettono reati in gruppo.
Ed ecco che, puntuale, arriva il campanello d’allarme. Alcuni operatori turistici del centro storico di Napoli, avvisa il presidente dell’associazione B&B campani, Agostino Ingenito, hanno lamentato la cancellazione di prenotazioni da parte di viaggiatori stranieri ed italiani perché preoccupati della violenza in città e per il fenomeno delle babygang. Questo accade quando si monta cattiva propaganda e si rende locale un problema universale. Londra, Parigi e Barcellona sono protette dai media delle loro nazioni. Napoli no.
«Dobbiamo inondare la rete di informazioni positive su Napoli e convincere tutti che sia una città che bisogna visitare almeno una volta della vita», disse lo scorso anno lo spagnolo Joseph Ejarque, esperto di management turistico, incaricato dal Comune di Napoli di dirigere il comitato tecnico del Piano Strategico del Turismo. Quando la comunicazione nazionale deforma la percezione della realtà complessiva c’è poco da fare.
Almeno, però, qualcuno ci restituisce i riflessi filmati di alcuni ragazzini napoletani che chiedono pubblicamente scusa ai Carabinieri per le malefatte durante il cosiddetto “falò di Sant’Antuono”. Sì, perché a Napoli può succedere di tutto, anche questo quando c’è dialogo, quello che in genere manca, e che se davvero vi fosse aiuterebbe a focalizzare un altro aspetto trascurato del problema partenopeo: il disagio dei ragazzi delle famiglie più povere che, come in nessun’altra città occidentale, vivono gomito a gomito con quelli più fortunati. Per troppo tempo si sono alimentate le risacche napoletane di miseria, annidate in quartieri non solo periferici della città. Non esiste nel cuore di Milano, di Torino, di Roma e di Londra una commistione tra borghesia e popolo minuto come a Napoli, dove anche nel centro sussistono concentrazioni indigenti, proprio a ridosso di importanti strade di demarcazione sociale, a Santa Lucia, al “rettifilo”, a Toledo, etc. Nascono da qui alcune croniche criticità, come quella di chi non ha niente e vede diverso il suo vicino, al quale cerca di sottrargli qualcosa.
Già… Torino non è Napoli, e non solo Torino.
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Le Quattro Giornate di Napoli, l’inizio del declino morale d’Italia.
Angelo Forgione – Era la mattina del 21 luglio 1941, ore seguenti il primo bombardamento degli Alleati anglo-americani su Napoli, quando i napoletani lessero un volantino di rivendicazione firmato dagli inglesi, su cui era scritto:
Noi inglesi, che mai finora fummo in guerra contro di voi, vi mandiamo questo messaggio.
Questa notte abbiamo bombardato Napoli. Non volevamo bombardare voi cittadini Napoletani perché non siamo in lite con voi. Noi vogliamo soltanto la pace con voi. Ma siamo stati costretti a bombardare la vostra città perché voi permettete ai Tedeschi di servirsi del vostro porto.
Finché partono da Napoli navi cariche di armi e materiali Tedeschi per le forze Germaniche in Libya, Napoli sarà ripetutamente bombardata.
Il bombardamento di questa notte è solo il primo rombo della tempesta che s’avvicina…
Una minaccia, insomma. Qualche giorno prima, il presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Roosevelt aveva scritto al primo ministro del Regno Unito Winston Churchill:
[…] Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l’Italia ad un incessante e sempre crescente bombardamento aereo. Queste misure possono da sole provocare un rivolgimento interno o un crollo.
Era iniziato l’accanimento bellico, una strategia psicologica, puramente terroristica a base di incursioni dal cielo finalizzate all’esasperazione popolare. Bisognava stimolare la sollevazione contro i tedeschi e la disapprovazione popolare nei confronti di Mussolini per la decisione di seguire la Germania di Hitler e trascinare l’Italia in una guerra proibitiva.
Roosevelt, tra il 1941 e il 1943, invitò più volte il primo ministro del Regno Unito Winston Churchill a sottoporre gli italiani ad un incessante e sempre crescente attacco aereo. Nell’ottobre del 1942, l’americano scrisse ancora all’inglese:
[…] deve essere nostro irrinunciabile programma un sempre maggior carico di bombe da sganciare sopra la Germania e l’Italia.
Nel luglio del ’43, sempre il presidente USA dichiarò:
Bombardare, bombardare, bombardare […] io non credo che ai tedeschi piaccia tale medicina e agli italiani ancor meno […] la furia della popolazione italiana può ora volgersi contro intrusi tedeschi che hanno portato, come essi sentiranno, queste sofferenze sull’Italia e che sono venuti in suo aiuto così debolmente e malvolentieri […]
Le bombe, dopo aver demolito i siti strategici, dovevano abbattere anche il morale della gente. Il piano, concertato tra Washington e Londra, fu accettato in modo occulto anche dalla Casa Reale Savoia a Roma e, soprattutto, dalla Massoneria italiana in cerca di riscatto dalla messa al bando fascista, cui era legato il maresciallo piemontese Pietro Badoglio, candidato a sostituire Mussolini alla guida del Governo, ruolo conferitogli poi, nel luglio del 1943, dal massone Vittorio Emanuele III, il quale ordinò l’arresto del Duce. Il Regno d’Italia concordò e siglò segretamente l’armistizio con gli Alleati anglo-americani, ma l’accordo fu reso noto solo l’8 settembre per insistere ancora qualche mese nella strategia psicologica, poiché la guerra non si poteva vincere senza convincere. Tutti corresponsabili di immotivate vessazioni sulla pelle dei napoletani pur di rovesciare il dittatore. Tra congiure di palazzo e bombardamenti sugli innocenti, Napoli fu messa letteralmente in ginocchio. Il porto fu raso al suolo e i monumenti risultarono gravemente danneggiati. Persino la Reggia di Caserta e gli scavi di Pompei furono ripetutamente, violentemente e selvaggiamente colpiti, perdendo reperti e preziosissimi dipinti.
Napoli, con tutto il Sud, fu colta di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, quando in città vi erano circa ventimila tedeschi. La situazione divenne di colpo caotica e il popolo, senza protezione alcuna, divenne ostaggio e vittima della furia vendicativa nazista. L’esacerbazione popolare diede soddisfazione agli Alleati con la rivolta delle Quattro giornate di Napoli del settembre 1943, in cui i partenopei, spazientiti dall’ordine di sfollare il centro urbano e rassicurati dall’avanzata degli anglo-americani da Salerno, poterono portare a compimento la cacciata dei nazifascisti tanto stimolata da Roosevelt. La Resistenza avrebbe trionfato nell’aprile del 1945, ma grazie alla positiva conclusione dell’operazione militare segreta “Sunrise”, occultata dalla storiografia ufficiale per non sminuire lo spirito partigiano, ma decisiva per la resa separata delle truppe tedesche in Italia e per risparmiare al Nord ulteriori distruzioni civili e industriali.
Migliaia di famiglie napoletane in lutto, un terzo degli edifici in macerie, il porto distrutto, mancanza di gas, carenza d’acqua e di viveri, condizioni igieniche pessime e tifo petecchiale insorto per la promiscuità nelle affollate cavità sotterranee adibite a ricoveri pubblici. In queste condizioni Napoli, la città più bombardata d’Italia (circa 200 raid di cui 120 a segno), inaugurò il suo dopoguerra molto prima che finisse la guerra e si inoltrò in un periodo senza terrore ma con mille angosce. Per ben un anno e mezzo, infatti, i napoletani furono costretti a badare a se stessi, rappresentando un mondo a parte, duramente martirizzato e umiliato, che si arrangiava alla meglio sotto il controverso controllo degli Alleati. La precoce liberazione segnò purtroppo l’avvio di una caduta morale e spirituale di un popolo che tanto ricco di dignità si era mostrato durante la cacciata dei nazisti.
Governatore di Napoli fu il colonnello americano Charles Poletti, riferimento per la mafia e già governatore in Sicilia, dove gli Alleati erano sbarcati e avevano sostituito i sindaci fascisti con mafiosi allontanati dal regime. Con atteggiamento utilitaristico, l’alto funzionario statunitense scelse come aiutante e interprete don Vito Genovese, socio del famigerato Lucky Luciano e boss di una delle cinque famiglie mafiose di New York, rifugiatosi in Italia per sfuggire a un processo per omicidio, passato opportunamente dalla parte degli antifascisti e resosi molto utile, grazie ai suoi particolari legami, allo sbarco sull’Isola degli Alleati, cioè all’inizio dell’invasione nazionale che portava la liberazione. Il boss, approfittando del razionamento dei viveri, fece prosperare il commercio clandestino dei generi alimentari a Napoli, coperto dagli ufficiali americani che ne favorivano gli affari.
La delinquenza dilagò enormemente. Centinaia di detenuti cui i tedeschi in fuga aprirono le celle nelle prigioni napoletane ebbero campo libero per depredare e alimentare la criminalità. La camorra fece un ulteriore salto di potere. Quando, nel 1945, la Criminal Investigation Division giunse a Napoli per indagare sulle connivenze tra la malavita locale e i militari americani, i loschi affari di don Vito Genovese si interruppero di fronte all’arresto e all’estradizione negli Stati Uniti. Il boss fu sottoposto al processo che aveva cercato di evitare fuggendo in Italia, durante il quale un testimone chiave morì avvelenato in circostanze “misteriose”. Don Vito fu assolto dalle accuse per mancanza di prove, e partì alla conquista dei vertici della mala statunitense. La sua repentina ascesa diede modo alla camorra napoletana di allacciare rapporti e collegamenti con la mafia d’America e con i poteri internazionali, orientando gli affari verso l’allettante traffico intercontinentale della droga. Riaffiorò più forte di prima la malavita organizzata, con drammatiche conseguenze morali e sociali nel futuro di Napoli, sulla cui pelle furono impresse le cicatrici di un lunghissimo periodo di anarchia e sostanziale autogestione.
Nella povertà napoletana degli anni Cinquanta guadagnò potere la camorra, ingannevolmente cancellata dal regime fascista ma maggiormente rinvigorita dal narcotraffico instaurato con le cosche statunitensi e dai rapporti con i politici repubblicani. Complici i clientelismi politici crescenti, le mafie del Sud aumentarono progressivamente il loro radicamento e la loro influenza sia nel tessuto sociale della plebe che negli ambienti più decisivi dell’amministrazione.
Molti malavitosi meridionali furono mandati al confino settentrionale dal ‘soggiorno obbligato’, una legge del 1956 con cui la classe politica del tempo pensò di allontanare dai territori d’origine i mafiosi senza condanna, nella convinzione che al Nord non sarebbero riusciti a ricreare una rete criminale. E invece l’operazione finì con il ribaltare l’assioma secondo cui le mafie erano esclusivo frutto della sottocultura meridionale e che il trapianto fosse impossibile in zone con un più alto tasso di civismo e di capitale sociale. A Milano e nei centri limitrofi furono relegati circa quattrocento uomini delle cosche, soprattutto calabresi, che sfruttarono le convenienti condizioni economiche del florido periodo postbellico e la maggiore autonomia d’azione rispetto alle lontane zone di origine, facendo di quei luoghi dei veri e propri quartieri generali del crimine organizzato. Nei favolosi anni Sessanta iniziarono ad allacciarsi i primi occulti rapporti fra mafiosi meridionali e imprenditori lombardi. Nella zona esplose il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, gestiti per lo più dalla ’ndrangheta, talora con l’appoggio entusiasta delle bande locali. Ben presto, il capoluogo lombardo divenne uno dei mercati più importanti per il traffico e il consumo di stupefacenti, e la nuova possibilità permise ai clan di acquisire ingenti capitali e liquidità utile a creare importanti legami con l’imprenditoria e la politica del posto. La zona si consacrò come cuore economico della malavita organizzata e si avviò a posizionarsi tra le peggiori d’Italia per numero di reati mafiosi.
Proprio in questi giorni si discute del maxi blitz contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia. “Milano come San Luca”, titolano i quotidiani di oggi, ma è così da decenni. Grazie alla “liberazione” americana, interessata a imporre la sua egemonia economica e commerciale in Europa, e alla fallimentare politica repubblicana d’Italia, per nulla diversa da quella del periodo monarchico, cioè da quell’ottantennio 1861-1945 in cui Napoli è passata dall’essere città più importante d’Italia, ordinata capitale, a emblema di un crollo morale ed economico tuttora drammaticamente in corso.
(brani essenziali dell’articolo tratti da Napoli Capitale Morale, Magenes 2017)
Iscrizione scuole britanniche: “italiano, napoletano o siciliano?”. È polemica, ma a discriminare sono gli italiani.
Angelo Forgione – “Italiano, italiano napoletano, italiano siciliano, sardo o altro italiano”. Sono queste le opzioni disponibili per indicare le provenienze linguistiche dei figli degli italiani in Gran Bretagna nei moduli d’iscrizione online di alcune scuole di Inghilterra e Galles. A evidenziarlo sono stati per primi alcuni genitori, trasaliti di fronte alla distinzione etnico-linguistica italiana, richiesta all’atto dell’iscrizione. Distinzione che ha innescato una pungente nota di protesta da parte dell’ambasciatore d’Italia a Londra, Pasquale Terracciano, che peraltro è napoletano: “L’Italia è unita dal 1861. Quella che è stata riproposta dai britannici è una visione tardo ottocentesca della nostra immigrazione”.
L’episodio s’inserisce in un momento delicato per la Gran Bretagna, alle prese con la prospettiva della Brexit e il dibattito sul flusso dei migranti e sull’apertura agli stranieri. Dopo la protesta ufficiale sono giunte le scuse del Foreign Office di Londra. L’incidente diplomatico era però evitabile perché si tratta di distinzione linguistica a scopo didattico e non di discriminazione, non solo per le specificità italiane. Nei moduli incriminati, compilati in base ai principali codici linguistici approvati, è elencato anche il sardo (senza italian), e poi il galiziano, il catalano, il gaelico irlandese e quello scozzese, le varie lingue greche, quelle curde, e altre ancora, in modo da definire la specifica provenienza etnica dei figli di immigrati per potergli fornire la necessaria assistenza linguistica nell’apprendimento dell’inglese. Altro che visione tardo ottocentesca. Insomma, una tempesta in un bicchier d’acqua.
E viene pure da chiedersi perché tanto stupore se è proprio l’Italia ad aver prodotto il peculiare fenomeno della discriminazione territoriale, prima in scia al Positivismo risorgimentale ottocentesco e poi, un secolo dopo, con le invettive di un partito xenofobo e anti-meridionale, tollerato dallo Stato italiano nonostante l’ECRI, la Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza, negli scorsi anni ci abbia più volte condannati per l’assenza di controllo dei sentimenti, dei linguaggi e delle attività razziste della Lega Nord. Nasce il caso quando i britannici si rendono responsabili di distinzione e non discriminazione; loro che si distinguono tra inglesi, scozzesi, irlandesi e gallesi; loro che sanno bene che l’Italia è unita dal 1861, ché la nostra unità l’hanno pilotata e sono coscienti delle peculiari differenze italiche. Non nasce alcun caso quando sono gli italiani – accade sovente – a fare cervellotica discriminazione tra loro e i napoletani. Se ne vedono di tutti i colori, un caso di cronaca nera sì e l’altro pure, leggendo la stampa locale e guardando i telegiornali nazionali.
Settembre 1943, la Reggia di Caserta bombardata
Angelo Forgione – Troppi danni fecero a Napoli i violenti e ripetuti bombardamenti delle forze alleate di Inghilterra e Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, operati per colpire uno snodo nevralgico sul Mediterraneo e per stremare psicologicamente la popolazione, spingendola alla rivolta contro le truppe naziste. Ne fecero le speso vite umane e monumenti. Nonostante già dal 1942 fossero stati creati negli States due comitati (presso la Harvard University e l’American Council of Learned Societies) composti da ufficiali e da studiosi di Storia
dell’Arte che collaborarono con gli inglesi alla creazione di un elenco dei più importanti monumenti italiani ed europei da preservare, quelli napoletani furono colpiti chirurgicamente. Le regole di comportamento furono pure dettate, ma spesso i soldati alleati non le rispettarono. Neanche la Reggia di Caserta fu risparmiata, subendo danni prima dell’insediamento delle stesse truppe.
Caserta fu messa in ginocchio, per la prima volta, dal violento bombardamento del 27 agosto 1943 che ebbe come obiettivo la stazione ferroviaria ma che distrusse anche la Chiesa di Sant’Anna e l’ospedale di piazza Marconi, oltre a mietere centinaia di vittime. Gli aerei carichi di ordigni, che in quel periodo sorvolavano Caserta in direzione di Napoli, si abbassarono sulla città della Reggia.
Il 24 settembre, l’obiettivo fu proprio il Palazzo Reale, colpito da un raid aereo che causò la quasi completa devastazione della bellissima Cappella Palatina di Luigi Vanvitelli, completata dal figlio Carlo e inaugurata nel Natale del 1784, durante la Messa di mezzanotte celebrata alla presenza di Ferdinando IV e di tutta la corte. Le bombe penetrarono in più punti dalla volta (vedi foto sopra) e causarono ingenti danni ai marmi e la perdita di tutti i preziosi dipinti e gli arredi sacri, fatta salva la tela con l’Immacolata Concezione di Giuseppe Bonito, fortunatamente ancora oggi collocata sull’altare maggiore.
Nel 1948 iniziò un difficilissimo e lungo lavoro di restauro per riavvicinare la Cappella Palatina al suo splendore originario, ma forti difficoltà comportarono le integrazioni delle parti marmoree, che, a causa dell’estinzione delle cave borboniche, richiesero il reperimento dei materiali sul mercato antiquario. I danni, non completamente riparati, sono ancora ben evidenti in alcuni punti sventrati e sulle colonne, visibilmente danneggiate.
Alcune cronache raccontano che i soldati, una volta preso possesso della Reggia, si divertivano a centrare con le armi le sculture del parco, ad orinare in alcune stanze degli appartamenti storici e ad imbrattare dipinti e sculture. Fu proprio alla Reggia che, il 7 maggio del 1945, fu sancita la fine della Seconda Guerra Mondiale, con la firma della resa incondizionata della Germania alle Forze Alleate, alla presenza del generale americano Alexander, del generale inglese Morgan e del generale tedesco Von Vienhiagoff (foto a destra).
Su Rai radio2, Paolo Filo Della Torre contro meridionali
Su Rai radio2, Paolo Filo Della Torre contro meridionali
caso di razzismo filo-risorgimentale ai giorni nostri
Giovedì 28 Aprile, su Rai radio2 va in onda la trasmissione radiofonica “Un giorno da pecora“, e con essa il più sfacciato razzismo contro i meridionali.
Ospite dagli studi di Napoli l’Onorevole Clemente Mastella per dibattere delle elezioni amministrative nel capoluogo campano. Ma la discussione politica assume “drammatici” toni sociali quando il dibattito si sposta sul matrimonio di William e Kate del giorno seguente e viene introdotto in diretta telefonica il Conte Paolo Filo Della Torre, giornalista e scrittore, uno dei pochi italiani invitati all’evento.
All’aristocratico viene chiesto se Luca di Montezemolo sia di destra o di sinistra e la risposta scatena un conflitto verbale quando vengono attribuite al presidente della Ferrari delle qualità relative: «Secondo me è di destra, ed è anche un gentleman… poi è nordico».
Mastella chiede chiarimento: «Uno di destra è nordico e quello di sinistra è sudico?».
«Si, quello di sinistra è un po’ sudicio», ribatte Filo Della Torre.
I conduttori evidenziano che l’ospite è uno dei tre soli italiani invitati alle nozze del secolo. E qui parte il richiamo alle vicende risorgimentali che sottomisero le Due Sicilie grazie alla regia inglese.
«Di italiani esportabili – dice Filo Della Torre – siamo (e non “sono”) molto pochi. Se qui ci mandassero di nuovo i sudici sarebbe veramente un disastro. Gli inglesi dovettero sovvenzionare Garibaldi per “annettere” il sud d’Italia al nord, se non ci fossero stati i soldi inglesi per il vecchiaccio con la camicia rossa…».
E poi ancora spocchia: «Mi hanno invitato perchè gli inglesi, a differenza degli italiani, sanno fare le cose. Sono dei signori, non sono dei sudici così come gli “accentacci” dell’Italia del sud».
Clemente Mastella, a questo punto, salta dalla sedia e chiede rispetto al posto di simili “stronzate”. Filo Della Torre incalza: «È la verità, registrati e sentiti come parli. La maggior parte dei meridionali sono sudici». Poi, colpito dalle definizioni dell’onorevole di Ceppaloni (“broccolo”), diventa anche lui un sudicio e chiede: «ma che ca..o dici?».
I conduttori riescono a sedare la gazzarra chiedendo allo scrittore se fosse sicuro che non fossero invitati degli italiani del sud al matrimonio di William e Kate. La risposta è non meno irriverente e ricca di pregiudizi: «Difficile che potessero esserci. Se ci fosse stato ancora quel “simpaticone” del grande comandante Lauro, forse anche per divertirsi, l’avrebbero invitato. Ma adesso il sud equivale ai burini».
«Ci dissociamo, neanche Borghezio – dice uno dei conduttori – ha delle posizioni così».
L’intervento razzista sfuma tra altre illazioni del soggetto in questione che una cosa giusta finisce per dirla: «Gli inglesi sono gente seria, infatti non hanno invitato neanche i Savoia».
Certo, i Savoia no, ma i Borbone si! E sebbene l’erede della Real Casa delle Due Sicilie sia nato in Francia, è meridionale a tutti gli effetti in quanto rappresentante della famiglia reale dell’antico stato del sud. Tanto per chiarire chi fossero gli italiani invitati alle nozze dei serissimi inglesi.
Poi il “nobile” saluta, non prima di aver dibattuto sul suo prossimo libro in uscita e sponsorizzando la superiorità della razza ebraica. A questo punto i conduttori si dissociano completamente e un disgustato Mastella ribadisce che c’era da dissociarsi già precedentemente, quando era stato offeso il sud.
Ascolta le affermazioni di Paolo Filo Della Torre (al minuto 50:13)
http://www.radio.rai.it/podcast/A9143475.mp3
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