È napoletana la prima ricetta della cotoletta (fritta)

Angelo Forgione — Milano e Vienna, città legate dalla storia, condividono il tipico piatto della fetta di vitello impanata e fritta. Wiener Schnitzel e Cotoletta alla milanese, due piatti simili per certi aspetti eppure assai diversi per particolarità di preparazione, a partire dalla presenza dell’osso (milanese) o meno (viennese), ma certamente imparentati, dacché all’inizio del Settecento la città lombarda cadde sotto il dominio austriaco e, passando per il periodo francese-napoleonico, vi rimase fino al 1848. In quel periodo vi furono certamente fitti scambi culturali tra dominati e dominanti.

Sebbene Vienna e Milano abbiamo affermato la cotoletta secondo i loro dettami, la paternità della pietanza non è di nessuna delle due. Di fatto, l’esordio della ricetta della cotoletta di vitello impanata e fritta avviene a Napoli con Vincenzo Corrado, che la descrive nel 1773 nel suo Il Cuoco Galante. A pagina 14, la ricetta delle Coste di Vitello imboracciate indica di tirare la carne al burro per portarla a mezza cottura, e poi, una volta raffreddata, bagnarla nelle uova sbattute, impanarla con pan grattato e formaggio parmigiano (grattugiato), e infine friggerla nello strutto.

Nel 1814, il Dizionario milanese-italiano curato da Francesco Cherubini riporta la parola “coteletta“, così tradotta: “Braciuola. Spezie di vivanda nota. Dal francese cotelette”. Erano infatti i cuochi francesi a fare particolari braciole insaporendo le costolette (con l’osso) di vario tipo, cuocendole e ricoprendole di una panatura complicata, per poi cuocere in forno. È dunque chiaro che ancora alla vigilia della Restaurazione, quindi del crollo di Napoleone e del ritorno degli austriaci a Milano, la coteletta/cotoletta non fosse per i meneghini qualcosa di fritto.

La comparsa della ricetta della “cotoletta alla milanese” è infatti datata 1855: nel ricettario Gastronomia Moderna di Giuseppe Sorbiatti si legge di “Costoline di vitello fritte alla Milanese”, immerse nell’uovo battuto, “imborraggiate” di pane e soffrite. Sono già trascorsi più di ottant’anni dalla comparsa a Napoli delle “Coste di Vitello imboracciate”.

Ed è del 1831 la comparsa della ricetta della Wiener Schnitzel von Kalbfleisch (Cotoletta viennese di Vitello) nel ricettario tedesco Allerneuestem allgemeinen Kochbuch di Maria Anna Neudeckers.

Secondo i ricettari, dunque, Vienna prima di Milano, e Napoli prima di Vienna. Va da sé che la prima cotoletta impanata e fritta sia napoletana, e che Vienna e Milano, elaborandola alla propria maniera, ne abbiano fatto evidentemente specialità locali.

Juventini di Napoli e tifosi napoletani: una difficile convivenza in una città di forte identità

Angelo Forgione “Juventini disturbati”. Una mia definizione del 2017 proferita dopo una delle tante incursioni vuote degli juventini di Napoli in una trasmissione televisiva locale dedicata al Napoli e alla cultura napoletana, ripescata strumentalmente dai tifosi bianconeri in questo periodo per loro difficile, diventa l’occasione per un ben più interessante dibattito tra me, Paolo De Paola e il conduttore Vincenzo Marangio (tre napoletani di nascita) sulla difficile convivenza tra juventini e napoletani a Napoli e dintorni e, soprattutto, sui diversi aspetti del tifo meridionale in genere.

Tratto da “Radio Bianconera” (TMWradio) del 5/12/22

Napoli senza voce, ma non tace

Angelo Forgione  «La Gazzetta dello Sport è sempre stata il giornale di Juve, Inter e Milan ed è sempre stata contro il Napoli… i giornalisti del Nord mi odiano, il Nord odia il Sud dai tempi del Conte di Cavour».
Così disse, senza peli sulla lingua, Aurelio De Laurentiis in diretta nazionale qualche tempo fa, scatenando un autentico putiferio.

Nei giorni scorsi, Stefano Barigelli, direttore della Gazzetta, ha onestamente ammesso che il principale quotidiano sportivo nazionale – ripeto, nazionale – risponde principalmente alle tifoserie di Milan, Inter e Juve, che rappresentano il core-business di riferimento, e l’informazione propone soprattutto ciò che è a loro gradito, come, ad esempio, un like dato da Zaniolo a un post di Vlahovic finito in prima pagina, o come il furto della Panda di Spalletti ma non altri reati predatori in altre città. Fino al caso-non-caso Osimhen alla vigilia di una trasferta delicata del Napoli a Bergamo.
Nessuna novità, non siamo nati ieri, e però è legittimo il sospetto che De Laurentiis avesse ragione a gridare il suo sfogo.

Eugenia Saporito ha perciò messo in piedi un animatissimo ma garbato dibattito in diretta sull’argomento, ospitando Paolo De Paola, napoletano di nascita, ex vicedirettore della Gazzetta e poi direttore di Tuttosport, anch’esso quotidiano nazionale anche più aderente alla specifica utenza di Juventus e Torino, per un confronto con Maurizio Zaccone e chi scrive, moderato assieme a Umberto Chiariello e sintetizzato nel video per racchiudere in pochi minuti le due ore di talk.

Con un’informazione condizionata non solo nello sport dalle esigenze dei lettori di riferimento e dalle pressioni degli editori, Napoli senza voce combatte una battaglia mediatica ad armi impari contro il Nord, ma, come si capirà ascoltando l’interessantissimo dibattito, senza tacere.

Il chitarrista razzista

Angelo Forgione  Il mondo della musica italiana è fatto di giganti, quelli che hanno grande sensibilità artistica e conoscenza, e di nani, semplici conoscitori delle note musicali. Ci sono i Lucio Dalla, bolognesi che vorrebbero rinascere a Napoli, la città che rispettano profondamente per quel che rappresenta nella cultura italiana, e poi ci sono gli Alberto Radius, milanesi che gettano fango gratuito sui napoletani.
Chi è Alberto Radius? Un chitarrista prossimo agli 80 anni, fondatore dei Formula 3, che ha rilasciato un’intervista a Rolling Stones in cui, per informare che è ancora molto voglioso di suonare, ha fatto uno squallido paragone tra napoletani e milanesi:

Sono milanese, anche se nato a Roma. Come mio padre, sono un truffatore, un arrampicatore della vita. Siamo milanesi e ci sappiamo arrangiare. Non alla napoletana, alla milanese. Quelli rubano, noi abbiamo soltanto voglia di fare. Io ce l’ho ancora.


Inutile commentare quel che si commenta da sé. Ma visto che la carriera di Alberto Radius non è luminosa come quella del “napoletano” Lucio Dalla, qualche nota saliente ve la fornisco io. Sì, lui è davvero un truffatore, nel senso che nel 2008 causò la squalifica di Loredana Berté in pieno Sanremo perché la giuria si accorse che la canzone che le aveva scritto era in realtà identica a una già fatta incidere con altre parole esattamente vent’anni prima a tale Ornella Ventura. Lui sostenne di non ricordarsi che il brano fosse già stato inciso.
Truffatore e arrampicatore sì, ma certamente senza molta voglia di fare. È evidente che, almeno in quanto a furbizia, Radius dovrebbe prendere lezioni dai napoletani. Se poi volesse prendere anche lezioni di musica, come ha fatto modestamente quel gigante di Lucio Dalla…

S.O.S Galleria Umberto I

La Galleria Umberto I di Napoli, capolavoro della Belle Époque umiliato da 130 di sciatta e scellerata gestione. L’ho messa a confronto con la Vittorio Emanuele II di Milano, evidenziandone tutti i problemi. Su IL MATTINO, con Francesco Borrelli (Verdi) e Gianni Simioli, proseguiamo la battaglia per dare dignità al fu salotto di Napoli, proponendo interventi fattibili e certamente migliorativi.

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Il primato dei vini delle Due Sicilie

Angelo Forgione Nel dicembre 1858 Rivista contemporanea pubblicò la tabella degli ettolitri di vino prodotti ed esportati dagli stati preunitari stilata dal prestigioso statistico milanese Pietro Maestri, che nel 1861 avrebbe coordinato il primo censimento del Regno d’Italia. Alla vigilia dell’Unità d’Italia risultavano 7,150,000 ettolitri prodotti nel Regno delle Due Sicilie, di cui 5,200,000 nelle province peninsulari e 1,950,000 in Sicilia, per un valore economico superiore anche a quello del maggior produttore di quel momento, lo Stato Pontificio, comprendente le tante vigne laziali, umbre, marchigiane, emiliane e romagnole.

Alcuni vini siciliani, calabresi e campani, particolarmente quelli di Napoli e di Terra di Lavoro, erano considerati tra i migliori dell’intera Penisola, come si evince dal valore in franchi. Tra i più famosi figuravano il Lacryma Christi, i vini di Capri e Ischia e il Marsala di Sicilia.
In Piemonte, la principale produzione vinicola era stata fino a un decennio prima quella del liquoroso Vermouth. Il Barolo era nato da qualche anno mentre il Chianti di Toscana neanche esisteva.
Gli stati che esportavano qualcosa in più delle Due Sicilie, in realtà, non portavano significative quantità in altri stati europei ma avevano come sbocco gli altri territori italiani, dacché a quel tempo le quantità prodotte in Italia non superavano la domanda e il consumo interno. Difatti, Pietro Maestri chiariva: “gli ettolitri 652,462 […] recati da noi nella bilancia del commercio di esportazione, debbono essere considerati piuttosto come un articolo richiesto e smerciato tra le stesse provincie italiane, che come un oggetto di cambio internazionale”. E infatti il prodotto di Sardegna andava in buona parte ai genovesi, mentre i vini piemontesi, quelli veneti e gli emiliani erano esportati soprattutto in Lombardia, che non produceva a sufficienza per il suo fabbisogno, così come la Toscana, che si approvvigionava dalle Marche e dall’Umbria. Nei più ampi territori del Regno di Napoli, portare un vino calabrese negli Abruzzi non era esportazione.

Il primato dei vini campani e siciliani era dovuto a una vivacità testimoniata dalla nascita a Napoli, nel 1833, della Compagnia Enologica Industriale, la primissima azienda enologica d’Italia, istituita privatamente con sovrana approvazione borbonica per il miglioramento della vinificazione dell’intero Regno e per favorire il commercio interno e l’esportazione, così da emancipare le Due Sicilie dalla passività straniera.I giornali italiani e stranieri, compresi quelli dei maestri di Francia, ne annunciarono i cimenti e ne riportarono i grandi successi ottenuti in poco tempo. Alcuni vini delle Due Sicilie riuscirono a fare una minima concorrenza a quelli francesi, e furono i primi d’Italia a riuscirvi.
Dopo cinque anni, nel 1838, l’esperienza napoletana fu replicata a Milano con la costituzione della Società Enologica Lombardo-Veneta. Nell’introduzione all’atto costitutivo si leggeva:
“[…] a’ premurosi inviti di molti distinti proprietari e industriali di fondare una Ditta enologica sulle basi della Compagnia delle Due Sicilie […], ove l’industria vinaria ha fatto tali progressi, di aver potuto emancipare quel regno dalla passività estera, e metterlo in grado di far concorrenza colla Francia nella esportazione”.

Dopo l’Unità, le vicende del settore vitivinicolo nazionale seguirono quelle più generali dell’agricoltura italiana, con le aree economicamente avvantaggiate del Nord investite da importanti trasformazioni tecniche e organizzative, tradotte nella creazione di un divario tra aree avanzate verso una viticoltura moderna e altre rimaste indietro. Le attività enologiche di Camillo Benso di Cavour in Piemonte e di Bettino Ricasoli in Toscana furono fondamentali per la crescita dei vini delle due regioni, che iniziarono a farsi onore insieme a quelli della Campania, in particolar modo della provincia di Napoli, e della Sicilia all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 e a quella di Vienna del 1873.
Da contraltare allo sviluppo industriale dell’enologia piemontese e toscana della seconda metà dell’Ottocento fecero gli effetti della repressione del brigantaggio al Sud, per la quale nel primo decennio del Regno d’Italia risultavano interdette e saccheggiate le case coloniche di campagna ritenute possibili rifugi per i ricercati, con incarcerazioni e processi sommari a danno dei proprietari. E poi la requisizione dei siti reali e delle antiche proprietà borboniche, polmoni di uve importanti lasciate all’abbandono.

Pur nella decadenza sociale e politica del Mezzogiorno, la sola Campania, tra le prime regioni produttrici, significava ancora un decimo abbondante del vino italiano prima della Grande guerra del ’15-’18. I meridionali, tagliati fuori dallo sviluppo industriale e relegati all’agricoltura, svuotarono ancor più massivamente le campagne per il reclutamento militare al fronte con lo scoppio del conflitto bellico.
Pure alla vigilia della Seconda guerra mondiale la Campania eccelleva per quantità media complessiva prodotta, insieme a Puglia, Sicilia, Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna. La provincia di Napoli, allargata fino al Garigliano per riforma fascista, risultò addirittura in testa alla produzione vinicola nell’annata 1938.Dopo il conflitto mondiale, durante il ventennio Cinquanta-Sessanta, l’abbandono delle terre coltivate al Sud proseguì con l’ingrossamento dei flussi migratori dei meridionali in direzioni delle ricostruite industrie del Nord. Le regioni meridionali si ridussero alla fornitura di vino da taglio da destinare al Nord per irrobustire alcuni vini settentrionali e la Campania andò via via scivolando fuori dall’élite produttiva.

Solo nell’ultimo decennio del Novecento una nuova politica di valorizzazione del vino italiano ridestò la sete delle tantissime uve autoctone regionali e prese corpo anche la tardiva valorizzazione dei vitigni meridionali.
Oggi gli italiani bevono meno rispetto al secolo scorso, ma bevono assai meglio e con consapevolezza, orientandosi sempre più verso la qualità dei vini autoctoni. Piemonte, Veneto e Toscana sono in assoluto le regioni con più incidenza di denominazioni di origine controllata e garantita, le DOCG, ma un significativo progresso qualitativo ha interessato la lavorazione dei vini del Meridione, riducendo la supremazia di quelli nordici. I vini ottenuti dai vitigni autoctoni di Sicilia, Puglia, Campania, Calabria, Basilicata, Abruzzo, Lazio e Sardegna hanno guadagnato gradimento all’estero, certificato dalla crescente esportazione delle bottiglie del Sud Italia.
Quanto narrato è solo un compendio assai sintetico di uno dei capitoli del mio prossimo libro, ricco di documenti e ricostruzioni storiche relative a diverse eccellenze. Relativamente a quella vitivinicola, le aree produttive del Sud e del Centro pagano ancora una certa percezione di inferiorità, un pregiudizio e un ostracismo di radice commerciale esercitato da alcuni produttori settentrionali, come denunciato dal produttore siciliano Lucio Tasca d’Almerita, ospite nel febbraio del 2018 della rubrica Tg2diVino della Rai.

Promozione Estate

È proprio d’estate che oltre un italiano su due ha intenzione di leggere almeno un libro. Un dato confortante, più alto rispetto alla media di lettura nel corso dell’anno. C’è più tempo a disposizione per sé, e la lettura favorisce il relax.Io, a chi ancora non ha letto qualche mio titolo, faccio invito di approfittare della promozione estiva, prima che arrivi in libreria la mia quinta fatica. Perché la lettura non teme il caldo.

info: staff_angelo_forgione@email.it

(offerta non valida in libreria)

Addio a Carla Fracci, amica di Napoli

Angelo Forgione Scompare ad 84 anni la più grande danzatrice contemporanea, l’étoile per eccellenza, la “prima ballerina assoluta” per il New York Times.
Festeggiò i suoi 80 anni al San Carlo di Napoli, non alla Scala di Milano, la sua città, che voleva semplicemente farla sedere in platea in occasione di una serata non a lei dedicata.

“A Milano ho dato molto, ma Milano è cambiata. Peccato. Napoli – disse la Fracci – è stata molto più generosa. Sono felicissima di essere a Napoli, una città piena di fantasia, energia, e con un grande cuore. È una città meravigliosa, con un’anima, una semplicità e una generosità che ho sempre saputo apprezzare. Io ho bisogno di calore, di stima, di verità per stare bene. E Napoli è un po’ come casa mia”.

Quella festa non ebbe la grancassa dei media, perché così funziona quando non si tratta della Scala di Milano, ma Carla fu intimamente felice di essere protagonista sul palco, per due sere, in quel teatro, il più bello, quello della prima scuola di ballo d’Europa (1812), che aveva diretto negli anni Ottanta e che ancora sfornava (e sforna) danzatrici, mentre si addolorava per la smobilitazione dei corpi di ballo nei teatri italiani:

“Non si fanno crescere i giovani, non si danno opportunità, e siamo sempre più spinti a reclutare grandi corpi di ballo dall’estero. Un paese senza i mezzi per fare cultura e arte – disse – è un Paese che si nega a un futuro vero, autentico e libero”.

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E ora il condannato Sala fa la morale al Sud

Angelo Forgione E ora il sindaco di Milano, Beppe Sala, fa il moralizzatore del “Sud sprecone”. Nel corso del suo intervento al dibattito online promosso dal Partito Democratico e intitolato ‘Le risorse per lo sviluppo e la coesione dell’Italia – La nuova programmazione europea 2021-2027’, ha dato il suo consenso – bontà sua – alla concessione dei soldi dell’Europa al Mezzogiorno, a patto che tutto sia speso bene.

«Non ho nulla in contrario che vengano date più risorse al Mezzogiorno, ma è imprescindibile che ci sia preventivamente una dimostrazione del fatto che poi ci sono strutture atte al buon uso di queste risorse».

Lo dice colui che prima di essere eletto sindaco fu commissario unico dell’Expo di Milano del 2015, di cui sono arcinoti gli sprechi e gli appalti inquinati che resero necessaria l’istituzione dell’Associazione Nazionale Anticorruzione per vigilare, con un magistrato napoletano a capo, sulla trasparenza e sull’integrità dell’amministrazione pubblica e regolarizzare le ruberie per risolvere il grave danno di immagine generato dalle indagini sui numerosi reati contestati ai soggetti interessati al grande affare milanese. Così è diventato sindaco, Beppe Sala, poi prendendosi la condanna a sei mesi di reclusione, convertiti in una multa da 45mila euro, per falso ideologico e per la retrodatazione di due verbali per l’assegnazione del maxi appalto per la Piastra dei servizi dell’Expo, il più importante nell’organizzazione della Fiera internazionale. Vale la pena ricordare che, senza maxiappalti e senza sprecare una lira, la Napoli lontanissima dai fasti del suo antico regno fu incaricata nel 1993 di mostrare non solo il suo rango di capitale ma anche un volto diverso, efficiente, dell’Italia di Tangentopoli in occasione del G7 del 1994, di competenza dell’Italia delle vergogne che avevano come epicentro la “Milano da bere”. Ma è o non è la Lombardia la regione degli scandali e degli sprechi della Sanità? È o non è la Lombardia, come anche l’Emilia Romagna, tra le regioni che bruciano miliardi al vento per quei carrozzoni burocratici e per lo stuolo di municipalizzate, che non sono altro che appendici clientelari?È o non è il Piemonte, 4,3 milioni di abitanti, la regione che spende per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania con i suoi 5,8 milioni di cittadini, e addirittura la regione che spende da sola di più di Campania, Puglia e Calabria messe insieme?È o non è l’Emilia Romagna la regione che spende esattamente il doppio della Puglia per suoi servizi generali, pur avendo sostanzialmente la stessa popolazione della regione meridionale?La propaganda dominante vorrebbe convincerci che c’è un Sud sprecone e lavativo, ma la verità è che gli sprechi ci sono dappertutto, nel Sud povero come nel Nord ricco. Il vero problema non sono gli sprechi del Sud ma la sperequazione che dura da quando è nata l’Italia. Un paese spaccato a metà in cui al Meridione sono state sistematicamente sottratte le risorse e, con esse, la possibilità stessa del futuro, come ampiamente testimoniato dai Conti pubblici territoriali.
Questa volta, però, i presidenti delle regioni del Sud, e tutti i meridionali, non dovranno lasciare che il partito unico del Nord trattenga nelle sue mani i fondi europei. E neanche che il manager di un grande scandalo milanese, per giunta condannato, gli faccia la morale.

Un “sudaca” a capo dei terroni

Tre minuti a La Radiazza (Radio Marte) per descrivere il Maradona napoletano, immediatamente divenuto tale, non appena sbarcato nel paese in cui aveva cercato riparo da una Spagna ostile verso i sudamericani. Lui, giovane argentino catapultato in Europa dalla sua classe, non immaginava che in Italia avrebbe dovuto fare i conti con le stesse pulsioni avvertite in Catalogna. Capì che i napoletani erano il popolo da proteggere. Capì che Napoli era Buenos Aires.

Tutto quello che abbiamo fatto a Napoli lo sappiamo voi ed io. Sappiamo che abbiamo fatto tutto contro tutti e questo non si può cancellare. Io sarò sempre, sempre, Diego il napoletano.

D. A. Maradona, giugno 2010