Ferdinando di Borbone, protettore della cultura d’Europa

il Ferdinando di Canova al MANN

Angelo Forgione Ancora oggi Ferdinando di Borbone viene definito “il Re lazzarone” e descritto come un rozzo sovrano. Così la tradizione patriottica ce l’ha presentato, perché colpevole di essere profondamente napoletano e di essere capitato sul trono nell’epoca dei Lumi e delle rivoluzioni. E invece, pur mancandogli l’approfondimento dello studio, non gli fece affatto difetto l’intuito per ingrandire la dimensione culturale di Napoli, portandovi la parte marmorea della Collezione Farnese da Roma, rendendo pubbliche tutte le raccolte artistiche private di famiglia, istituendo il primo museo dell’Europa continentale e stimolando la crescita artistica di Napoli.
Gli incoraggiamenti all’arte concessi dal “Re lazzarone” furono tanti e incontrarono convinti elogi nei vari territori italiani, tra cui quello del letterato lombardo Carlo Castone della Torre di Rezzonico, che in una corrispondenza di fine Settecento commentò la realizzazione della scultura “Adone e Venere” di Canova per il marchese napoletano Francesco Berio, per la quale Ferdinando concesse l’esenzione del dazio doganale per l’importazione dell’opera dallo Stato Pontificio, e riconobbe alla capitale borbonica un insuperabile patrimonio classico, accresciuto negli ultimi anni:

“[…] non vi sarà discaro […] il sapere in qual pregio tengasi dall’illuminato governo un’opera sì bella, e quali facilità si concedano, e laudi, ed incoraggiamento a facoltosi personaggi, che con illustri monumenti cospirano a volgere quella deliziosissima capitale in un’Atene novella, avvegnacchè per quelli dell’antichità possa di già entrare in contesa coll’istessa Roma.”

Canova scolpì lo stesso Ferdinando in un’enorme statua per accogliere i visitatori del Museo borbonico, e lo rappresentò proprio nelle vesti di Minerva, protettrice delle arti con l’elmo della saggezza in capo, allegoria in onore di un sovrano che, raggruppando le collezioni di Antichità, aveva lanciato l’immagine neoclassica di Napoli, veicolando il messaggio borbonico di protezione delle arti e della tutela dell’antico in una cornice, quale quella del prestigioso museo, che rappresentava il contributo decisivo di Napoli e dei Borbone, Carlo e Ferdinando, per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. L’uno stimolò l’archeologia e l’altro la raccolta artistica, assicurando gran prestigio internazionale alla Città. Al padre, ben più magnificato del figlio, il merito enorme dei musei a cielo aperto, le città antiche riportate alla luce. Al figlio, quello di aver compiuto l’atto più colto nell’Europa di fine Settecento con la volontà di assegnare ai napoletani le collezioni di famiglia e di creare un museo che è ancora oggi il massimo riferimento culturale dell’antica capitale, l’esposizione di arte classica più bella e importante del mondo.
E cosa fecero i veri zotici, quelli del regno dei Savoia, quando conquistarono Napoli? Rimossero la colossale scultura dalla nicchia che la ospitava sullo scalone del Museo e la nascosero in un ambiente secondario, facendo uno sgarbo enorme anche alla memoria di Canova. Sulle pareti della scalinata fecero apporre delle epigrafi, alcune proprio contro colui che aveva voluto il museo stesso e altre di esaltazione di Giuseppe Bonaparte, Murat, Garibaldi e Vittorio Emanuele II.
Il ritorno della preziosa statua al suo posto è avvenuto solo nel 1997, per volontà di un impavido sovrintendente ai beni archeologici, Stefano De Caro, deciso a rendere giustizia tanto all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, che a Napoli scoprì la devozione per l’Antico e così divenne il più grande scultore neoclassico, quanto all’artefice iniziale del più grande e più importante contenitore di arte classica d’Occidente. E lo chiamano ancore “lazzarone”.

Vicenda napoletana di Canova, che ammirò i santi Sansevero più del Cristo velato

Angelo Forgione – Boom di visitatori per la mostra ‘Canova e l’Antico’ al Mann, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Cittadini e turisti non resistono al richiamo del gran maestro del Neoclassicismo, tornato nella città in cui maturò da giovane la sua tendenza verso l’arte classica, formalmente distante dai barocchismi descrittivi ormai al tramonto della stessa Napoli e di Roma.
La prima volta in cui vi mise piede era nel gennaio del 1780, e aveva 22 anni. Scese da Roma in viaggio d’istruzione, per visitare le ricchezze della nuova capitale delle antichità greco-romane, meta imprescindibile per qualsiasi artista di quel periodo anche per il richiamo degli scavi di Ercolano, Pompei e Paestum. Il suo secondo “Quaderno di viaggio” consente di percorrere l’itinerario della sua prima visita a Napoli.

Appena giunto, il trevigiano Canova passeggia per le vie della città, che gli appare “veramente situata in una delle più amene situazioni del mondo”. Passa solo un giorno e scrive: “[…] per tutto sono situazioni di Paradiso […]”.
Vede “il nuovo giardino pubblico, cosa veramente bellissima” (l’attuale Villa comunale), e resta incantato della “deliciosissima situazione di questo Paese”. Visita le chiese e i teatri, e sottolinea la straordinaria dimensione dell’Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga.

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Il 2 febbraio è in visita alla Cappella San Severo per ammirare le sculture volute da Raimondo de’ Sangro. È curioso di vedere la Pudicizia del connazionale veneto Antonio Corradini ma ne resta poco entusiasta, preferendole la velata del napoletano Giuseppe Sanmartino, il Cristo. Ma non è questa che apprezza di più, anche se si racconta che abbia provato ad acquistarla. Lo scrive, senza fonti, Gennaro Aspreno Galante nella sua ‘Guida sacra della città di Napoli’ del 1872, avvertendo che “pure i detrattori del Sammartino cercano invano difetti in quest’opera, ma il valente artista sarà sempre sicuro del fatto suo, da che il Canova esibì qualunque prezzo per acquistar questo Cristo”.

Con enfasi ancor più grande si tramanda che il Canova abbia anche dichiarato che avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore di questo marmo incomparabile. I suoi scritti ci fanno capire che si tratta di una delle tante suggestioni create attorno alla magnifica scultura cristica in cui carne e stoffa si fanno marmo, una delle più belle al mondo, sicuramente la più mistica e la più stupefacente agli occhi dell’osservatore, ma apprezzata non quanto altre due dal Canova:

“Questa matina si portassimo nella capella della casa di San Severino. Questa capella è ripiena di statue e depositi di marmo, vi è anco la statua velata fatta dal Coradini […].
Vi sono ancora un Cristo di figura al naturale, posto sopra un lenzuolo, e coperto da un vello, il qualle mi parve di più merito della statua del Coradini, questo Cristo è opera di Giuseppe Sanmartini ora vivente; ma le due statue che mi parve più meritevole furono, una Santa Rosa in gienochioni, e il Santo nella cappella di Facciata […].”

Dichiarato apprezzamento per il marmo di Sanmartino nel confronto delle velate, ma più attenzione per le rappresentazioni di Santa Rosalia e di Sant’Oderisio, entrambe del genovese Francesco Queirolo, pure autore del bellissimo Disinganno.
La prima, dedicata all’antenata di Raimondo di Sangro, morta alla metà del XII secolo e divenuta patrona di Palermo per aver salvato la città siciliana dalla peste del 1624. La seconda, dedicata all’altro antenato santo di famiglia.

Canova visita anche la pinacoteca di Capodimonte e il museo di Portici, dove sono riunite le antichità ritrovate negli scavi recenti.
Il 14 febbraio è a Pompei, “sito che si sta scavando presentemente”, e poi a Salerno e a Paestum. Non si fa mancare l’escursione sul Vesuvio e ai Campi Flegrei, presso l’antro della Sibilla, Baia e la Solfatara. Il 28 febbraio lascia Napoli per Caserta e per Capua, e da lì risale a Roma.

Ritorna altre volte a Napoli, da artista affermato, nella città con cui ha diverse relazioni professionali e che sa essere fondamentale per la sua maturazione. Qui trova in seguito le preziose sculture della Collezione Farnese trasferite da Roma, a rendere Napoli sempre più centro dell’arte classica in Europa. Ferdinando di Borbone ha lanciato l’immagine greco-romana della sua Capitale, nuova Atene e nuova Roma, in cui convivono i tesori antichi e le creazioni moderne. Ha rinunciato alla proprietà privata dell’eredità di famiglia e l’ha resa pubblica trasferendola nel nuovo Real Museo di Napoli (l’attuale Museo Archeologico Nazionale).

Canova è a Napoli nel 1787, per scolpire per il marchese Francesco Maria Berio il gruppo in marmo ‘Venere e Adone’ (oggi a Ginevra), destinato a un tempietto nel giardino del palazzo del marchese in via Toledo.

All’inizio dell’Ottocento, re Ferdinando vuole esser effigiato dall’ormai affermato artista veneto in vesti mitologiche. Il modello è pronto nel 1803. È un Ferdinando assai descrittivo in veste di Atena, protettrice delle arti. È stato infatti proprio il Sovrano a fondare il Museo, il primo dell’Europa continentale, e a volervi trasferire la collezione di antichità. Ma l’avvento sul trono napoletano di Giuseppe Bonaparte nel 1806 frena l’esecuzione. Piuttosto, il francese convoca immediatamente a Napoli Canova perché studi la collocazione in una piazza di un monumento equestre dedicato al fratello.

L’artista diventa un paladino della ricchezza partenopea quando, nell’ottobre del 1808, è chiamato a Parigi da Napoleone per realizzare il ritratto dell’Imperatrice Maria Luigia. Lì rifiuta di assumere incarichi fissi ed esprime all’Imperatore l’intenzione di tornare a Roma alla conclusione del lavoro. E si oppone al corso quando questi gli dice che nella capitale di Francia vi sono ormai tutti i capolavori antichi d’Europa, e che si è riservato per sé l’Ercole Farnese di Napoli, l’unico che manca. «Vostra Maestà, – gli risponde il trevigiano – lasci almeno qualche cosa all’Italia. I monumenti antichi formano collezioni a catena con una infinità d’altri che non si possono trasportare né da Roma né da Napoli». E Napoleone ribatte: «Ma noi faremo Roma capitale d’Italia, e vi aggiungeremo Napoli».

Il progetto del monumento equestre a Napoleone per Napoli lo eredita Gioacchino Murat nel 1809, che emette un bando per la realizzazione di una grande piazza classicheggiante per le assemblee pubbliche, un emiciclo porticato attraversabile davanti il Palazzo Reale, delimitato da due edifici gemelli. Al centro, la statua commissionata al Canova, che nel 1813 torna a Napoli per ritrarre Murat e la moglie Carolina.

Con la Restaurazione e il ritorno di Ferdinando di Borbone, la piazza viene realizzata ugualmente, con le necessarie modifiche al progetto, affidato a Pietro Bianchi, epigono luganese di Canova. Davanti alla basilica, sul cavallo già scolpito per la figura dell’Imperatore decaduto, il Canova suggerisce di porre l’immagine di Carlo di Borbone accoppiata a un monumento gemello dedicato all’erede Ferdinando. Entrambi i sovrani devono essere raffigurati con livree da imperatori dell’antica Roma, significando anche con l’anacronismo delle uniformi la rivendicazione napoletana del gusto neoclassico di impronta vesuviana, peraltro ben chiara nell’ispirazione al Pantheon romano della nuova basilica retrostante del Bianchi.

Al ritorno del legittimo sovrano sul trono napoletano, Canova riprende anche la scultura di Ferdinando rimasta in cantiere, e la spedisce via mare a Napoli alla fine del 1819. Nel 1821, finalmente, la gigantesca statua viene collocata nel Real Museo di Napoli, nel luogo indicato da Canova stesso: una nicchia al centro dello scalone monumentale.

Lo scultore veneto muore nell’ottobre 1822, prima di poter ultimare il monumento equestre a Ferdinando di Borbone per il Largo di Palazzo. Lo completa l’allievo designato per la finalizzazione delle opere incompiute, il catanese Antonio Calì. Giusto in tempo perché possa vederlo il Re, morto nel gennaio 1825.

La grande piazza reale di San Francesco di Paola, il Largo di Palazzo, viene solennemente inaugurata nel 1846, con netta impronta neoclassica, e diventa la piazza simbolo della Capitale. Lo resta anche ad Italia unita, quando i piemontesi rimuovono immediatamente la statua di Ferdinando dallo scalone del Museo. Vi torna solo nel secondo Novecento, a rendere giustizia all’artefice iniziale del più importante museo archeologico d’occidente e all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, “l’ultimo degli antichi, il primo dei moderni”.

per approfondimenti: Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017)

Dal neoclassico al neomelodico

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Angelo ForgioneNon sapevo chi fosse il palermitano Tony Colombo. Ho saputo dell’esistenza del cantante neomelodico per il matrimonio di “dubbio gusto” con la vedova di un boss della camorra andato in scena nei giorni scorsi a Napoli, con tanto di concertino di addio al celibato/nubilato in piazza del Plebiscito, il cuore neoclassico della Città Capitale, lo slargo voluto da Murat e compiuto da Ferdinando per significare il gusto neoclassico che i Borbone avevano diffuso nel mondo con gli scavi archeologici vesuviani e cilentani.

Dal neoclassico al neomelodico, è così che è andata la storia. Dal gusto universale che Napoli restituì al mondo illuminista al gusto provinciale di una festa con canti sguaiati nel centro di Napoli, lo stesso dove si spara per regolare un alterco tra clan di diversi quartieri. Lì, dove c’è la Prefettura, il palazzo dello Stato che non c’è, e con la sua assenza consente che in una capitale della cultura europea trionfi l’incultura, che accada un po’ di tutto, impunemente, ed è già tanto che non accada proprio tutto – credetemi – in un territorio senza presidi e controlli dove dilagano l’ignoranza e l’indigenza.

L’autorizzazione a un flashmob si è trasformata in un’appropriazione della piazza per un miniconcerto, con tanto di palco, musicisti, impianto audio, luci, tecnici, solottieri di Maria De Filippi e Barbara D’Urso (che sguazzano nel fenomeno) e gli immancabili fans. E nessuno che abbia interrotto la gioiosa festa di piazza, che non è durata una manciata di minuti. E nessuno che abbia visto l’andirivieni pomeridiano di auto e furgoni per l’allestimento in un’area pedonale.

Pare che siano state elevate contravvenzioni agli organizzatori dello sconcertante concerto, ma cosa vuoi che gliene freghi a chi ha stracciato danari e sapeva che al massimo avrebbe dovuto pagare qualche multa per consentirsi il lusso di impossessarsi del cuore regale di Napoli? Multe o no, la festicciola è stata fatta, e pure con tanto di ringraziamento al sindaco di Napoli che sa di beffa, amen!

A Napoli va così, ma non solo a Napoli, ricordando il funerale dei Casamonica a Roma. Va che ognuno può fare il comodo che gli pare, infischiandone di leggi scritte e norme morali. Dai canti agli spari il passo è davvero breve, e in mezzo vi sono gli automobilisti e i motociclisti senza assicurazione, i venditori abusivi di ogni mercanzia, gli occupatori di suolo pubblico e tutti i paladini del “faccioquellochemipare”.

Le note dello sconcerto sono andate in cielo tra le centinaia di cuori gonfiati e distribuiti ai fans, proprio in mezzo ai due monumenti equestri a Carlo e Ferdinando firmati da Antonio Canova, il veneto che quando mise piede a Napoli scrisse: “Per tutto sono situazioni da Paradiso”.
A proposito… proprio mentre per tutto erano situazioni da inferno, il sommo scultore neoclassico rimetteva piede a Napoli, la città che tanto lo ispirò, per una bellissima mostra a lui dedicata al Museo Archeologico. Abbiamo fortunatamente un riparo.

Io non sapevo chi fosse il palermitano Tony Colombo ma sapevo chi è il catanese Antonio Calì, l’allievo di Canova che completò i Borbone a cavallo del Plebiscito. Certamente perché nella vita mi dedico alla Crescita.

Lo Stato è assente; la Cultura no, grazie a Dio.