Macron a Napoli ricordando Stendhal

Angelo Forgione Visita ufficiale a Napoli di Emmanuel Macron, dopo le belle parole espresse pubblicamente in una chiacchierata con Fabio Fazio di un anno fa. In quell’occasione, il Presidente della Repubblica francese si incanalò nel solco delle altisonanti parole di Stendhal durante il suo soggiorno partenopeo nel 1817. Stendhal che però mai scrisse ciò che anche Macron ha riverberato, e cioè che Napoli e Parigi erano, a suo parere, le due uniche capitali d’Europa. Scrisse, il letterato francese, qualcosa di assai più lusinghiero per la capitale borbonica, e cioè che era “senza confronti, la più bella città dell’universo”. Napoli anche più bella di Parigi, e napoletani molto più buoni dei piemontesi, stranieri in Italia quanto i francesi.

“Parto. Non dimenticherò né la strada di Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli: è, senza confronto, ai miei occhi, la città più bella dell’universo. […]
Napoli, nonostante le sue trecentoquarantamila anime, è come una casa di campagna posta al centro di uno splendido paesaggio. A Parigi non si sospetta che vi siano boschi o montagne nel mondo; a Napoli, ad ogni curva di strada, sei sorpreso da un aspetto singolare del monte Sant’Elmo, di Posillipo o del Vesuvio. […]
Questa baia così bella, che sembra fatta apposta per il piacere degli occhi, il lungomare delle colline che cingono Napoli, la passeggiata di Posillipo lungo l’aereo viale costruito da Gioacchino (Murat): tutto un mondo che è impossibile rievocare, com’è impossibile dimenticarlo. […]
A Napoli, la grossolanità di questa piccola gente, che ti insegue anche nei caffè, mi ha scioccato un po’. […] Sono mascalzoni, perché sono poveri, ma non sono malvagi. I veri cattivi in ​​Italia sono i Piemontesi. […] il Piemontese non è più italiano del francese e puoi aspettarti di tutto da lui.”

Era la Napoli da poco uscita dalla dominazione napoleonica e dal regno di Murat, che pure si era innamorato della città al punto da abbandonare Napoleone alle sue guerre.
A distanza di due secoli, l’apprezzamento dei francesi per Napoli non si è affatto esaurito e la città vesuviana resta un riferimento culturale tra i principali per i transalpini.
Stendhal fu comunque polemico con i napoletani per una grande pecca che notava dopo la caduta di Napoleone, ovvero quella che i partenopei stessero perdendo consapevolezza di se stessi e iniziassero a coltivare solo uno cieco orgoglio campanilistico. Due secoli fa.

Bruciore profondo

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Angelo Forgione – Brucia Notre Dame. Un inferno doloroso, riconducibile alle cronache europee del 12 febbraio 1816, la notte in cui, ad addolorare il Continente fu il disastroso incendio del Real Teatro di San Carlo a Napoli, il tempio del melodramma, che da circa ottant’anni era il riferimento internazionale della grande passione del tempo, l’Opera.
In meno di due ore la sala interna andò completamente perduta. Le fiamme erano scaturite da qualche lucerna e si erano velocemente propagate sulle ali del vento di una serata illuminata dalla luna. Crepitii e grida dei presenti, travi di legno incandescenti e pendenti, crolli di muri, fumo e fiamme visibili da ogni punto della città. L’intervento tempestivo dei “travagliatori” e dei soldati borbonici riuscì a evitare che le fiamme si propagassero alla magnifica facciata neoclassica, rifatta solo qualche anno prima dall’architetto Antonio Niccolini. Senza né televisione né radio, con lentezza giunse all’estero la notizia attraverso la diffusione delle tristi cronache provenienti dalla capitale continentale della Musica. Quello che oggi fanno gli obiettivi fotografici e televisivi lo fecero gli artisti che si affrettarono a immortalare il tragico evento con tele, pennelli e tavolozze. Senza Salvatore Fergola e Luigi Gentile nessuno avrebbe potuto “vedere” quelle scene.

Sull’Europa di Napoleone era da poco calato il sipario e la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna aveva recentemente riportato Ferdinando di Borbone sul trono di Napoli. Ecco perché il popolo napoletano, in preda allo sconforto, accusò i giacobini di essersi vendicati colpendo il simbolo internazionale della città, un po’ come oggi si accusano i jihadisti per il rogo del simbolo cattolico di Parigi. Qualcuno sospettò di Domenico Barbaja, l’impresario del Real Teatro sopravvissuto al cambio di potere, pure proprietario dell’impresa edile che aveva rifatto la facciata.

Ferdinando di Borbone, a soli nove giorni dal rogo, formò una commissione composta da cinque importanti nobili, incaricati di sovrintendere, senza badare a spese, alla rinascita del tempio europeo dell’Opera, affinché superasse in bellezza se stesso e ogni teatro del mondo, anche il più giovane Teatro alla Scala di Milano. Per meriti acquisiti con i lavori per la facciata, il progetto e l’appalto dei lavori furono aggiudicati ancora a Niccolini e Barbaja.

In soli otto mesi il miracolo fu compiuto. Andò a verificarlo di persona Stendhal la sera dell’inaugurazione, il 12 gennaio 1817, quando in scena fu portato Il sogno di Partenope di Giovanni Simone Mayr, melodramma allegorico composto espressamente per l’occasione, perché quel giorno fu davvero sognato da tutta Napoli. Alla vista dello scrittore si mostrò una straordinaria sala, completamente diversa da quella andata in fiamme: dal Barocco ormai démodé della precedente sala di Antonio Medrano al Neoclassico in voga di Antonio Niccolini. I suoi occhi, esperti di teatri francesi e italiani, rimasero sbarrati all’esperienza del ricostruito teatro:

“La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. […] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. […] Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al Re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare; e Napoli è ubriaca di patriottismo. Chi volesse farsi lapidare, non avrebbe che da trovarvi un difetto. Appena parlate di Ferdinando: ha ricostruito il San Carlo, vi dicono, tanto semplice è l’arte di farsi amare dal popolo. Io stesso, quando penso alla meschinità e alla pudica povertà delle repubbliche che ho visitato, mi ritrovo completamente monarchico. […] Il raso azzurro, i fregi in oro, gli specchi sono distribuiti con un gusto di cui non ho visto l’eguale in nessun’altra parte d’Italia.”

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Grazie alla trasformazione stilistica, l’incendio del San Carlo non lasciò alcun rimpianto e segnò la mutazione classicheggiante del gusto architettonico occidentale che, partendo proprio da Napoli con gli scavi vesuviani, accompagnò le trasformazioni stilistiche tra Sette e Ottocento.
Se non vi fu rimpianto, anzi, se l’incendio fu occasione per fare del San Carlo un tempio ancor più bello è perché quello era un mondo in cui l’arte e la cultura in generale erano ancora in evoluzione. Al bello del Barocco superato fu possibile sostituire il bello del Neoclassico alla moda.

L’estetica costruttiva è finita con l’affermazione della società industriale ed è divenuta un nostalgico ricordo dopo la guerra, quando l’Europa, per ripudiare il Nazifascismo, ha optato delittuosamente e opportunisticamente per la semplice costruzione selvaggia, senza architettura e priva di ricerca stilistica del bello.
L’ultimo capolavoro per l’Umanità è la Sagrada Familia di Barcellona, ancora in lenta costruzione sui progetti ottocenteschi di Antonio Gaudì, l’ultimo architetto capace di rivisitare modernisticamente il passato e di lasciare una vera Eredità artistica al futuro.

Ecco perché il rogo di Notre Dame è evento drammatico. Quando brucia un capolavoro così antico, testimonianza di un passato e di una stratificazione d’arte irripetibile, brucia un pezzo di storia dell’umanità. Brucia il nostro miglior percorso fin qui. Brucia qualcosa che appartiene a tutti, non solo alla città che quel capolavoro rappresenta simbolicamente.
Se dopo le barbare devastazioni della guerra, nell’era industriale, è nata l’Unesco è perché ci siamo resi conto che il passato culturale andava necessariamente assicurato al futuro. Non possiamo permetterci di perdere nulla di così significativo perché non siamo più in grado di creare nulla di davvero significativo. E questo deve farci capire il valore umanitario di quel vituperato evo che ci ha dato Notre Dame e quel che questo tempo non riesce a stimolare. Guardino il cuore di Parigi in fiamme e riflettano sul moto emotivo collettivo tutti coloro che a sproposito usano la parola “medioevo”.
Brucia la vera Europa, quella dei popoli, che soffrono compatti per un capolavoro universale in fiamme, non quella della tecnocrazia e delle banche.

Ancelotti e la bellezza di Napoli

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Angelo ForgioneSono il primo a diffidare dalle spesso facili dichiarazioni d’amore per Napoli e a criticare l’assegnazione di medaglie al valore al forestiero che fa abuso del troppo inflazionato slogan “amo Napoli”.
L’ultima delle belle frasi è arrivata da Carlo Ancelotti, i cui apprezzamenti per la bellezza di Napoli (non la sua vivibilità) non li evidenzierei se non li ritenessi spontanei. La dichiarazione resa a Il Mattino («Per capire quanto è bella Napoli dovete aver vissuto prima a Londra, Parigi, Monaco… e dopo capirete») è considerata una furba sviolinata da qualcuno. Chi ha visto il video dell’incontro dei giornalisti del quotidiano napoletano con l’allenatore del Napoli avrà notato che quest’affermazione non è stata sollecitata da una domanda sulla città ma è venuta dopo che gli era stato chiesto se si fosse lasciato bene con quelli del Bayern Monaco. Chi non l’ha visto e lo vedrà, osserverà (al minuto 27:22) che è giunta una risposta evidentemente sarcastica con la quale Ancelotti sottolineava il disappunto nei confronti dei bavaresi. Dopo le risate dei presenti e qualche istante di riflessione, improvvisamente il mister si lanciava, spontaneamente, ad esprimere un concetto che gli era balenato in mente pensando probabilmente alla cordial Baviera: «Volevo dire una cosa su Napoli…».
Se la mia esegesi del pensiero ancelottiano non vi convince, provate allora a vedere cosa ha detto Re Carlo a un amico spagnolo incontrato nella sede dell’UEFA di Nyon che gli ha chiesto come si stesse trovando a Napoli. Altro che operazione simpatia.

Lettera all’UNESCO: “la Juventus non può affiancarvi nella lotta al razzismo”

agnelli_unescoSe non si intende arrestare i cori contro Napoli, che almeno non si faccia paladino della battaglia contro i razzismi chi non lo è.

Lettera inviata all’UNESCO (italiano e inglese)

Gentile Comitato UNESCO,
Gentile Direttrice Generale Audrey Azoulay,

Vi scrivo in merito alla Vostra partnership con lo Juventus Football Club in tema di lotta al razzismo negli stadi.
Recentemente, lo Juventus FC ha subito un turno di squalifica del settore dello stadio occupato dai gruppi di tifosi organizzati per cori di discriminazione territoriale nei confronti di Napoli durante la partita Juventus-Napoli del 29/09/18. Si tratta di cori che si ripetono continuamente un po’ in tutta l’Italia ma più ampiamente nell’impianto sportivo del club torinese, durante ogni partita, non solo quando è in campo il Napoli. I cori invocano tragiche eruzioni del Vesuvio e l’uso del sapone da parte del popolo napoletano, definito “coleroso”, mentre invece ha insegnato l’igiene personale all’Italia e anche oltre, come ci testimonia Miguel de Cervantes con la citazione del “pregiato sapone di Napoli” nel suo Don Chisciotte.
Al termine della partita Juventus-Napoli, l’allenatore bianconero, Massimiliano Allegri, ha risposto ai giornalisti di non aver sentito certi cori, invece ascoltati in modo nitido da tutti i telespettatori a casa. La dirigenza del club ha poi incaricato il suo avvocato, Luigi Chiappero, di presentare ricorso presso la corte sportiva nazionale. Il legale ha definito il comportamento dei tifosi bianconeri “indifendibile”, ma ha contestato la sentenza perché certi cori sono tipici di tante tifoserie e non solo dei tifosi juventini, e infatti altre squalifiche sono state inflitte a diversi club in passato.
La Corte Sportiva Nazionale ha respinto il ricorso della Juventus e ha anche aggravato la sanzione: le gare da disputare con il settore interdetto sono passate a due.
Questo è il club che l’UNESCO ha abbracciato come partner nella lotta al razzismo nei stadi qualche anno fa, e che proprio ieri, sempre in tandem, ha lanciato il video “Football’s power to overcome discrimination” in occasione della campagna promossa da Fare (“Football Against Racism in Europe”), partner UEFA.
Dal sito della Juve, beffa delle beffe nella giornata della figuraccia, si legge che “la Juventus crede nel potere del calcio come strumento di lotta a ogni tipo di discriminazione, legata a sesso, razza, religione, disabilità, età, etnia, origine o status economico (…)”.

http://www.juventus.com/it/news/news/2018/il-calcio-contro-la-discriminazione–juventus-e-unesco-con–footballpeople-weeks-.php

È questo lo stesso club che nell’autunno 2012 non ha preso le distanze dai alcuni sui tifosi e da un giornalista della Rai che, all’esterno dello stadio torinese, prima di Juventus-Napoli, registravano un servizio televisivo in cui si diceva che i napoletani si riconoscono dalla puzza, come i cinesi (La Rai chiese scusa a tutti gli italiani per questo).

www.youtube.com/watch?v=eagfgenZhtc

È lo stesso club che nell’autunno del 2015 ha presentato presso la Vostra sede di Parigi la ricerca Colour? What Colour? (https://www.youtube.com/watch?v=ZbR_4r7A2NY) in cui si legge che “la decisione più saggia sulla discriminazione territoriale consiste forse nel tollerare, temporaneamente, queste forme tradizionali di insulto catartico”.
Definire “catartico” un coro discriminatorio verso altri italiani è vergognoso, così come è vergognoso invitare a tollerarlo perché “tradizionale”.

pag. 73: http://www.juventus.com/media/native/csr/Report%20UNESCO_ita.pdf

Concludendo, Vi chiedo se l’UNESCO si sia reso conto che un club che è suo partner nella lotta al razzismo non contrasta il razzismo dei suoi tifosi verso altri italiani e piuttosto prova a nasconderlo. Questo club, Vostro partner nella lotta al razzismo, ha presentato ricorso contro una sanzione per razzismo e l’ha perso malamente. Questo club è ipocrita e non può essere esempio in tema di discriminazione, soprattutto perché in Italia i cori negli stadi contro i napoletani si ascoltano più di quelli contro i neri.
Vi chiedo infine se vi siete resi conto che una partnership con lo Juventus Football Club è imbarazzante per un’organizzazione mondiale che tutela l’educazione e la cultura.
Un club che finge di lottare contro il razzismo, che non ne prende le distanze, che finge di non sentire i cori contro Napoli, che ricorre contro le punizioni per discriminazione territoriale, che si nasconde dietro a una indegna abitudine diffusa, che è presieduto da un manager squalificato dalla giustizia sportiva per connessioni con tifosi legati alla ‘ndrangheta, come si evince dell’inchiesta “Alto Piemonte”, non può essere partner dell’UNESCO.
Indignato, attendo una Vostra risposta quanto prima.
Cordiali saluti,

Angelo Forgione
Napoli

Dear UNESCO Committee,
Dear Director-General Audrey Azoulay,

I am a journalist and historical writer and researcher, with a special interest in promoting Naples and its culture.
I am writing to you with regard to your partnership with Juventus Football Club concerning the fight against racism in stadiums.
Recently Juventus FC was hit with a one-match closure of the “ultrà” fans’ stand because of territorial discrimination chants against the city of Naples during the Juventus-Napoli game (29/09/18). These chants are continuously repeated all over Italy and to an even greater degree by Juventus fans during every game, not just when SSC Napoli is playing at the Juventus Stadium. The chants refer to tragic eruptions of Vesuvius and call for the use of soap by Neapolitans, defined as “cholera people”, who instead taught personal hygiene to others in Italy and beyond, as Miguel de Cervantes teaches us with the quotation about the “prized soap of Naples” in his Don Quixote.
At the end of the Juventus-Napoli match, Juventus coach Massimiliano Allegri told journalists that he had not heard the chants, which had, however, been clearly heard by all the viewers who had been watching at home. The club’s management then instructed their lawyer, Luigi Chiappero, to appeal to the National Sports Court. The lawyer called the behaviour of the Juventus fans “indefensible”, but he argued against the sentence because certain chants are typical of many clubs’ fans and not just Juventus fans, and in fact other Italian clubs have had stand closures in the past.
The National Sports Court rejected the appeal by Juventus FC and also made the penalty more severe: the number of matches to be played with the stand closed has increased to two.
This is the club that UNESCO embraced as its partner in the fight against racism in stadiums a few years ago. Just yesterday, again jointly, it launched the video “Football’s power to overcome discrimination” as part of the campaign promoted by Fare (“Football Against Racism in Europe”), a partner of UEFA.
On the Juventus site, really taking the biscuit on the day they made fools of themselves, we read that “Juventus believes in the power of football as a tool to fight against any form of discrimination linked to sex, race, religion, disability, age, ethnicity, origin or economic status (…)”.

http://www.juventus.com/it/news/news/2018/il-calcio-contro-la-discriminazione–juventus-e-unesco-con–footballpeople-weeks-.php

It is the same club that in autumn 2012 did not distance itself from some of its fans and a RAI journalist who, outside the Juventus Stadium, before a Juventus-Napoli game, recorded a TV report stating that you can recognise Neapolitan fans from their smell, like the Chinese (Rai apologised to all Italians for this; Juventus did not).

www.youtube.com/watch?v=eagfgenZhtc

It is the same club which in the autumn of 2015 presented the Colour? What Colour? research at your Paris office (https://www.youtube.com/watch?v=ZbR_4r7A2NY), which states that “the wisest decision concerning territorial discrimination would probably be to tolerate for the time being these traditional forms of cathartic insult“.

pag. 73: http://www.juventus.com/media/native/csr/Report%20UNESCO_ita.pdf

To define as “cathartic” a racist chant directed towards other Italians is shameful, just as it is shameful to invite people to tolerate it because it is “traditional”.
In conclusion, I would ask you whether you have noticed that a club that is your partner in the fight against racism is not combatting the racism of its own fans towards other Italians and is instead hiding it. This club, your partner in the fight against racism, appealed against a racism penalty and it went very badly. This club is hypocritical and cannot serve as an example when it comes to discrimination, especially because in Italian stadiums chants against Neapolitans are now heard as often as those against black people.
Lastly, I would ask you whether you have realised that your partnership with Juventus is an embarrassment for a global organisation that safeguards education and culture.
A club which pretends to fight racism, which says nothing to distance itself from it, which pretends not to hear chants against Naples and which appeals against punishments for territorial discrimination, hiding behind a shameful widespread habit, which is chaired by a manager disqualified by the sporting court about link with supporters belonging to the mafia “ndrangheta” in the “High Piemonte” investigation, cannot be a UNESCO partner.
Indignant, I await your prompt reply.

Yours sincerely,
Angelo Forgione
Naples – IT

L’ “archeoporto” di Capodichino premiato a Parigi

L’aeroporto di Capodichino ha ricevuto a Parigi il premio “Aci Europe Award” come miglior aeroporto europeo nella categoria 5-10 milioni di passeggeri. Un riconoscimento che arriva proprio nell’anno dei record: abbattimento del muro dei sei milioni di visitatori (con previsione di sfondamento dei sette), incremento dei collegamenti internazionali e approdo delle prime due compagnie aeree low cost per importanza.
Il premio è stato consegnato dai vertici Aci Europe (Associazione Europea degli Aeroporti) durante una cerimonia ufficiale. La motivazione è chiara: «Per i significativi miglioramenti all’aeroporto per l’esperienza dei passeggeri, per la valorizzazione dei beni artistici-culturali e l’incentivo alla promozione e valorizzazione turistica del territorio». Merito, dunque, dell’installazione di un itinerario archeologico nella zona arrivi-partenze, unico nel suo genere nel mondo, sei statue tra originali e copie prestate dal Museo Archeologico Nazionale tramite un accordo di collaborazione tra il direttore Paolo Giulierini e Gesac che ha fatto di Capodichino uno scalo-museo.
Il premio per il migliore aeroporto nella categoria oltre i 25 milioni di passeggeri è andato all’aeroporto Barajas di Madrid. Quello di Alicante si è aggiudicato il riconoscimento tra i 10-25 milioni di passeggeri. L’irlandese Cork miglior aeroporto con meno di 5 milioni di passeggeri all’anno.

Il ‘Premio Fonseca’ e la commemorazione neogiacobina

Angelo Forgione Anche quest’anno, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, insieme all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, propone per il 20 agosto la cerimonia di commemorazione dei martiri del 1799, intrecciandola alla seconda edizione del Premio Pimentel Fonseca “simbolo dei diritti umani e di libertà”, dedicato all’impegno e al coraggio delle donne che svolgono la professione di giornalista.
Anche quest’anno, dopo il confronto con l’assessore Nino Daniele dello scorso settembre, ribadisco con convinzione che è giusto ricordare gli eventi drammatici che posero fine alla Repubblica Napolitana, ma ciò andrebbe fatto ricordando anche le vittime del popolo. La “rivoluzione” partenopea non fu promossa dal popolo napoletano bensì dalle milizie francesi, che rubavano soldi e opere d’arte alla Città. I saccheggi di monete nascondevano il bisogno parigino di danaro dettato dalle mancate entrate a partire dalla grande Rivoluzione del 1789. Persino l’Ercole Farnese fu imballato e approntato per andare a Parigi, fortunatamente invano. La Fonseca sapeva, tant’è che sul giornale ‘Monitore napoletano’, da lei diretto, denunciò le ruberie degli “amici” d’oltralpe, tra cui la sottrazione di tutte le collane d’oro dispensate ai cavalieri del Toson d’Oro commessa dal comandante della piazza di Napoli Antonio Gabriele Venanzio Rey. I tesori confluivano a Livorno, da dove prendevano la strada di Marsiglia e, attraverso il Rodano, la Saona e il sistema dei canali fluviali, giungevano fino alla Senna di Parigi. Lei e tutti i repubblicani napoletani stettero a guardare.
Il terribile esercito francese, il più forte d’Europa, tra grandi resistenze, entrò a Napoli anche grazie agli amici della Fonseca, che da Castel Sant’Elmo aprirono il fuoco alle spalle degli irriducibili napoletani intenti ad assaltare il Palazzo Reale. Popolo che si riprese la città dopo neanche sei mesi di astrattezza politica e immobilismo giacobino, contando migliaia di vittime. I giacobini napoletani avevano perso la copertura dal potente esercito francese, via dall’Italia dopo gli affanni di Napoleone in Egitto.
Fu vera rivoluzione? Macché! Fu un colpo di stato. È rivoluzione un evento politico agitato dal popolo che muta radicalmente le abitudini, un processo in cui le forze sociali spingono in una direzione precedentemente inesistente e obbligano le strutture governative a rompersi per contenere la nuova forma. La vera rivoluzione fu quella dei sanfedisti, una feroce controinsurrezione popolare per porre fine al momentaneo potere aristocratico e per ripristinare lo status quo. Il perpetuarsi nel tempo della definizione di “rivoluzione” per esaltare il colpo di stato di un’agiata e colta minoranza napoletana sobillata da qualche straniero venuto da Copenaghen (nel mio prossimo libro farò i nomi e spiegherò gli intenti; ndr), è frutto di un esercizio storicistico operato da certe sfere dell’intellighenzia napoletana, ancora oggi vincolata all’ideale massonico risorgimentale.
Il popolo è sovrano, a quanto pare, e quello napoletano non si schierò coi giacobini ma col Re, nato a Napoli e napoletanissimo, quando comprese che quelli non portavano democrazia ma sottraevano ricchezze e intendevano cancellare usi e costumi locali. Dunque, ricordiamo pure le centinaia di decapitazioni tra la borghesia partenopea ma anche le dimenticate migliaia di morti tra il popolo napoletano… in nome dei diritti civili e della libertà. Finché continueremo a raccontare la storia a metà, a metà resteremo divisi, e mai costruiremo quella coscienza di popolo che manca. Se a rendersene responsabile è il Comune di Napoli, non è proprio cosa lieve.

(nell’immagine, tratto dal mio libro Made in Naples, una delle tante lettere che il generale Championnet scrisse da Napoli al ministero dell’interno del Direttorio di Parigi, pubblicata nel 1904 nei Souvenirs du général Championnet)

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1864, Napoli capitale d’Italia. Ma Vittorio Emanuele II disse «no».

Angelo Forgione  Tra gli ideali che ispirarono l’Unità italiana, quello laicista fu sicuramente uno dei più importanti. Rifacendosi alle più avanzate nazioni protestanti europee, gli artefici dell’annessione di Napoli e Roma al Regno d’Italia piemontese dovevano rendersi protagonisti della diffusione di un’ideologia svincolata dalla fortissima tradizione cattolica d’Italia, e contribuire ad allentare lo stretto rapporto con la Chiesa di Roma che aveva sempre caratterizzato la vita degli stati italiani.
A preservare l’autorità del Papa ci pensò un francese, non un italiano. Napoleone III, imperatore di quella Francia “figlia primogenita della Chiesa” piena di cattolici e di un consenso da preservare, piazzò le sue truppe in territorio romano mentre il Piemonte incamerava parte dello Stato Pontificio, e fu un bel problema per Garibaldi ma anche per  la pletora sabauda. Vi era bisogno di tutta la scaltrezza piemontese per risolvere la rogna, anche perché la posizione geografica di Torino, troppo vicina al confine nemico, la condannava a non essere per troppo tempo la capitale d’Italia. Le trattative diplomatiche portarono alla Convenzione di settembre del 1864, con cui il Re di Francia si impegnò a ritirare gradualmente i suoi uomini in cambio dell’impegno a non invadere il territorio pontificio. A garanzia degli impegni presi dai piemontesi, il sovrano francese impose il trasferimento della capitale in un’altra città, cosa che avrebbe dovuto provare la definitiva rinuncia alle seducenti mitologie di Roma capitale dell’Italia laica. I piemontesi miravano semplicemente a far sloggiare i garanti di Pio IX, per poi rompere i patti alla loro maniera. C’era solo da rinunciare in anticipo ai ministeri di Torino, alle ambasciate e ai fiumi di danaro pubblico, e da affrontare la rivolta dei cittadini torinesi, convinti che in assenza di Roma dovesse farne le veci solo la loro città, ormai pienamente interessata dagli investimenti per l’edilizia espansiva. Sommossa repressa nel sangue di cinquantacinque uomini disarmati, ma ormai tutto era già deciso: la capitale doveva trasferirsi altrove. Furono proposte Firenze, sostenuta dal Consiglio dei generali perché non esposta all’aggressione marittima, e Napoli, preferita dal consiglio dei ministri in quanto maggior metropoli italiana, lontana dal confine e meno esposta a un eventuale intervento austriaco richiesto dal Papa, ex capitale rispettata in Europa, la terza più popolata del Continente e già pronta a ricevere i dicasteri senza necessità di grandi spese, città di cultura degna delle grandi capitali europee. Tale scelta, secondo i sostenitori dell’ipotesi, avrebbe potuto contribuire a sradicare il brigantaggio meridionale che metteva a rischio la compattezza geografica. Prevalse la piccola Firenze, ma la volontà fu più che altro sovrana. Vittorio Emanuele II sapeva quanto fosse rilevante il peso di Napoli agli occhi dell’Europa e cercò di evitare che tornasse capitale. Il Re, invitato ad esprimere il suo pesante parere ai ministri, indirizzò la scelta verso la città toscana:

«Andando a Firenze, dopo due anni, dopo cinque, anche dopo sei se volete, potremo dire addio ai fiorentini e andare a Roma; ma da Napoli non si esce; se vi andiamo, saremo costretti a rimanerci. Volete voi Napoli? Se ciò volete, badate bene, prima di prendere la risoluzione di andare a stabilire la capitale a Napoli, bisogna prendere quella di rinunziare definitivamente a Roma.»

Tutti a Firenze! Una città di poco più di centomila abitanti invasa dalle istituzioni, dal Parlamento, dal Re, dalla corte e di tutto ciò che necessitava una capitale. Trentamila burocrati piemontesi a sconvolgerne le abitudini, le tradizioni e l’urbanistica. Ma gli uomini del “Re Galantuomo”, che gli accordi li prendevano per romperli, attesero che Roma fosse defrancesizzata e, dopo cinque anni e mezzo, invasero lo Stato Pontificio. Pio IX si ritirò in Vaticano, dichiarandosi “prigioniero d’Italia” fino alla morte, e si rifiutò di riconoscere la legge delle Guarantiglie, con cui il Regno d’Italia dei Savoia intese regolare i rapporti con la Santa Sede. Il Pontefice vietò ai cattolici di partecipare all’attività politica italiana e scomunicò tutti coloro che avevano partecipato al processo risorgimentale, a partire dai Savoia, ma si trovò di fronte l’ambigua figura di Vittorio Emanuele II, ricorso ai poteri forti d’Europa e alla Massoneria internazionale per coronare l’unificazione nazionale anche contro il Cattolicesimo, nonostante fosse riconosciuto religione di Stato dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del Regno di Sardegna, poi esteso all’Italia unita. Pio IX scomunicò il primo re d’Italia per ben tre volte lungo l’arco della sua trono tricolore, ma ritirò il provvedimento nel 1878, in punto di morte del baffuto piemontese, inviando un sacerdote al suo capezzale per impartirgli l’assoluzione, poiché il primo sovrano dello stato nazionale italiano, comunque cattolico, non poteva e non doveva morire senza sacramenti.
Il Vaticano e l’Italia restarono separati in casa fino all’avvento del Fascismo, nel primo Novecento, mentre a rappresentare il rafforzato potere laico contrapposto alle forze conservatrici e clericali ci pensò la Massoneria. Il Potere temporale fu in qualche modo riabilitato dai negoziati tra Benito Mussolini e Pio XI, culminati nei Patti Lateranensi, con cui fu siglato un reciproco riconoscimento tra Regno d’Italia e Stato Vaticano. Fallita sul nascere la creazione di un Paese condiviso e giusto, naufragava  anche lo scopo fondante di sradicare la sua appartenenza religiosa.

Jean-Noël Schifano: «Anche sotto la Torre Eiffel vedo il Vesuvio»

presentazione_schifanoJean-Noël Schifano ha presentato il suo nuovo lavoro, Chroniques napolitaines III – Encore un tour autour de la vie (Gallimard), all’Istituto francese di Napoli ‘Grenoble’ di via Crispi, una delle sue case sotto il Vesuvio. La serata è stata introdotta dal Console generale di Francia, Jean-Paul Seytre, e dall’Assessore alla cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele.  Momento intenso il “siparietto” con uno dei relatori, lo psichiatra Salvio Esposito, una cui riflessione ha dato la stura allo scrittore francese per un’ennesima dichiarazione d’amore per Napoli.
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«Io sto a Napoli anche quando non sto a Napoli. Io sono sempre a Napoli, anche sotto la Torre Eiffel, nostalgicamente. Anzi, non vedo la Torre Eiffel; vedo il Vesuvio. Mi ci sono voluti sette anni per entrare nel movimento perpetuo di quello che chiamo “barocco esistenziale” di Napoli. Non posso capire il mondo senza Napoli. Non posso capire l’umanità senza un esempio napoletano. Napoli fa parte di ogni mio battito di cuore, è l’alfa e l’omega della mia vita. Se non potessi vedere più Napoli morirei subito.»
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Una recensione del libro, a cura di Donatella Gallone, relatrice al ‘Grenoble’ insieme a Stella Cervasio de la Repubblica, è disponibile sul sito ilmondodisuk.it. Degli scenari storici, Schifano ha parlato con Gino Giammarino per la striscia settimanale di informazione meridionalista Brigantiggì.

Esposto a Parigi il presunto Caravaggio napoletano ritrovato

caravaggio_napoletanoAngelo Forgione Un’abitazione di contadini di Tolosa perde acqua e la riparazione porta alla luce un dipinto del Seicento perfettamente conservato, nascosto nell’intercapedine del sottotetto. È accaduto nel 2014 ma solo ora il quadro è stato mostrato alla stampa, per la prima volta, a Parigi. Potrebbe trattarsi dell’opera Giuditta che decapita Oloferne dipinta a Napoli dal Caravaggio nel 1604 e poi andata dispersa. In attesa delle perizie che potrebbero portare all’attribuzione, il Ministero della Cultura francese ha disposto che la tela non esca dal territorio nazionale. Se dovesse essere del Merisi, potrebbe avere un valore di 120 milioni di euro.
L’attribuzione sarebbe confermata da una copia dell’epoca realizzata da Louis Finson, appartenente alla collezione del Banco di Napoli ed esposta a Palazzo Zevallos di Stigliano a Napoli. L’esistenza dell’originale sarebbe nominata proprio nel testamento del pittore fiammingo, nato a Bruges e morto ad Amsterdam, che trascorse alcuni anni a Napoli e fu amico stretto del Caravaggio.
Ma come è andato disperso il quadro napoletano del grande artista lombardo? Il Merisi dipinse la prima Giuditta che decapita Oloferne a Roma nel 1602, oggi conservata a Palazzo Barberini. Nel 1606 scappò dai territori vaticani per un omicidio commesso e approdò a Napoli. Qui si perfezionò frequentando le accademie scientifiche napoletane, le uniche che approfondivano segretamente le conoscenze anatomiche proibite dalla Chiesa. Caravaggio produsse molte opere in città e fecondò la pittura barocca del Seicento. Nel 1607 dipinse nuovamente la Giuditta che decapita Oloferne, nella versione napoletana. Poco dopo partì per Malta e lasciò delle opere ai suoi amici nordici Louis Finson e Abraham Vinck, pittori, anche loro interessati alla pittura locale. Uno di quei dipinti era proprio la Giuditta che decapita Oloferne. Tornando da Malta, Caravaggio ripassò per Napoli, dove apprese di aver avuto la grazia dal Papa, cosa che gli consentiva di rientrare a Roma. Prese alcuni quadri da donare al Pontefice e affidò ai suoi amici pittori a Napoli alcune opere da conservare, tra cui Giuditta e Oloferne, che avrebbe ritirato tornando in seguito a Napoli. Ma a Napoli non sarebbe più tornato e quelle opere non le avrebbe mai riprese. Finson realizzò una copia del dipinto sicuramente non prima del 1607, a Napoli, e poi lasciò la città, portandosi via i quadri del Caravaggio. ormai morto. Da allora del Giuditta e Oloferne si persero le tracce.
Nel 1957, dalla collezione del Banco di napoli, spuntò la copia del dipinto di Finson, oggi in mostra a Palazzo Zevallos di Stigliano. E poi, nel 2014, il ritrovamento di Tolosa.
Per Nicola Spinosa, grande esperto d’arte, di pittura napoletana e di Caravaggio (ex soprintendente del Polo Museale di Napoli), nel quadro ritrovato a Tolosa è evidente la mano del Merisi. C’è invece chi ritiene che non si tratti affatto di Caravaggio, come Daniele Radini Tedeschi, altro specialista del Merisi, che la accosta più ai suoi discepoli napoletani per via di una marcata impronta satirica. In ogni caso, il dipinto potrebbe appartenere a Napoli, dove fu fecondata la pittura del Seicento e dove, a differenza di altre città, gli artisti avevano la possibilità di migliorare le conoscenze anatomiche. Se la provenienza partenopea fosse accertata, sarebbe auspicabile che il Governo italiano si attivi affinché l’opera sia restituita a Napoli (già spogliata di opere d’arte da giacobini e napoleonidi). Caravaggio o epigono che sia.

L’onestà di Felicori e la gaffe di Cecchi Paone su Caserta

Angelo Forgione – Sulla scia della cena di Marcianise, il direttore della Reggia di Caserta Mauro Felicori sta vivendo un momento di gran notorietà. Accolto come una star nella puntata del 9 marzo de La Vita in Diretta (Rai Uno), con stupore leggibile nella sua espressione quando da Marco Liorni lo ha annunciato come «l’uomo di cui si parla di più in Italia negli ultimi giorni». Inutile rilevare come anche il conduttore abbia ricalcato pedissequamente l’accusa mai rivolta al dirigente museale più noto del Paese «di lavorare troppo», con enfasi prima funzionale alla politica e ora allo spettacolo. E poi la domanda delle domande: «Non ho capito come ha fatto a far aumentare gli ingressi alla Reggia. Che è cambiato?». Il fatto è che non è stato Felicori a far crescere gli ingressi alla Reggia, dove poco è cambiato, a parte restauri di facciate in corso avviati tempo fa, e il Direttore lo sa bene, come bene sa che l’incremento dei visitatori è un fenomeno rilevato ben prima del suo insediamento, ed è un trend al quale lui stesso non riesce a trovare una propria influenza diretta: «Onestamente, in cinque mesi, io ho potuto fare ben poco a livello strutturale. Noi lavoriamo molto sulla comunicazione, io sono attivissimo in Facebook e la nostra pagina ufficiale ha 116mila persone che ci leggono tutti i giorni. E poi, con la riforma Franceschini, si parla molto di beni culturali in tivù. Ma questi dati vanno consolidati e pure incrementati, perché la Reggia fa solo mezzo milione di visitatori quando Versailles ne fa sette». Onesto Felicori, conscio che il trend positivo dei musei, da quando sono state istituite le prime domeniche del mese gratuite, non riguarda solo Caserta ma è complessivo, a giudicare dai dati del MiBact. Su Caserta, poi, come su tutta la Campania, seconda regione nazionale per bigliettazione museale, confluiscono anche le tantissime persone che negli ultimi anni stanno riscoprendo una parte della propria luminosa storia per troppo tempo nascosta e vilipesa, e lo stanno facendo attraverso la fioritura di saggistica e scritti in cui la Reggia di Caserta viene descritta per il suo valore universale e per gli incredibili significati che contiene, fino a qualche tempo fa nascosti, ma anche attraverso l’attività sui social network di scrittori meridionalisti e movimenti identitari. È principalmente questo il motore da cui si è accesa la voglia di scoprire la Reggia vanvitelliana e tutte le meraviglie della Regione, pure assecondata dalle politiche del Ministero ai Beni Culturali, sicuramente più impegnato nella sensibilizzazione rispetto al passato; un dicastero retto da Dario Franceschini, che ha ereditato il gran lavoro di Massimo Bray, apprezzato predecessore che ha dato una forte scossa alla comunità con l’acquisizione della Reggia di Carditello, finalizzando la sensibilizzazione di quegli scrittori e di quei movimenti, e rendendo merito ai Borbone di Napoli e onore alla memoria di Tommaso Cestrone. Mettiamoci infine la visita alla Reggia di Renzi a gennaio, coperta mediaticamente in modo capillare, ed ecco che anche i primi mesi del 2016 hanno fornito un’impennata di afflusso pari al 70% in più rispetto ai primi mesi del 2015. È spiegato così l’incremento dei visitatori degli ultimi anni nella meraviglia plasmata da Luigi Vanvitelli, e Felicori è perfettamente cosciente che non può avere troppi meriti con pochi mesi di direzione, a prescindere dalla sua permanenza nella struttura fino a tarda ora, magari interagendo su Facebook, e che il suo lavoro dovrà servire per risolvere i problemi di cui la Reggia continua a soffrire.
A proposito di Vanvitelli, dopo aver ascoltato le nozioni di Alessandro Cecchi Paone, presente in studio durante il collegamento con Caserta, sarebbe il caso che il prossimo visitatore della Reggia sia proprio Cecchi Paone. «Lei ha fatto bene a ricordare Versailles. Molti si dimenticano che la Reggia di Caserta è identica a quella di Parigi, con lo stesso tipo di struttura e con lo stesso architetto». Informazioni sballate distribuite al popolo italiano. Versailles è antecedente a Caserta, ed è in stile barocco francese del Seicento, realizzata da vari architetti (Hardouin Mansart, Louis Le Vau, Ange-Jacques Gabriel e André Le Nôtre). Caserta fu un immenso cantiere di squadra guidato da Luigi Vanvitelli, architetto del Settecento, esponente prima del Barocco italiano e poi capostipite del Neoclassicismo napoletano, sperimentato proprio nella Reggia, che è un ibrido dei due stili, mentre studiava l’archiettura classica degli scavi vesuviani appena scoperti dai Borbone. Versailles era esclusivamente una sfarzosa comodità della corte borbonica di Parigi, mentre Caserta fu pensata anche come cittadella amministrativa polifunzionale, con sole 150 stanze delle 1200 occupate dalla Corte di Napoli, e le restanti destinate alle truppe e agli uffici amministrativi.