––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione – Il 5 giugno del 1224, dalla Sicilia, Federico II Hohenstaufen sanciva la fondazione a Napoli di una Universitas studiorum, l’Università degli studi, la prima laica e pubblica del mondo occidentale, di fatto la prima vera università statale, aperta a tutti e non solo a una ristretta cerchia di studenti facoltosi in grado, come accadeva a Bologna, di organizzarsi privatamente e pagarsi i docenti.Con l’Università di Napoli nacque il termine facultas, facoltà, cioè facilità, intesa come diritto esteso a tutti di intraprendere gli studi.Nell’editto scritto in latino dallo Svevo, pubblicato esattamente 797 anni fa, si leggeva l’intenzione del Re di Sicilia.
Disponiamo perciò che nell’amenissima città di Napoli vengano insegnate le arti e coltivati gli studi connessi con ogni professione, così che i digiuni e gli affamati di sapere trovino nel nostro Regno di che soddisfare i propri desideri e non siano costretti, per ricercare la conoscenza, a peregrinare e a mendicare in terra straniera. Agli studenti concediamo di venire a vivere in quel luogo dove ogni cosa è in abbondanza, dove le case sono sufficientemente grandi e spaziose, dove i costumi di tutti sono affabili e dove si trasporta facilmente per mare e per terra quanto è necessario alla vita umana.
Da 30 anni circa, l’Università di Napoli porta il nome di colui che ne volle l’istituzione in una città che non era capitale del Regno ma che fu scelta per la sua posizione geografica, decisamente vantaggiosa rispetto a Palermo, promettendo tutte le facultas possibili a coloro che avrebbero voluto frequentarla, tra cui delle convenzioni con gli alloggi per “una pensione di due once d’oro senz’altri carichi”.Era, quel laico sovrano, un illuminista del 13° secolo, protettore di arte e letteratura, attrattore di cultura greca, latina, araba ed ebraica, conoscitore di sei lingue, per questo detto stupor mundi. Alcuni storici gli hanno addebitato una eccessiva pressione fiscale che avrebbe provocato la rovina dell’economia meridionale, ma, come scrisse il cronista inglese Matthew Paris alla sua morte, “Federico II fu il più grande principe del pianeta e anche colui che stupì e cambiò il mondo”.
Scelse Napoli, che, se si eccettua Salerno con la sua Scuola Medica, rimase l’unica città meridionale sede di studi universitari anche fin dopo l’unità d’Italia, quando l’Ateneo risultava terzo in Europa per numero di iscritti, dopo quelli di Berlino e Vienna. Fattore importante e costante per l’importanza della città, che contribuì alla sua crescita demografica e al raggiungimento del suo prestigio di città capitale, attraversando 797 anni di grande storia di Napoli e del Sud.
Angelo Forgione – 130mila metri quadri di prato con tre viali che verticalizzano sul portico/cannocchiale ottico della Reggia di Caserta. È l’antica piazza d’armi, oggi piazza Carlo di Borbone, un’ellisse progettata da Luigi Vanvitelli nella seconda metà del Settecento come piazza totalmente recintata per le parate e sistemata dal figlio Carlo nel primo Ottocento.
È la piazza più grande d’Italia, a prescindere dalla funzione pubblica che ricopre. Dietro, tre piazze di Milano, ovvero piazza Castello (95mila mq), largo Marinai d’Italia (78mila mq) e piazza della Repubblica (73mila mq), inframezzate dalla terza piazza più ampia della Penisola: Prato la Valle a Padova (88mila mq). Chiude la top 6 il largo più grande di Napoli, che non è il noto Plebiscito bensì la piazza Garibaldi (70mila mq). L’antico Largo di Palazzo, infatti, è sì il più bello e famoso dell’ex capitale partenopea ma solo il quarto spazio cittadino per estensione. “Soli” 25mila mq, circa un quinto dell’immenso piazzale casertano, costruito per volontà sovrana dei Borbone di Napoli quando Caserta, sostanzialmente, non c’era. Sorse disordinatamente a sud della Reggia senza seguire i dettami urbanistici che lo stesso Vanvitelli aveva pensato e disegnato nel progetto generale. E state certi che sarebbe stata bellissima.
Piazze italiane oltre i 20mila mq di estensione
1) Piazza Carlo di Borbone – Caserta (130.000 mq)
2) Piazza Castello – Milano (95.000 mq) 3) Piazza Prato la Valle – Padova (88.600 mq) 4) Largo Marinai d’Italia – Milano (78.500 mq)
5) Piazza della Repubblica – Milano (73.500 mq)
6) Piazza Garibaldi – Napoli (70.000 mq)
7) Piazza del Campo del Palio – Asti (66.000 mq)
8) Spianata del Foro Italico – Palermo (62.500 mq)
9) Piazza Dante – Livorno (59.000 mq)
10) PIazza Vittorio Emanuele II – Roma (55.000 mq)
11) Piazza del Colosseo – Roma (45.500 mq)
12) Piazza dei Cinquecento – Roma (45.000 mq)
13) Piazza del Municipio – Napoli (42.000 mq)
14) Piazza Castello – Torino (35.000 mq)
15) Piazza san Giavanni in Laterano – Roma (33.000 mq)
16) Piazza Mercatale – Prato (33.000 mq)
17) Piazza Vittorio Veneto – Torino (31.000 mq)
18) Piazza d’Azeglio – Firenze (30.000 mq)
19) Piazza Duomo – Milano (28.500 mq)
20) Piazza Mercato – Napoli (28.000 mq)
21) Piazza Libertà – Salerno (27.000 mq)
22) Piazza del Plebiscito – Napoli (25.500 mq)
23) Piazza Bra – Verona (25.000 mq)
24) Piazza Duccio Galimberti – Cuneo (24.000 mq)
25) Piazza della Magione – Palermo (22.200 mq)
Fa bene il grande direttore d’orchestra a reclamare la centralità culturale di Napoli, l’unica città ad aver dialogato con Parigi, Vienna, Londra, Madrid e San Pietroburgo, e poi con le Americhe e pure con l’Oriente.
Fa bene, perché, come scrivo in Napoli Capitale Morale, “occorre trasformare la menzogna in verità, e convertire il rancore in fierezza. Occorre sapere, ascendere dal ventre molle al raziocinio e disincagliarsi dalla soffocante ignoranza, per troppo tempo coltivata e distribuita in un’Italia separata dalle sue nobili radici”.
Angelo Forgione – Si dà per scontato che Roma, la capitale d’Italia, il centro del mondo antico, sia sempre stata la città più popolosa e grande della Penisola. E invece non è così. Nel mondo rinascimentale le stavano avanti Napoli, Milano, Genova e Venezia, ed era alla pari di Palermo e Bologna. La vetta fu raggiunta solo col censimento del 1936, superando Milano, che a sua volta aveva superato Napoli, la città che per secoli aveva detenuto il primato assoluto e lo status di capitale, non solo demografica, dell’Italia politicamente disunita. Il grande centro campano, nel 1600, era stato addirittura il primo d’Occidente e secondo del Mediterraneo (dopo Costantinopoli), perdendo la posizione per effetto dell’epidemia di peste del 1656 che dimezzò improvvisamente la popolazione. Il suo scarto su Roma e Milano, pure quest’ultima falcidiata dalla peste del 1630, era stato sempre ampio, e aveva raggiunto l’apice nei pieni fulgori borbonici che ne avevano fatto centro di inclusione, meta di intellettualità e una delle più importanti capitali culturali d’Europa, la terza città più popolosa del Continente, dopo Londra e Parigi. Nel 1860, alla vigilia dei plebisciti di annessione del Sud al Regno di Sardegna dei Savoia, Napoli fu così descritta in parlamento dal deputato e filosofo milanese Giuseppe Ferrari, contrario alla piemontesizzazione d’Italia:
“Ho visto una città colossale, ricca, potente […]. Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nel agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle Nazioni. […] Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che sia data a voi, che si dia a Torino. Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico lo vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalle volontà individuali, il vostro principio conduce alla confisca immediata e incondizionata della più grande delle città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di Napoli.”
All’ombra del Vesuvio si superavano abbondantemente i quattrocentocinquantamila abitanti, ovvero le popolazioni di Milano e Torino messe insieme, e qualcosa in più. La piemontese, decisamente modesta, in assenza di Roma, divenne la prima capitale d’Italia, ed era persino cresciuta tra il 1800 e il 1861, da piccolo centro a capitale del Regno di Sardegna, triplicando la sua popolazione. Quando, per effetto della Convenzione di settembre del 1864, la capitale dovette essere spostata da Torino, il ruolo fu conteso da Firenze e dalla grande Napoli, la città più affollata e rappresentativa del Paese. Troppo rischioso per il re Vittorio Emanuele II, il quale, consapevole della non ancora sopita rilevanza dell’ex capitale borbonica, evitò che la città conquistata tornasse ad essere capitale, scongiurando difficoltà future in vista della conquista di Roma. Il suo influente parere ai ministri fu eloquente:
“Andando a Firenze, dopo due anni, dopo cinque, anche dopo sei se volete, potremo dire addio ai fiorentini e andare a Roma; ma da Napoli non si esce; se vi andiamo, saremo costretti a rimanerci. Volete voi Napoli? Se ciò volete, badate bene, prima di prendere la risoluzione di andare a stabilire la capitale a Napoli, bisogna prendere quella di rinunziare definitivamente a Roma”.
Fu fatta capitale Firenze, una città di duecentomila abitanti, quando Napoli ne contava quasi cinquecentomila. In seguito la corte savoiarda si infilò a Roma per renderla definitiva Capitale e cacciarne il Potere temporale. Attorno al Colosseo vivevano duecentomila persone, quanti a Firenze. Solo da lì, la città laziale, cuore della politica nazionale circondato da campagne vergini, iniziò a crescere urbanisticamente e demograficamente.
Napoli restò la più affollata città d’Italia fino al censimento del 1931, quando, per effetto delle politiche del Regno d’Italia, persa la sua capacità di inclusione sociale e iniziato il fenomeno migratorio, finì per essere sopravanzata da Milano e, in un colpo solo, anche da Roma, la capitale in grande espansione, destinata a diventare la grande metropoli che conosciamo. La perdita del secolare primato demografico significò, per la città del Vesuvio, il tramonto dell’ultima eredità dell’antico prestigio e l’insorgere della nostalgia per il ruolo di città più rappresentativa del Paese, sottrattole nell’immediato periodo post-unitario.
(per approfondimenti: Napoli Capitale Morale – ed. Magenes)
«Quando parla Forgione di Napoli è una bella boccata d’ossigeno».
Lusinghiero complimento di Salvatore Calise durante una piacevolissima chiacchierata su Napoli, la sua cultura e la sua identità al Mattin8 (Canale 8).
Martedì 22 gennaio, ore 20:30, presentazione del libro Napoli Capitale Morale con cena presso il locale Vincanto di Pompei (Via Nolana 89, 80045 Pompei – NA).
Dopo la chiacchierata sui temi del libro, cena con l’autore.
Menu incluso nel prezzo:
– crostini con presidi Slow Food e prodotti dell’Arca del Gusto;
– antica pagnottella pompeiana di farro e orzo farcita con pancetta e friarielli;
– calice di vino Pallagrello (il preferito da Re Ferdinando IV di Borbone).
Costo della serata: € 20 (nel prezzo è inclusa una copia del libro)
Angelo Forgione – Che Napoli fosse l’unica città d’Italia degna di rappresentare veramente la sua capitale lo disse il francese Charles de Brosses nel 1740.
Che fosse la più grande capitale italiana, con monumenti splendidi degni delle prime capitali d’Europa, lo disse il milanese Giuseppe Ferrari nel 1860.
Che le si dovesse preferire la piccola Firenze nel ruolo di capitale d’Italia, perché dall’importante città vesuviana non si sarebbe potuto più uscire e si sarebbe dovuto rinunciare definitivamente a Roma, lo disse il piemontese Vittorio Emanuele II nel 1864.
E però un napoletano, Ruggero Bonghi, nel 1881, nel nascente “triangolo industriale” della nascente industria d’Italia, disse che Milano era la capitale morale, per decretarne la superiorità industriale sulla rivale Torino. E allora la capitale culturale iniziò a vivere all’ombra del duplice mito, quello della capitale morale dell’economia, appunto, e quello della capitale reale.
Ma Napoli capitale morale della Cultura ha resistito all’impoverimento d’Italia, strappata alle sue nobili radici, e persino alla soffocante ignoranza di chi, napoletani compresi, non sa. E pochi non sono.
“È l’unica capitale che abbiamo, un punto fondamentale per la cultura diffusa che scarseggia in Italia”, ha detto Cristina Comencini.
“La vera regina delle città, la più signorile, la più nobile. La sola vera metropoli italiana”, ha detto Elsa Morante.
E si potrebbe continuare a lungo, fino a Francesco De Gregori.
Angelo Forgione – Al IV Forum Internazionale della Cultura di San Pietroburgo, il 15 novembre 2018, è andata in scena la Napoli del Settecento e la sua Scuola Musicale, che in quel periodo fu capace di plasmare uno stile musicale che si diffuse rapidamente nelle corti europee e fece esplodere nell’immaginario culturale ed estetico d’Europa un vero e proprio “mito di Napoli”.
Raffinati musicisti e compositori come Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa e Tommaso Traetta si recarono proprio a San Pietroburgo, chiamati a lavorare alla corte di Caterina II, consacrando la loro fama internazionale e testimoniando l’attrattiva assoluta che l’Opera napoletana esercitava su tutte le corti europee. L’imperatrice russa amava tantissimo i musicisti napolitani, una volta concluso il loro lavoro alla corte di San Pietroburgo, regalò loro un prezioso “pianoforte a tavolo”, oggi di proprietà del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Ed è stato proprio questo strumento, riportato per la prima volta in Russia, a risuonare nelle stesse sale di più di due secoli fa, durante un concerto con la partecipazione di alcuni musicisti napoletani, sulla scorta di alcune rarissime partiture dei celebri compositori Napolitani.
Una nuova riscoperta degli ottimi rapporti diplomatici tra il Regno di Napoli e l’Impero di Russia e di un dialogo mai interrotto tra due grandi ex-capitali, riunite da una filo di note musicali per rievocare uno stretto scambio artistico, culturale e commerciale dal tempo di Caterina II fino a quello di Ferdinando II.
servizio per il Tg3 Rai di Marc Innaro
Tratto da NAPOLI CAPITALE MORALE:
“L’unico dialogo internazionale del Borbone fu mantenuto con l’autoritario Zar Nicola I di Russia, affettuosamente ospitato a Napoli alla fine del 1845 per consentire alla malata zarina Aleksandra Fëdorovna di giovarsi del clima della Sicilia, e grato nel ricambiare con due pregevoli cavalli di bronzo con palafrenieri, identici alle statue di ornamento del ponte Aničkov di San Pietroburgo, che erano stati sistemati all’ingresso dei giardini del Palazzo Reale, di fianco al San Carlo. Del resto, gli ottimi rapporti diplomatici tra i due paesi risalevano al 1777 e Napoli era già la culla dei migliori talenti russi della musica, della pittura e della scrittura. Giovanni Paisiello, Tommaso Traetta e Domenico Cimarosa, nel secondo Settecento, erano stati maestri di cappella e direttori dei Teatri imperiali della capitale russa, recentemente resa neoclassicheggiante dall’architetto di origine napoletana Carlo Domenico Rossi, naturalizzato e russificato Karl Ivanovič perché figlio di una ballerina russa di scena a Napoli. Al teatro Alexandrinsky, intitolato alla zarina e realizzato dal Rossi con facciata molto somigliante a quella del San Carlo di Niccolini, andavano in scena i successi napoletani, ma il gemellaggio culturale divenne anche commerciale, cosicché a Kronstadt, una località isolana di fronte San Pietroburgo, fu clonata la fabbrica siderurgica di Pietrarsa, visitata e tanto ammirata dallo Zar, mentre a Napoli giunsero grandi forniture di eccellente grano duro russo di tipo Taganrog per le pregiate lavorazioni della pasta.”
Approfondimenti sulla Scuola Musicale Napoletana del Settecento anche su Made In Naples (Magenes) e Napoli Capitale Morale (Magenes).
Angelo Forgione – A dicembre 2018, il quotidiano sportivo torinese Tuttosport ha pubblicato la top 10 delle città più anti-juventine, esclusa Torino, ponendo al primo posto Napoli, davanti a Fiorentina e Bologna. Un’indagine senza spiegazioni, che però trova riscontro in quanto ho ampiamente argomentato nel mio Dov’è la Vittoria (Magenes), definendo la “classica”Napoli-Juventus la partita più significativa del Calcio italiano sotto il profilo sociale.
Si tratta infatti di due club con due tifoserie agli antipodi. Il Napoli è a pieno titolo un simbolo di appartenenza e legame territoriale. È il riferimento principe di una vasta provincia che, coi suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione, e non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a Torino, ma anche a Roma, Milano e in tutti i maggiori centri del Vecchio Continente.
Gli juventini sono in ogni dove d’Italia, ma non più numerosi dei granata nell’area urbana di Torino, dove si è bianconeri soprattutto se figli o nipoti di immigrati del Sud. Lì vi sono il torinista e lo juventino. A Napoli, invece, esiste il napoletano a troneggiare sulle minoranze. Napoletano è il tifoso e napoletano è il cittadino. L’appartenza calcistica e la cittadinanza, a Napoli, combaciano per sovrapposizione e si unificano.
Secondo la mappa geografica del tifo, tracciata dall’osservatorio sul capitale sociale Demos & Pi, la Juventus è la squadra più “nazionale”, nel senso che il bianconero è presente in modo massiccio nelle 4 aree geografiche (Nord-ovest, Nord-est, Centro, Sud e Isole), anche se interisti, milanisti, napoletani e romanisti fanno fortissima ma localizzata concorrenza. Ma la Juventus è anche la più detestata dello Stivale, il bersaglio preferito delle ire più accese dei tifosi delle squadre avversarie. Per questioni di contesa del potere sportivo, gran parte dei sostenitori milanisti e interisti indica proprio la Juve come prima squadra “nemica”, nonostante la disputa interna per la supremazia cittadina. Lo stesso fanno romanisti (pur astiosi verso i cugini laziali), napoletani e fiorentini, per i quali influisce nell’animosità la spiccata identificazione territoriale da opporre al simbolo massimo dell’identificazione egemonica e della “nazionalizzazione”. Sono questi i tifosi che vedono nella Juventus l’emblema del tifo apolide, privo di ogni radicamento geografico.
Tre sono le principali scintille d’innesco del tifo, tutte legate all’identificazione antropologica: l’eredità patriarcale, la fascinazione richiamata dal territorio e quella evocata dal successo. I napoletani sono iniziati dalla seconda, gli juventini soprattutto dalla terza. La Vecchia Signora si fidanza con tutti, anche con i meridionali. Non si può certamente dimenticare che nel Paese dell’emigrazione da Sud a Nord il tifo è, più che altrove, un veicolo di riconoscimento e affermazione sociale. Già nell’Europa di fine Ottocento gli operai attratti dai centri industrializzati, quelli dove il Football andava attecchendo, ebbero un comportamento collettivo: sradicati dalla loro terra, avvertirono la necessità di sposare dei riferimenti locali, trovandoli nel Calcio, in modo da sentirsi meno emarginati e piantare nuove radici. Lo stesso accadde a Torino, lì dove il Calcio era fiorito, ovviamente, con la prima industrializzazione italiana, quella che nel secondo Ottocento aveva generato il “triangolo industriale” privilegiando Torino, Milano e Genova e depauperando il Mezzogiorno. Negli anni del “miracolo economico” si realizzò la più grande migrazione di massa mai verificatasi nella nostra penisola: milioni di persone si spostarono dal Mezzogiorno, abbandonando i campi per andare a lavorare nelle fabbriche del Nord. Riempirono il “Treno del Sole”, un convoglio che dal 1954 al 2011 unì i due estremi della Penisola, da Palermo a Torino. Il capoluogo piemontese passò dai 719.300 abitanti del 1951 a 1.167.968 del 1971, mentre il suo hinterland fece registrare un aumento di popolazione dell’80%. I nuovi arrivati presero il sopravvento sugli immigrati del Nord-est e delle campagne piemontesi. In ordine di flussi, si trattava di pugliesi, siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, che fecero di Torino una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo.
Gli immigrati trovarono lavoro in Piemonte, ma anche cartelli con un avviso mortificante: “Non si fitta ai meridionali”. Quegli operai, con un lavoro ma riversati nelle condizioni di vita più disagiate e al limite della sopravvivenza, dovettero trovarsi un tetto ma anche un modo per combattere l’emarginazione, nonostante fossero pronti a contribuire massicciamente, con la loro preziosa manodopera, alla realizzazione del prodigio industriale. Il Calcio divenne un pretesto per farsi accettare, il veicolo più immediato per sentirsi più integrati. La Juventus, fino ad allora sostenuta prevalentemente dalla buona borghesia torinese, ebbe bisogno di un’immagine familiare da offrire ai lavoratori meridionali della Fiat e una mano la diede la fallimentare spedizione al Mondiale inglese del ‘66, segnata dalla disfatta contro la Corea del Nord: la Federazione impose la chiusura delle frontiere, a partire dalla stagione 1967-68, nel tentativo di far crescere nuovi talenti nazionali. Come mai in passato, il grande Calcio iniziò ad attingere da ogni regione d’Italia, e a trarre notevoli benefici da questa situazione furono le grandi squadre settentrionali, le uniche dotate di osservatori, che trovarono fortune nel serbatoio dei giovani del Sud. Nel maggio del ‘68 la Juventus concluse il primo acquisto geopolitico della storia calcistica italiana prelevando dal Varese il centravanti catanese Pietro Anastasi, pioniere dei calciatori meridionali saliti al Nord per fare fortuna, che, nel trapasso tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta, divenne l’icona del popolo degli emigranti e la sua foto in maglia bianconera entrò prepotentemente nelle case torinesi come in quelle siciliane. E poi il sardo Antonello Cuccureddu, il siciliano-campano Giuseppe Furino e il salentino Franco Causio. Una significativa rappresentanza dei cosiddetti “sudisti del Nord” nei cinque scudetti juventini degli anni Settanta che accrebbe la sempre maggiore simpatia degli emigranti meridionali e dei tanti appassionati nel Mezzogiorno per la Vecchia Signora.
Furono proprio i meridionali di Torino, quelli che stavano costruendo le fortune economiche della famiglia Agnelli, a iniziare a tifare in massa per la squadra del padrone, trasmettendo la juventinità ai parenti rimasti al Sud, sui quali faceva facilmente presa tutto ciò che gravitava attorno al miraggio della ricchezza e del successo settentrionale. Il Torino divenne la squadra dei torinesi, la Juventus quella dei lavoratori immigrati. La squadra bianconera dominò gli anni Settanta e i primi Ottanta, ingrandendo la sua tifoseria con nuove generazioni di fedelissimi immigrati – figli e parenti – che si identificarono con le vittorie della “zebra”, sul cui blocco fu costruita la Nazionale che vinse i Mondiali del 1982. La Juventus si rese così la squadra d’Italia, e il suo nome, che non è quello di una città e non impone il cliché del campanile, agevolò il processo di diffusione della sua popolarità. Ancora oggi il Meridione è pieno di feudi juventini, e la gran fetta di appassionati di certe zone che scelgono in età infantile il cavallo vincente si identifica nelle squadre più blasonate, Juventus su tutte. Invero, anche Milan e Inter attingono all’immenso serbatoio del Sud, là dove è pieno di sostenitori che non accettano di legarsi alle squadre delle proprie città per non condannarsi all’impossibilità di competere ai massimi livelli; pur di recitare un ruolo da protagonista in pubblico, barattano la sconveniente identità col vantaggioso potere. Il bambino non vuole perdere perché non vuol soffrire, e crescendo si porta dentro quella paura. Solo una piccola parte, in età più matura, abiura l’iniziale scelta di cedere alla seduzione dei vincenti, la cui motivazione d’origine è tutta in una frase pronunciata dall’icona juventina Giampiero Boniperti: “Sono da compatire quelli che tifano per altri colori, perché hanno scelto di soffrire”.
Ecco perché nessuna squadra è tanto amata e sostenuta quanto la Juventus. Ma anche tanto detestata, perché con le sue vittorie nazionali fa soffrire gli altri e perché rappresenta il simbolo sportivo dello sfruttamento dei ricchi padroni sul proletariato operaio.
Lo juventinismo, come il milanismo e l’interismo, supera i confini regionali; cresce allontanandosi dai nuclei territoriali delle squadre forti e attecchisce nei piccoli e medi centri che non riescono a emergere nel Calcio che conta. I bambini di Siracusa, Olbia, Matera, Teramo, Macerata e altre città fuori dai grandi giochi e lontane dai grandi capoluoghi devono necessariamente fare una scelta che consenta loro di partecipare, di non sentirsi totalmente esclusi, e per convenienza inconscia si affezionano alle squadre più gloriose, oppure a quella che sta compiendo un ciclo vincente al momento dell’esplosione della passione calcistica. Per questo motivo Juventus, Milan e Inter sono le squadre degli appassionati territorialmente “decentrati”, quelli che vivono nelle province senza una storia calcistica. Ma anche le squadre di quei distretti rappresentati da realtà calcistiche di un certo rilievo, però storicamente incapaci di recitare un ruolo primario, lì dove è spesso ostentata una fedeltà sdoppiata, una duplice passione: per la squadra locale, che non ha legami stretti con la vittoria, e per quella in grado di vincere, che non ha legami stretti col territorio. È un modo di vivere il tifo che aiuta a gestire e risolvere un contrasto interiore, più frequente nel Mezzogiorno e tipico di importanti centri come ad esempio Bari, alla cui fede locale è spesso accostata quella per una delle tre big.
Al contrario, il Napoli è, al Sud, una realtà a sé stante, un monolito quasi sacro. Non si può simpatizzare per il Napoli e per la Juventus allo stesso tempo, soprattutto attorno al Vesuvio, in una provincia amalgamata indivisibilmente alla sua squadra di Calcio. Napoli e il Napoli creano un vortice continuo di identificazione con pochi paragoni nel mondo. Il club azzurro è interpretato come unico vessillo sotto il quale cercare una dignità cancellata.
È un sacrosanto diritto di ognuno scegliersi la squadra per cui tifare, anche se questa è di un altro territorio, soprattutto in un ambiente sportivo in cui gli imprenditori stranieri comprano club che rappresentano città con cui non hanno alcun legame e in cui militano calciatori di ogni nazione, ma attenzione a non minimizzare l’importanza economica dei tifosi, autori di una scelta di fede sportiva e di appartenenza spontanea che determina vantaggi economici essenziali per l’esercizio delle società. Vantaggi che derivano in buona parte proprio dalla passione cieca dei tifosi. Dalla stagione 2010-11, infatti, la ripartizione dei diritti televisivi è contrattata in modalità collettiva: il 40% è assegnato in parti uguali a ogni società, il 5% è ripartito rispetto alla graduatoria dei comuni di provenienza per popolazione, il 30% è distribuito sulla base del computo di tre diversi parametri ottenuti dai risultati sportivi, il restante 25% è frazionato in base alla classifica delle tifoserie per quantità, fino a un massimo del 6,25%. Più sostenitori hanno i club, più soldi portano a casa. È tutta qui l’importanza delle scelte di appartenenza dei tifosi, che pure qualche soldino al botteghino lo portano e di prodotti ufficiali ne comperano. Compreso il passaggio, è facile evidenziare quanto sia influente la massa di tifosi del Sud che sposano fedi nordiche, incidendo in tal modo nella distribuzione a favore di territori lontani di parte dei proventi delle pay-tv e dei ricavi commerciali.
Angelo Forgione – Italia in ginocchio. Aumenta lo stress, aumenta la depressione e aumenta il consumo di psicofarmaci nel quarto paese in Europa per spesa relativa. L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Salute avverte che ogni giorno, in media, gli italiani assumono 39,87 dosi ogni mille abitanti, un dato decisamente in crescita rispetto a quello del 2006 quando erano 30,08 (-32,5%). La Regione che mostra il maggiore consumo di antidepressivi è la Toscana: 60,96 dosi giornaliere ogni mille persone, il doppio della meno depressa, la Campania (30,59 dosi/1000 ab).
Nello specifico, Napoli si conferma la città più felice, nonostante i cronici problemi esistenziali del suo popolo. Conferma di dati noti, che difficilmente cambieranno. Perché? Perché i napoletani sono dotati di anticorpi endemici: la socializzazione, il buono spirito, i valori della famiglia, gli odori e i sapori della buona cucina in strada e fuori, la ferrea identità, i rumori e i suoni, una cultura viva, i paesaggi, il mare e l’apertura di cielo, tutta roba che non conta per le sbandierate classifiche della qualità della vita.
Parlo di dati noti, sì, notissimi per me che in un passaggio di Napoli Capitale Morale ho scritto:
I giovani di Napoli non emigrerebbero in massa se la loro città offrisse prospettive di vita e opportunità di lavoro. Lo dicono le classifiche della qualità della morte, cioè dei suicidi, che raccontano di un basso coefficiente napoletano di morti volontarie in relazione al numero di abitanti e di un ridotto uso di farmaci antidepressivi, pur con tutti i problemi sociali che sulle rive del rasserenante Golfo difficilmente diventano esistenziali. Napoletani masochisti? Certo che no. Semmai residenti resilienti, consapevoli del loro disagio, capaci di sopportare le condizioni a tratti lancinanti e di resistere alle troppe avversità. Tra chi rimane, molti sono coloro che trovano rimedio a un tenore di vita spesso insoddisfacente con la socializzazione e il sorriso. Il ridotto numero di suicidi partenopei è esattamente l’indicatore di uno slancio vitale opposto alla frustrazione e alla disperazione, il segno tangibile di un’antropologia della speranza.
A Napoli, la città più giovane d’Italia, si alimenta un fiducioso approccio al futuro. È luogo dove la competizione sociale cede il passo alla conservazione individuale, dove i valori fondamentali dell’esistenza risultano primari, dove il salvifico modello culturale identitario respinge le ansie e non lascia sedimentare i prodromi della depressione. È resistenza alla sofferenza, serena sopravvivenza, che non vuol dire buona esistenza ma certamente neanche disprezzo per la vita. Se ne accorse anche papa Francesco, immergendosi nella realtà italiana, e lo attestò nelle parole di apertura della sua visita pastorale alla città nel marzo 2015 con cui salutò i napoletani:
“Appartenete a un popolo da una lunga storia, attraversata da vicende complesse e drammatiche. La vita a Napoli non è mai stata facile, e però non è mai stata triste. È la gioia la vostra grande risorsa!».
E allora ribadiamolo ancora una volta che Napoli è essa stessa un efficacissimo antidepressivo, un autentico luogo dell’anima. Del resto se ne accorse già in tempi antichissimi il lombardo Virgilio, che vi trovò riparo e soluzione alla crisi esistenziale sorta nella natìa Mantova.