Vanvitelli dov’è? Il mistero delle spoglie

Angelo Forgione Luigi Vanvitelli. Pronunci nome e cognome all’italiana, visto che nacque a Napoli da padre olandese, e non c’è bisogno di spiegare chi sia, cosa abbia dato al mondo. Ma vi siete mai chiesti dove si trovi la sua tomba e se sia possibile visitarla? No, perché la tomba non esiste, e delle sue spoglie si sono perse le tracce. Una vergogna nazionale che è anche mistero.

Morto il 1 marzo del 1773 a Caserta, fu seppellito per sua stessa richiesta nella Chiesa di San Francesco di Paola, quasi al confine con Casagiove, ma col passare del tempo si perse traccia del luogo esatto della conservazione dei resti. Il mistero circa l’esatta ubicazione della tomba e delle spoglie restò impenetrabile fino al 1984, allorché, in seguito al crollo del pavimento della chiesa durante dei lavori di consolidamento dell’edificio, sotto l’altare maggiore furono rinvenuti alcuni resti umani, contenuti in una cassa coperta da un drappo damascato d’oro sul quale era incisa una “V” di metallo brunito. Quelle ossa furano inviate all’istituto di medicina legale di Caserta, poi a Napoli e infine al Laboratorio di Antropologia della Soprintendenza di Chieti per una prova al carbonio che ne determinasse la datazione. Prova che non è stata mai eseguita a causa dell’esiguo numero di frammenti ossei.

Per riaccendere i riflettori sulla vicenda, in vista delle celebrazioni per il 250º anniversario della sua morte, che cadrà il 1º marzo 2023, se proprio non è possibile capire se quelle ossa siano dell’architetto borbonico, sarebbe opportuno erigergli almeno un cenotafio. Una richiesta sollecitata da un Comitato appena costituito e animato da Nando Astarita, fattivissimo amico casertano, alla quale ho risposto immediatamente, perché Vanvitelli ha prodotto mirabilie e ha realizzato il palazzo modello di riferimento di tutte le residenze reali europee del Settecento e oltre, con la sua composizione scenografica e la sua creatività idraulica.

In verità, tra tante statue di personaggi anche molto meno importanti, Vanvitelli ne meriterebbe una a Napoli, sua città Natale, oltre a quella presente a Caserta dal 1879; magari nella piazza vomerese a lui intitolata, come già da me proposto una decina d’anni fa. Ma questa è solo un’altra colpevole omissione di onori, anche se racconta esattamente la stessa storia.

La piazza più grande d’Italia? È a Caserta

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Angelo Forgione 130mila metri quadri di prato con tre viali che verticalizzano sul portico/cannocchiale ottico della Reggia di Caserta. È l’antica piazza d’armi, oggi piazza Carlo di Borbone, un’ellisse progettata da Luigi Vanvitelli nella seconda metà del Settecento come piazza totalmente recintata per le parate e sistemata dal figlio Carlo nel primo Ottocento.
È la piazza più grande d’Italia, a prescindere dalla funzione pubblica che ricopre. Dietro, tre piazze di Milano, ovvero piazza Castello (95mila mq), largo Marinai d’Italia (78mila mq) e piazza della Repubblica (73mila mq), inframezzate dalla terza piazza più ampia della Penisola: Prato la Valle a Padova (88mila mq). Chiude la top 6 il largo più grande di Napoli, che non è il noto Plebiscito bensì la piazza Garibaldi (70mila mq). L’antico Largo di Palazzo, infatti, è sì il più bello e famoso dell’ex capitale partenopea ma solo il quarto spazio cittadino per estensione. “Soli” 25mila mq, circa un quinto dell’immenso piazzale casertano, costruito per volontà sovrana dei Borbone di Napoli quando Caserta, sostanzialmente, non c’era. Sorse disordinatamente a sud della Reggia senza seguire i dettami urbanistici che lo stesso Vanvitelli aveva pensato e disegnato nel progetto generale. E state certi che sarebbe stata bellissima.

Piazze italiane oltre i 20mila mq di estensione
1) Piazza Carlo di Borbone – Caserta (130.000 mq)
2) Piazza Castello – Milano (95.000 mq)
3) Piazza Prato la Valle – Padova (88.600 mq)
4) Largo Marinai d’Italia – Milano (78.500 mq)
5) Piazza della Repubblica – Milano (73.500 mq)
6) Piazza Garibaldi – Napoli (70.000 mq)
7) Piazza del Campo del Palio – Asti (66.000 mq)
8) Spianata del Foro Italico – Palermo (62.500 mq)
9) Piazza Dante – Livorno (59.000 mq)
10) PIazza Vittorio Emanuele II – Roma (55.000 mq)
11) Piazza del Colosseo – Roma (45.500 mq)
12) Piazza dei Cinquecento – Roma (45.000 mq)
13) Piazza del Municipio – Napoli (42.000 mq)
14) Piazza Castello – Torino (35.000 mq)
15) Piazza san Giavanni in Laterano – Roma (33.000 mq)
16) Piazza Mercatale – Prato (33.000 mq)
17) Piazza Vittorio Veneto – Torino (31.000 mq)
18) Piazza d’Azeglio – Firenze (30.000 mq)
19) Piazza Duomo – Milano (28.500 mq)
20) Piazza Mercato – Napoli (28.000 mq)
21) Piazza Libertà – Salerno (27.000 mq)
22) Piazza del Plebiscito – Napoli (25.500 mq)
23) Piazza Bra – Verona (25.000 mq)
24) Piazza Duccio Galimberti – Cuneo (24.000 mq)
25) Piazza della Magione – Palermo (22.200 mq)

 

La morte della Villa Comunale di Napoli

Angelo Forgione – La prima passeggiata che fece Antonio Canova quando mise per la prima volta piede a Napoli, nel gennaio del 1780, fu alla nuova Villa Reale, oggi detta Villa Comunale. Era una unicità assoluta in Italia, voluta da Ferdinando di Borbone e firmata da Carlo Vanvitelli. Un nobile giardino sul lungomare riempito di gessi, tempietti e fontane, sulla scia della moda neoclassica lanciata da Napoli con gli scavi vesuviani.
Nel suo secondo “Quaderno di viaggio”, l’artista veneto scrisse: «[…] presimo la strada di Chiagia e fumo andati a vedere il nuovo giardino Pubblico, cosa veramente bellissima».
Una delle tantissime visioni che lo condussero a dir di Napoli: “[…] per tutto sono situazioni di Paradiso […]”.

Qualche anno dopo, il tedesco Hermann von Pückler-Muskau, artista tedesco specializzato in architettura del paesaggio, fece la stessa escursione, come tutti gli stranieri in visita culturale alla città, e scrisse:
“[…] giungemmo alla passeggiata che chiamano villa Reale, sita in riva al mare, anche se nell’interno della città e che mi sembrò essere il luogo di convegno della società distinta. Non credo vi sia al mondo giardino pubblico che si possa paragonare a questo, tanto per la sua posizione che per la sua distribuzione. […] Viali di lecci folti, ma nani formano passeggiate ombrose, miste a giardini inglesi, terrazze, fiori e fontane zampillanti”.

Oggi la Villa Comunale di Napoli è paradigma dei disastri amministrativi. Lo sfregio all’impronta neoclassica della passeggiata reale, che di reale ormai non ha più nulla, è iniziato con Antonio Bassolino e l’allora assessore competente Dino Di Palma. Tra il 1997 e il 1999, infatti, fu chiamato un designer moderno, Alessandro Mendini, a realizzare un intervento di riprogettazione che sollevò giustissime polemiche per l’evidente contrasto con l’ambiente creato da Carlo Vanvitelli. Napoli chiamava Milano, l’illuminata capitale del design moderno, consentendo a un contemporaneo di sovrapporsi a un architetto della storia locale, che aveva fatto un capolavoro nel secondo Settecento, quando Milano chiamò Napoli per farsi bella e neoclassica. Lo stesso sarebbe poi accaduto con la meneghina Gae Aulenti per la ridefinizione con altrettante polemiche di piazza Dante, e così si iniziò a cancellare una tradizione gloriosa, a favore di una modernizzazione coloniale. Ne vennero fuori degli chalet-scatolette a colori, l’alterazione dell’aspetto botanico della storica villa a sconvolgere la scelta delle essenze arboree fatta nell’800 dal tedesco Friedrich Dehnhardt (ispettore del Real Orto Botanico), la scellerata pavimentazione in tufo e lo scempio della cancellata in alluminio anodizzato con rimozione degli storici lampioni in ghisa in cambio di scabrosi “siluri” sempre in anodizzato.
Non bastò. Sotto l’amministrazione Jervolino arrivò la nuova Linea 6 metropolitana a mangiarsi gli spazi e a devastare la falda acquifera sottostante, con inevitabili danni agli alberi secolari della villa e pure alla stabilità dell’intera Riviera di Chiaja.
Lungo il corso dell’amministrazione De Magistris il colpo di grazia alla Villa, ormai completamente abbandonata a se stessa, un luogo non luogo, non più ambito dai cittadini e dai turisti. L’unico intervento, il restauro della Cassa Armonica di Errico Alvino, durato anni e inizialmente sbagliato nei colori, ma poi ripresi filologicamente grazie alla ricerca di chi scrive. Ora arrivano 2 milioni per provare a rimediare.

A Napoli, città ricca di storia disseminata nel suo tessuto urbano, la modernità ha violentato l’antichità e le straordinarie creazioni realizzate da artisti e governanti che avevano come prospettiva la Bellezza e la Storia. Carlo Vanvitelli e Giuseppe Piermarini furono gli allievi migliori di Luigi Vanvitelli, e se il primo rimase a Napoli a proseguire l’opera del padre il secondo fu chiamato a Milano dal governatore austriaco Karl von Firmian, amante della cultura napoletana, perché mettesse in pratica in Lombardia quello che aveva imparato al Sud. Oggi i milanesi Mendini e Aulenti rimaneggiano le realizzazioni settecentesche partenopee, al soldo di amministratori miopi e di corto respiro che beneficiano anche di silenzio e, spesso, di appoggio ideologico da parte di un certo ceto accademico e intellettuale “sensibile” alle suggestioni del potere.
Voltare pagina è una necessità. Ma per poterlo fare occorre una coscienza collettiva che alzi la voce di fronte alla devastazione dell’identità napoletana. Prima che sia troppo tardi.

 

Pezzi di storia di Napoli per risarcire la Russia

L’ambasciatore italiano in Russia, che poi è napoletano, inaugura una sede diplomatica a Voronezh, qualche centinaia di chilometri da Mosca, e scopre che nel museo cittadino sono custoditi preziosissimi volumi sulla storia del Regno di Napoli e sull’architettura vanvitelliana della Reggia di Caserta.
«Come mai si trovano qui?», ha chiesto il diplomatico Terracciano, e la risposta è stata: «Facevano parte dell’indennizzo per i danni di guerra provocati dagli italiani alla Russia».

 

Avete capito? L’Italia, per risarcire i russi, che tanto amano Napoli, ha ceduto loro alcune testimonianze del più bel palazzo del mondo, che in quegli anni veniva trascurato con insufficienti fondi per la manutenzione e veniva destinato per 800 ambienti su 1200 alla Scuola allievi ufficiali dell’Areonautica, e poi da due istituti scolastici superiori, con chiari danni visibili nel video dell’Istituto Luce qui di seguito:

 

 

 

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E don Carlos disse «acqua per tutti!»

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Angelo Forgione22 marzo, Giornata Mondiale dell’Acqua. Sensibilità circa gli sprechi e necessità di fornirla a tutti. Questi i temi sollecitati, e non posso non ricordare che Napoli è stata la prima città al mondo a dotarsi di acqua corrente nelle case. E poi l’esempio dell’Acquedotto Carolino, la più imponente opera di ingegneria idraulica del Settecento, quando l’acqua mancava alla bellissima piana casertana ai piedi dei Monti Tifatini scelta da Carlo di Borbone per il nuovo Real Palazzo, quella che il Goethe avrebbe definito qualche anno più tardi “la più lussureggiante piana del mondo”.
Luigi Vanvitelli andò a prendersi l’acqua a una quarantina di chilimetri di distanza, alle sorgenti del Monte Fizzo, nel Beneventano, e realizzò un’impercettibile pendenza di poco più di un millimetro ogni metro per condurre l’acqua oltre la Valle di Maddaloni e compiere il lungo percorso idrico, tra grosse difficoltà costruttive e scetticismo di chi non aveva creduto che l’acqua sarebbe arrivata dal Taburno del Beneventano ai Monti Tifatini del Casertano.
Molto critici furono i lavori per i trafori, a causa delle esalazioni di anidride carbonica. Gli operai, galeotti musulmani del Nord-Africa catturati durante le scorribande piratesche lungo le coste, venivano assicurati con delle brache di cuoio in modo da essere tirati fuori in caso di soffocamento. Con il supporto dei più stimati studiosi e matematici del Regno di Napoli, le cassandre furono smentite tra lo stupore dei presenti all’inaugurazione, quando, dopo circa quattro ore di attesa, improvvisamente, le cascate iniziarono a prendere vita.
Solo un capriccio lussuoso? Macché! Vanvitelli, per volontà sovrana, assicurò la duplice utilità tipica delle realizzazioni borboniche: quella estetica, per lo straordinario giardino della Reggia, e quella sociale, per l’approvvigionamento idrico del Casertano. Non solo acqua salubre per i sofferenti villaggi attorno al distretto reale ma anche energia idraulica necessaria per le emergenti attività reali e private tutt’intorno, a partire dalla seterie di San Leucio. A Marcianise, il villaggio forse più assetato, fu in seguito realizzata una fontana di ringraziamento nella piazza centrale, la cosiddetta “Fontana dei Delfini”, opera dell’architetto Gaetano Barba, allievo dello stesso Vanvitelli.
Con la vita poteva svilupparsi, oltre alla cittadella amministrativa reale, anche una moderna cittadina, pensata e disegnata nel progetto urbanistico vanvitelliano, ma purtroppo cresciuta nel tempo con aspetto ben differente rispetto ai precisi dettami estetici originali. E inoltre, l’Acquedotto Carolino fu allacciato all’Acquedotto del Carmignano che, insieme a quello della Bolla, serviva Napoli, per rafforzare l’approvvigionamento idrico della Capitale.
Tutto frutto delle incredibili competenze ingegneristico-idrauliche di Luigi Vanvitelli, affinate collaborando alla realizzazione della Fontana di Trevi a Roma al fianco dell’amico Nicola Salvi, “Architetto dell’Acqua Vergine del Salone e suoi acquedotti e fontane”. Una fontana bellissima ma utile solo ad abbellire il centro della città papalina.
Pochissimi sanno che già nel 1836 i napoletani avevano a disposizione una media di 26 litri d’acqua al giorno, più di Parigi, che nello stesso periodo era afflitta dal sudiciume della sua gente, abituata a lavarsi nella maleodorante Senna o a non praticare alcun tipo di abluzione. Così come i londinesi nel Tamigi, dove venivano riversavati escrementi e rifiuti di ogni sorta, in una città che quell’acqua la beveva e in cui nel 1858 scoppiò la “Grande Puzza”.
Oggi, secondo i campioni analizzati da Altroconsumo, l’acqua del rubinetto più buona si beve proprio nella provincia di Caserta. L’abbondante fornitura è assicurata dall’Acquedotto della Campania Occidentale, che alimenta in parte anche i serbatoi di Capodimonte e Scudillo dell’Acquedotto di Napoli ed i serbatoi dell’Acquedotto Campano di S.Clemente e di Melito.
E la storia continua.

Chiacchierata napoletana al ‘Mattin8’

«Quando parla Forgione di Napoli è una bella boccata d’ossigeno».
Lusinghiero complimento di Salvatore Calise durante una piacevolissima chiacchierata su Napoli, la sua cultura e la sua identità al Mattin8 (Canale 8).

Guida Feltrinelli “Bocca style”

Angelo Forgione – Se non fosse defunto anni fa, ci sarebbe da pensare che la guida “Italia del Sud e Isole” di Feltrinelli, di cui si parla in queste ore circa le stroncature a #Caserta, i suoi dintorni e la Reggia, l’abbia scritta Giorgio Bocca, che anni fa, in una puntata di Passepartout di Philippe Daverio, definì il Real Palazzo borbonico “una reggia da Re Sole in un paese di Re merda”, prendendosela con i sovrani napoletani, “dei megalomani” perché invece di dedicarsi alle poste e telegrafi realizzarono palazzi e musei.
Alla stessa maniera, gli autori di casa Feltrinelli sostengono che la Reggia di Caserta è “una struttura piuttosto monotona nella quale la dimensione supplisce all’ispirazione artistica”, e che gli appartamenti stessi “sono una grandiosa sfilata di stanze sovraccariche di dipinti e stucchi e arredate con qualche mobile in stile Impero, moda importata dalla Francia, con grandi, imperiose statue classiche e ritratti compiaciuti della dinastia borbonica”.
Vorrei dire al miope allievo di Bocca di casa Feltrinelli che l’ispirazione artistica di Luigi Vanvitelli è cosa sacra, e che il genio settecentesco ha lasciato ai posteri il monumento napolitano per il mondo. E gli direi che gli arredi in stile Impero furono una conseguenza del trono di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, che Ferdinando di Borbone, rientrando col Congresso di Vienna, mantenne, facendo rimuovere i soli ritratti dei predecessori. E li mantenne perché più alla moda del tempo ottocentesco, una moda francese nata però sotto l’influenza di Napoli e degli scavi vesuviani. Una moda che aveva imposto Napoleone per celebrare la sua ascesa, facendo sì che il neoclassicismo di matrice ercolanese-pompeiana (ispirato proprio da Vanvitelli e applicato dai suoi allievi) fosse declinato dagli architetti transalpini in maniera più maestosa, riprendendo i primi stilemi ispirati alle romanità vesuviane, poi indirizzati da Giovan Battista Piranesi all’architettura greca di Paestum. Napoleone si era innamorato del Neoclassicismo vedendo i nuovi monumenti costruiti a Milano da Giuseppe Piermarini, allievo di Vanvitelli (prima a Roma e poi a Napoli-Caserta) che aveva portato i fermenti di Napoli nella città lombarda. Da Napoli a Milano, da Milano a Parigi, da Parigi di nuovo a Napoli.
Su tutto il resto soprassiedo. L’ignorante allievo di Bocca di casa Feltrinelli ha data sfoggio del suo spessore culturale e non è il caso di dibattere d’altro. Non soprassiedo invece su Feltrinelli, che prima di mandare in libreria una pubblicazione ne dovrebbe verificare i contenuti e vietare la pubblicazione di contenuti offensivi che potrebbero recare danno all’immagine turistica, e non solo, di un territorio.

La terza ampolla del sangue di San Gennaro?

teca_sangennaroAngelo Forgione Il prodigio dello scioglimento del sangue di San Gennaro, da sempre, è al centro della vita della città di Napoli, con tutta una serie di leggende e misteri che vi gravitano attorno. Persino Carlo di Borbone portò parte del sangue all’Escorial di Madrid, e non si sa che fine abbia fatto quella reliquia, né in che contenitore sia stato travasato, e in che stato. Ricca di fascino è pure la storia della dispersa terza ampolla trafugata dalla Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli, che i responsabili del Museo del Tesoro di San Gennaro starebbero in qualche modo cercando per via diplomatica.
Recentemente, senza troppo clamore, è stata rinvenuta proprio una ampolla tra le reliquie dei Padri Vincenziani, nel Complesso Monumentale attorno alla splendida Chiesa vanvitelliana di San Vincenzo de’ Paoli ai Vergini. Si tratterebbe di un cimelio contenente proprio sangue di San Gennaro, secondo il certificato pontificio di autenticità datato 1793 ed emesso dal Vescovo di Ferentino, cioè della zona del frusinate, al quale in qualche maniera sarebbe giunto il resto sacro prima di essere consegnato ai missionari vincenziani di Napoli.
Mistero nel mistero, sin dal momento del ritrovamento il sangue contenuto nella boccetta è allo stato liquido. Lo si può notare visitando la ricca Cappella delle Reliquie dello stesso Complesso (infoline: 3383448981 – 3476065947).

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Suggestivo evento notturno alla Casina Vanvitelliana del Fusaro

Nell’ambito delle attività di valorizzazione del complesso vanvitelliano del Lago Fusaro, il 29 dicembre, alle ore 20,30, andrà in scena l’evento “Amori diVersi“, un percorso musicale e culturale durante il quale il visitatore potrà ammirare il sito in notturna ascoltando musica e degustando un aperitivo.
In programma una rievocazione in costume settecentesco all’interno della Casina e una chiacchierata di approfondimento storico con Angelo Forgione.

Parco Vanvitelliano – Via Fusaro, 1 – Bacoli (NA)

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Quando Napoli cambiò il gusto del mondo

Angelo Forgione Il ritrovamento di Ercolano, Pompei e le altre città romane sepolte alle falde del Vesuvio impresse una svolta decisiva per l’intera cultura europea del Settecento, cambiando la sensibilità estetica e riaccendendo la passione per una nuova classicità che travolse ogni aspetto artistico e culturale, dall’architettura alla letteratura. Luigi Vanvitelli, alla corte di Napoli, chiuse l’epoca del Barocco e codificò il Neoclassicismo per il mondo.
Altri spunti alla rivoluzione architettonica fiorirono col rinvenimento dei templi greci di Paestum in occasione dell’apertura della strada per le Calabrie. La riscoperta del classico fece così un ulteriore passo indietro nel tempo, dai Romani ai Greci, col decisivo contributo dell’architetto incisore Giovan Battista Piranesi, che, nel 1778, diffuse in tutt’Europa l’immagine del Tempio di Era a Paestum, capace di condizionare tutti i teorici dell’architettura del continente, soprattutto quelli d’avanguardia.
Tutta l’Europa rivolse attenzione ai ritrovamenti napoletani, spinta dagli scritti dall’archeologo e storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann, che teorizzò la perfezione dell’arte classica greca e romana, da cui recuperare i principi. E l’architettura cambiò per tutti, Napoleone compreso.