Teatro San Carlo: spunta L’azzurro originale della sala

Angelo Forgione — Con il restauro interno in corso al Real Teatro di San Carlo di Napoli spuntano i colori originali (azzurro e argento brunito) della sala di Antonio Niccolini, non settecentesca ma inaugurata nel 1817, dopo l’incendio devastante dell’anno precedente e completamente diversa da quella del 1737, eccetto proprio i colori.
Azzurro e argento brunito con riporti in oro sostituiti e coperti con rosso e solo oro per volontà di Ferdinando II tra il 1844 e il 1854, prima dell’avvento dei Savoia, come spiego al Corriere del Mezzogiorno (articolo), che aveva ipotizzato un’operazione d’epoca postunitaria.
I colori rinvenuti resteranno visibili almeno sul palco reale. Prima del discusso restauro del 2008, il commissario straordinario Salvatore Natasi, l’architetto Elisabetta Fabbri e l’ex soprintendente speciale Nicola Spinosa considerarono l’opportunità di riportare tutta la sala ai colori originari, ma poi decisero di non procedere. Spuntati anche alcuni gigli borbonici sull’arco del boccascena, e il Movimento Neoborbonico chiede di tenerli in vista.

Storia e simulazione dei colori originali ►clicca qui

Per approfondimenti sulla storia e le trasformazioni del San Carlo:
Napoli Capitale Morale (A. Forgione, Magenes, 2017)


Addio a Carla Fracci, amica di Napoli

Angelo Forgione Scompare ad 84 anni la più grande danzatrice contemporanea, l’étoile per eccellenza, la “prima ballerina assoluta” per il New York Times.
Festeggiò i suoi 80 anni al San Carlo di Napoli, non alla Scala di Milano, la sua città, che voleva semplicemente farla sedere in platea in occasione di una serata non a lei dedicata.

“A Milano ho dato molto, ma Milano è cambiata. Peccato. Napoli – disse la Fracci – è stata molto più generosa. Sono felicissima di essere a Napoli, una città piena di fantasia, energia, e con un grande cuore. È una città meravigliosa, con un’anima, una semplicità e una generosità che ho sempre saputo apprezzare. Io ho bisogno di calore, di stima, di verità per stare bene. E Napoli è un po’ come casa mia”.

Quella festa non ebbe la grancassa dei media, perché così funziona quando non si tratta della Scala di Milano, ma Carla fu intimamente felice di essere protagonista sul palco, per due sere, in quel teatro, il più bello, quello della prima scuola di ballo d’Europa (1812), che aveva diretto negli anni Ottanta e che ancora sfornava (e sforna) danzatrici, mentre si addolorava per la smobilitazione dei corpi di ballo nei teatri italiani:

“Non si fanno crescere i giovani, non si danno opportunità, e siamo sempre più spinti a reclutare grandi corpi di ballo dall’estero. Un paese senza i mezzi per fare cultura e arte – disse – è un Paese che si nega a un futuro vero, autentico e libero”.

Se il video non è visibile, clicca qui.

Bruciore profondo

notredame

Angelo Forgione – Brucia Notre Dame. Un inferno doloroso, riconducibile alle cronache europee del 12 febbraio 1816, la notte in cui, ad addolorare il Continente fu il disastroso incendio del Real Teatro di San Carlo a Napoli, il tempio del melodramma, che da circa ottant’anni era il riferimento internazionale della grande passione del tempo, l’Opera.
In meno di due ore la sala interna andò completamente perduta. Le fiamme erano scaturite da qualche lucerna e si erano velocemente propagate sulle ali del vento di una serata illuminata dalla luna. Crepitii e grida dei presenti, travi di legno incandescenti e pendenti, crolli di muri, fumo e fiamme visibili da ogni punto della città. L’intervento tempestivo dei “travagliatori” e dei soldati borbonici riuscì a evitare che le fiamme si propagassero alla magnifica facciata neoclassica, rifatta solo qualche anno prima dall’architetto Antonio Niccolini. Senza né televisione né radio, con lentezza giunse all’estero la notizia attraverso la diffusione delle tristi cronache provenienti dalla capitale continentale della Musica. Quello che oggi fanno gli obiettivi fotografici e televisivi lo fecero gli artisti che si affrettarono a immortalare il tragico evento con tele, pennelli e tavolozze. Senza Salvatore Fergola e Luigi Gentile nessuno avrebbe potuto “vedere” quelle scene.

Sull’Europa di Napoleone era da poco calato il sipario e la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna aveva recentemente riportato Ferdinando di Borbone sul trono di Napoli. Ecco perché il popolo napoletano, in preda allo sconforto, accusò i giacobini di essersi vendicati colpendo il simbolo internazionale della città, un po’ come oggi si accusano i jihadisti per il rogo del simbolo cattolico di Parigi. Qualcuno sospettò di Domenico Barbaja, l’impresario del Real Teatro sopravvissuto al cambio di potere, pure proprietario dell’impresa edile che aveva rifatto la facciata.

Ferdinando di Borbone, a soli nove giorni dal rogo, formò una commissione composta da cinque importanti nobili, incaricati di sovrintendere, senza badare a spese, alla rinascita del tempio europeo dell’Opera, affinché superasse in bellezza se stesso e ogni teatro del mondo, anche il più giovane Teatro alla Scala di Milano. Per meriti acquisiti con i lavori per la facciata, il progetto e l’appalto dei lavori furono aggiudicati ancora a Niccolini e Barbaja.

In soli otto mesi il miracolo fu compiuto. Andò a verificarlo di persona Stendhal la sera dell’inaugurazione, il 12 gennaio 1817, quando in scena fu portato Il sogno di Partenope di Giovanni Simone Mayr, melodramma allegorico composto espressamente per l’occasione, perché quel giorno fu davvero sognato da tutta Napoli. Alla vista dello scrittore si mostrò una straordinaria sala, completamente diversa da quella andata in fiamme: dal Barocco ormai démodé della precedente sala di Antonio Medrano al Neoclassico in voga di Antonio Niccolini. I suoi occhi, esperti di teatri francesi e italiani, rimasero sbarrati all’esperienza del ricostruito teatro:

“La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. […] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. […] Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al Re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare; e Napoli è ubriaca di patriottismo. Chi volesse farsi lapidare, non avrebbe che da trovarvi un difetto. Appena parlate di Ferdinando: ha ricostruito il San Carlo, vi dicono, tanto semplice è l’arte di farsi amare dal popolo. Io stesso, quando penso alla meschinità e alla pudica povertà delle repubbliche che ho visitato, mi ritrovo completamente monarchico. […] Il raso azzurro, i fregi in oro, gli specchi sono distribuiti con un gusto di cui non ho visto l’eguale in nessun’altra parte d’Italia.”

sancarlo_sala

Grazie alla trasformazione stilistica, l’incendio del San Carlo non lasciò alcun rimpianto e segnò la mutazione classicheggiante del gusto architettonico occidentale che, partendo proprio da Napoli con gli scavi vesuviani, accompagnò le trasformazioni stilistiche tra Sette e Ottocento.
Se non vi fu rimpianto, anzi, se l’incendio fu occasione per fare del San Carlo un tempio ancor più bello è perché quello era un mondo in cui l’arte e la cultura in generale erano ancora in evoluzione. Al bello del Barocco superato fu possibile sostituire il bello del Neoclassico alla moda.

L’estetica costruttiva è finita con l’affermazione della società industriale ed è divenuta un nostalgico ricordo dopo la guerra, quando l’Europa, per ripudiare il Nazifascismo, ha optato delittuosamente e opportunisticamente per la semplice costruzione selvaggia, senza architettura e priva di ricerca stilistica del bello.
L’ultimo capolavoro per l’Umanità è la Sagrada Familia di Barcellona, ancora in lenta costruzione sui progetti ottocenteschi di Antonio Gaudì, l’ultimo architetto capace di rivisitare modernisticamente il passato e di lasciare una vera Eredità artistica al futuro.

Ecco perché il rogo di Notre Dame è evento drammatico. Quando brucia un capolavoro così antico, testimonianza di un passato e di una stratificazione d’arte irripetibile, brucia un pezzo di storia dell’umanità. Brucia il nostro miglior percorso fin qui. Brucia qualcosa che appartiene a tutti, non solo alla città che quel capolavoro rappresenta simbolicamente.
Se dopo le barbare devastazioni della guerra, nell’era industriale, è nata l’Unesco è perché ci siamo resi conto che il passato culturale andava necessariamente assicurato al futuro. Non possiamo permetterci di perdere nulla di così significativo perché non siamo più in grado di creare nulla di davvero significativo. E questo deve farci capire il valore umanitario di quel vituperato evo che ci ha dato Notre Dame e quel che questo tempo non riesce a stimolare. Guardino il cuore di Parigi in fiamme e riflettano sul moto emotivo collettivo tutti coloro che a sproposito usano la parola “medioevo”.
Brucia la vera Europa, quella dei popoli, che soffrono compatti per un capolavoro universale in fiamme, non quella della tecnocrazia e delle banche.

Chiacchierata napoletana al ‘Mattin8’

«Quando parla Forgione di Napoli è una bella boccata d’ossigeno».
Lusinghiero complimento di Salvatore Calise durante una piacevolissima chiacchierata su Napoli, la sua cultura e la sua identità al Mattin8 (Canale 8).

A San Pietroburgo in scena il mito di Napoli

Angelo Forgione – Al IV Forum Internazionale della Cultura di San Pietroburgo, il 15 novembre 2018, è andata in scena la Napoli del Settecento e la sua Scuola Musicale, che in quel periodo fu capace di plasmare uno stile musicale che si diffuse rapidamente nelle corti europee e fece esplodere nell’immaginario culturale ed estetico d’Europa un vero e proprio “mito di Napoli”.
Raffinati musicisti e compositori come Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa e Tommaso Traetta si recarono proprio a San Pietroburgo, chiamati a lavorare alla corte di Caterina II, consacrando la loro fama internazionale e testimoniando l’attrattiva assoluta che l’Opera napoletana esercitava su tutte le corti europee. L’imperatrice russa amava tantissimo i musicisti napolitani, una volta concluso il loro lavoro alla corte di San Pietroburgo, regalò loro un prezioso “pianoforte a tavolo”, oggi di proprietà del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Ed è stato proprio questo strumento, riportato per la prima volta in Russia, a risuonare nelle stesse sale di più di due secoli fa, durante un concerto con la partecipazione di alcuni musicisti napoletani, sulla scorta di alcune rarissime partiture dei celebri compositori Napolitani.
Una nuova riscoperta degli ottimi rapporti diplomatici tra il Regno di Napoli e l’Impero di Russia e di un dialogo mai interrotto tra due grandi ex-capitali, riunite da una filo di note musicali per rievocare uno stretto scambio artistico, culturale e commerciale dal tempo di Caterina II fino a quello di Ferdinando II.

servizio per il Tg3 Rai di Marc Innaro

Tratto da NAPOLI CAPITALE MORALE:
“L’unico dialogo internazionale del Borbone fu mantenuto con l’autoritario Zar Nicola I di Russia, affettuosamente ospitato a Napoli alla fine del 1845 per consentire alla malata zarina Aleksandra Fëdorovna di giovarsi del clima della Sicilia, e grato nel ricambiare con due pregevoli cavalli di bronzo con palafrenieri, identici alle statue di ornamento del ponte Aničkov di San Pietroburgo, che erano stati sistemati all’ingresso dei giardini del Palazzo Reale, di fianco al San Carlo. Del resto, gli ottimi rapporti diplomatici tra i due paesi risalevano al 1777 e Napoli era già la culla dei migliori talenti russi della musica, della pittura e della scrittura. Giovanni Paisiello, Tommaso Traetta e Domenico Cimarosa, nel secondo Settecento, erano stati maestri di cappella e direttori dei Teatri imperiali della capitale russa, recentemente resa neoclassicheggiante dall’architetto di origine napoletana Carlo Domenico Rossi, naturalizzato e russificato Karl Ivanovič perché figlio di una ballerina russa di scena a Napoli. Al teatro Alexandrinsky, intitolato alla zarina e realizzato dal Rossi con facciata molto somigliante a quella del San Carlo di Niccolini, andavano in scena i successi napoletani, ma il gemellaggio culturale divenne anche commerciale, cosicché a Kronstadt, una località isolana di fronte San Pietroburgo, fu clonata la fabbrica siderurgica di Pietrarsa, visitata e tanto ammirata dallo Zar, mentre a Napoli giunsero grandi forniture di eccellente grano duro russo di tipo Taganrog per le pregiate lavorazioni della pasta.”

Approfondimenti sulla Scuola Musicale Napoletana del Settecento anche su Made In Naples (Magenes) e Napoli Capitale Morale (Magenes).

juorno.it: “Napoli Capitale Morale libro di vera conoscenza”

recensione di Napoli Capitale Morale a cura della redazione di juorno.itjuornopuntoit

“Napoli Capitale Morale” Così s’intitola l’ultimo libro di Angelo Forgione dopo  i grandi successi di Made in Naples e Dov’è la vittoriatutti editi da Magenes. Il sottotitolo è ancora più intrigante del titolo: Dal Vesuvio a Milano – storia di un ribaltamento nazionale tra Politica, Massoneria e Chiesa. Ancora un ottimo strumento fornito da Forgione per capire l’Italia, per comprendere le ragioni delle differenti velocità di Nord e Sud di oggi e per individuare le origini delle questioni meridionali irrisolte, ma anche per indirizzarsi verso le necessarie soluzioni, come nella tradizione per niente nostalgica dell’autore, che nei suoi lavori parte sempre dal passato ma per arrivare al presente, motivandolo, e poi provare a dare uno sguardo anche al futuro.
Nel titolo è chiaro il riferimento a Milano, la co-protagonista, ma è Napoli la prima attrice, perché oggi è la controversa metropoli del Sud ad aver bisogno di essere decifrata e capita. Forgione lo fa raccontandone il percorso storico, dal Quattrocento a oggi, ma tenendo d’occhio quello del capoluogo lombardo, che sembra non aver bisogno di approfondimenti. E invece ne ha, perché gli elementi dominanti della narrazione di entrambe si sono ridotti ai ritardi partenopei e ai progressi meneghini, alla criminalità organizzata napoletana e alla finanza milanese.
Il paradosso di Napoli è l’occultamento dei suoi valori positivi dietro l’immagine imposta del male; quello di Milano è l’eccessivo ingombro della sua immagine di città impegnata nel progresso.
Documentazione e passione vera affiorano dalla lettura di questo interessante saggio, ricco di fonti e spunti per capire come si sia passati da una capitale vera, la Napoli preunitaria dagli Angioini ai Borbone, a una capitale “morale” della nazione unita qual è Milano, che alla vigilia dell’unificazione era città subordinata a Vienna e a quell’Impero austriaco con cui Napoli aveva dialogato intensamente nel Settecento, allorché la corte asburgica aveva portato la cultura partenopea e le novità del Regno borbonico nel sottoposto Ducato lombardo. Dal 1861 in poi il rapporto è cambiato, le due città hanno smesso di rapportarsi ed è stata invece Milano ad anticipare tutti, tant’è che la sua galleria “Vittorio Emanuele” in ferro e vetro ha fatto da modello per la “Umberto I” di Napoli. Da periferica contea asburgica, il centro lombardo è cresciuto enormemente di rilevanza, fino ad affermare la sua identità di metropoli moderna ed europea e a diventare quel che era Napoli un secolo prima, ovvero meta di professionisti e talenti.
Forgione compie un interessantissimo percorso parallelo e intrecciato della storia di due città che fanno parte della stessa nazione, anche se non sembra, e lo fa con ricchezza di racconti e chiarimenti. Pur non essendo il presupposto dello scrittore, ne viene fuori anche un paragone pregno di riflessioni interessanti. Più che mai attuali quelle relative al ruolo della Massoneria e della Chiesa nei territori italiani, partendo dal Settecento, come pure quelle sulle manipolazioni mediatiche più recenti, di cui troppo spesso Napoli è vittima. Ma la lettura svela, tra tanti racconti, quel che si credeva di sapere e che invece non si sa ampiamente sui simboli culturali delle due città: il San Carlo e la Scala. Il padre del glorioso teatro milanese, Giuseppe Piermarini, non avrebbe mai potuto costruire quella sala e tutta la Milano neoclassica di fine Settecento se prima non fosse stato a imparare a Napoli alla cerchia di Luigi Vanvitelli. E fu un napoletano trapiantato a Milano a fondare Il Corriere della Sera, il quotidiano oggi più diffuso in Italia, e ancora un napoletano fu a definire Milano la “capitale morale”, ma con un significato ben diverso da quello che gli si è dato erroneamente dal dopoguerra in poi, con riferimento a Torino, non a Roma. Sempre un napoletano, nel primo Novecento, salvò dal fallimento la giovane fabbrica di automobili di Milano, creando il mito motoristico della “casa del biscione”, l’Alfa Romeo.
Un libro di vera conoscenza, insomma, davvero denso e completo, dal quale viene fuori tutta una realtà più concreta su Napoli, Milano e l’Italia impossibile da capire senza inoltrarsi nell’operazione ottimamente e opportunamente condotta da Angelo Forgione.

Una petizione per il Belcanto e l’Opera lirica patrimonio immateriale Unesco

belcanto.jpg

Angelo Forgione – Parte la petizione mondiale per il Belcanto e l’Opera lirica patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, iniziativa della fondazione Univerde di Alfonso Pecoraro Scanio, già artefice del riconoscimento per l’Arte dei pizzaiuoli napoletani.
La terza firma in assoluto è la mia, e pure la grafica ufficiale dell’iniziativa, che girerà il mondo con il Real Teatro di San Carlo sullo sfondo. Perché si tratta del gran teatro che, ricalcando la pianta del più piccolo Teatro Nuovo di Napoli, ha fatto da modello alla Scala di Milano, aprendo la strada a tutti i teatri a ferro di cavallo nel mondo; perché sono in Italia i più importanti teatri lirici del mondo e a Napoli quello più antico; perché tutti i più noti cantanti lirici conoscono le arie più famose italiane, ma anche canzoni napoletane come ‘O Sole mio, eseguite in tutti i repertori del mondo; perché gli istituti di formazione musicali nel mondo prendono da Napoli il nome di “Conservatorio”.

Per firmare la petizione online clicca qui

petizione_opera

La storia del Teatro, dell’Opera, della Musica Sacra e della Canzone, di cui Napoli è protagonista, la leggete su Made in Naples (2013) e su Napoli Capitale Morale (2017)

Sarri come nessun napoletano mai

Angelo Forgione – Un imbarazzato inviato di JuventusTV in piazza San Carlo a Torino documenta i festeggiamenti per il 7° scudetto bianconero consecutivo, quello del #my7h, tra l’altro conteggiandone 36.
Non è però questo il tema del giorno del mitologico tricolore della Juventus. Tiene banco la sospensione della partita Sampdoria-Napoli per cori discriminatori contro i napoletani, sollecitata da Maurizio Sarri, che il razzismo contro Napoli l’ha sempre denunciato, mostrando persino il dito medio a un manipolo di “calorosi” tifosi juventini prima della partita allo Stadium. C’è voluto lui, toscano di Bagnoli, per fare quello che avrebbe dovuto fare qualche napoletano prima di lui, e questo è storico almeno quanto il record di punti della storia azzurra. Forse ha salutato i napoletani così.

Il piano traffico per l’Opera nella Napoli Capitale

Angelo Forgione – I dispositivi del traffico erano già realtà nella Napoli del 1820. Era l’epoca di Rossini e Barbaja. Davanti al Real Teatro di San Carlo, il teatro più famoso d’Europa, il tempio della Musica, in occasione degli spettacoli andava in vigore una vera e propria ZTL ante litteram.
Le carrozze dovevano partire dal largo del Maschio Angioino ed infilarsi nella “galleria delle carrozze”, il porticato del Teatro. Quelle dei “privilegiati” potevano sostare nei pressi, mentre le altre dovevano circolare lungo la via Toledo e la via Santa Brigida, per poi tornare a sostare al punto di partenza, nei pressi del Castello.
Chi, all’uscita, non gradiva mettersi in fila per attendere la propria carrozza poteva aspettarne il passaggio a San Ferdinando (attuale piazza Trieste e Trento), o di fianco al Teatro oppure al principio di via Chiaia, dove era il Caffè della Meridiana (oggi ristorante Rosati).

tratto dal Giornale delle Due Sicilie

ztl_napoli1820

Una targa per celebrare l’antica amicizia tra Napoli e la Russia

Scoperta a Napoli, al principio della via Toledo, incrocio via Nardones, la targa commemorativa delle relazioni tra la città e San Pietroburgo, inaugurate nel 1777, quando a Napoli si trasferì il primo ambasciatore ad aver mai rappresentato la Russia sul suolo italico. Si trattava di Andrey Kirillovich Razumovsky, e prese domicilio proprio nel Palazzo Pescolanciano di via Nardones 188.

napoli_russia

Le relazioni divennero profonde e legarono da fraterna vicinanza il re Ferdinando di Borbone e l’Imperatrice Caterina II. Napoli divenne la culla dei migliori talenti russi della musica, della pittura e della scrittura. Giovanni Paisiello, Tommaso Traetta e Domenico Cimarosa, nel secondo Settecento, furono maestri di cappella e direttori dei Teatri imperiali di San Pietroburgo, allora capitale russa. Nel 1794 il napoletano Josè de Ribas, nato dal matrimonio tra il console spagnolo e un’aristocratica irlandese, fondò la città di Odesso, col nome dell’antica colonia greca, sulla base di Khadjibev, un villaggio periferico sul Mar Nero. Fu l’Imperatrice a femminilizzare il nome di quella che divenne per sempre Odessa. Il legame tra i due Paesi, durante la riconquista del Regno da parte dei Borbone di Napoli dopo la repubblica giacobina del 1799, produsse l’aiuto militare russo a favore dell’Armata della Santa Fede del cardinale Ruffo.
Con il boom del gusto neoclassico, l’architetto di origine napoletana Carlo Domenico Rossi, naturalizzato e russificato Karl Ivanovič perché figlio di una ballerina russa di scena a Napoli, riempì di monumenti San Pietroburgo, compreso il teatro Alexandrinsky, con facciata molto somigliante a quella del San Carlo, dove andarono in scena i successi napoletani. Il gemellaggio culturale Napoli-San Pietroburgo divenne anche commerciale, cosicché a Kronstadt, una località isolana di fronte la capitale russa, fu realizzata una fabbrica siderurgica identica a quella di Pietrarsa, visitata e tanto ammirata dallo Zar Nicola I, affettuosamente ospitato a Napoli da Ferdinando II alla fine del 1845 per consentire alla malata zarina Aleksandra Fëdorovna di giovarsi del clima della Sicilia, e grato nel ricambiare con due pregevoli cavalli di bronzo con palafrenieri, identici alle statue di ornamento del ponte Aničkov di San Pietroburgo, che furono sistemati all’ingresso dei giardini del Palazzo Reale, di fianco al San Carlo. A Napoli iniziarono a giungere grandi forniture di eccellente grano duro russo di tipo Taganrog per le pregiate lavorazioni della pasta.
Durante la Guerra di Crimea, combattuta dal 1853 al 1856, la Russia si trovò a fronteggiare l’Impero ottomano, la Francia e il Regno Unito. La coalizione nemica chiese l’aiuto del Regno di Sardegna dei Savoia, che accettò volentieri per garantirsi potenti amicizie, e del Regno delle Due Sicilie, che rifiutò di combattere contro gli amici russi, dichiarandosi neutrale, salvo poi offrire alla flotta russa i propri porti nel Mediterraneo per i rifornimenti. Alla fine della guerra, persa dai russi, Inghilterra e Francia ritirarono i loro ambasciatori da Napoli, che divenne paese nemico da punire quanto prima. Dopo soli quattro anni fu organizzata la caduta dei Borbone attraverso il finanziamento dell’esercito irregolare di Garibaldi, cui fu affidato il compito di invadere il Regno delle Due Sicilie e consegnarlo ai Savoia.
Nel 1898, proprio davanti a un tramonto sul mare di Odessa, Eduardo Di Capua trovò l’ispirazione per musicare la celebre canzone-capolavoro ‘O Sole Mio, parolata da Giovanni Capurro.
Da qualche anno si è diffusa la conoscenza del significato dei “Cavalli Russi”, comunemente ma erroneamente detti “cavalli di bronzo”. Ora la nuova targa ribadisce quella che fu forse l’unica vera amicizia dell’antico Regno di Napoli, quella con l’impero Russo.
Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato l’Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Federazione Russa in Italia, Sergey Sergeevich Razov, e il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris.

.
la notizia alla televisione russa