Una chiacchierata di buonora con gli amici di Vg21 MATTINA (Canale 21) attorno a qualche tema di Napoli svelata.
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Ferdinando di Borbone? Non meno istruito e intelligente di Carlo (e meno bigotto)
Angelo Forgione — Ferdinando di Borbone, venuto fuori dalle abili scalpellate di Antonio Canova, vi accoglie salutandovi nello scalone del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il più importante d’Occidente nel settore e il primo realizzato nell’Europa continentale, voluto proprio da lui stesso in carne ed ossa, nel secondo Settecento. Ma come? Un museo così importante voluto da uno zotico sovrano, un perdigiorno donnaiolo? Perché questa è la classica narrazione, assai banalizzata, risibile e parziale, che la storiografia ufficiale di matrice risorgimentale ci propone del secondo sovrano borbonico di Napoli. Lo si racconta profondamente ignorante, e non è che fosse assai acculturato, certo, ma a giudicare da quel che si legge qua e là pare che il suo celebratissimo genitore, Carlo di Borbone, fosse più istruito di lui, e nessuno si azzarda a dire che non lo fu affatto, e che piuttosto era anche molto più superstizioso e bigotto.
Ferdinando, per esempio, non cancellò nulla di ciò che creò, neanche quando arrivarono gli invasori francesi, a differenza di Carlo, che non esitò a far distruggere la Real Fabbrica di Capodimonte prima di andarsene a Madrid per impedire al figlio di proseguire le pregiate produzioni di porcellana, salvo poi scoprire che l’erede le aveva rimesse in piedi. Lo stesso Carlo che fece sterminare i gatti di Procida, per impedire loro di attentare alla vita dei fagiani della riserva di caccia isolana, salvo poi dover fare marcia indietro di fronte alla rivolta dei procidani per la conseguente proliferazione di topi.
Il diplomatico milanese Giuseppe Gorani scrisse nelle sue memorie così:
“Non solo Carlo III di Spagna non è più istruito del re di Napoli (Ferdinando), pur avendo ricevuta un’educazione meno cattiva, ma lo supera nei pregiudizi, e si rende ridicolo pretendendo d’essere sapiente”.
Ferdinando fece quanto Carlo per accrescere il prestigio di Napoli, e gli uomini del suo tempo glielo riconobbero serenamente. Il suo contemporaneo Goethe, autorevole osservatore tedesco, sapendo che la sua propensione ad uscire dalle stanze reali era dettata da un’educazione ricevuta per rafforzare in gioventù una salute incerta, ne tracciò un profilo veritiero nella biografia del pittore di corte Jacob Philipp Hackert:
“Non era solo la caccia, ma anche la vita all’aria aperta che lo manteneva in buona salute. Ciò che il Re ha imparato lo fa bene e con esattezza. (…) Tutto quello che sa, lo fa esattamente e se vuole apprendere qualcosa, non si dà pace fino a quando non l’ha imparato. Scrive abbastanza bene, velocemente; si fa capire, con buone espressioni. Hackert ha visto le leggi per S. Leucio, prima che fossero stampate. Il Re le aveva date ad un amico per farle correggere se ci fossero stati degli errori di ortografia. C’erano da cambiare pochissime cose e di scarsa importanza. Se lo avessero fatto studiare seriamente, invece di fargli perdere tempo con la caccia, sarebbe diventato uno dei migliori regnanti d’Europa”.
Chiedetevi perché Canova lo raffigurò neoclassicamente in certi panni che lui non indossò mai. Erano le vesti di Minerva, divinità della saggezza e delle arti. Ma come? La saggezza e la arti incarnate da un sovrano ignorante? Suvvia. Peccato che non si possa chiedere direttamente proprio a Canova, il quale vi direbbe di essere stato profondamente felice di avere in un territorio d’Italia un sovrano protettore delle arti. E già, perché questo Re molto napoletano, pur nella sua indole poco incline all’etichetta e nella sua insufficiente istruzione, fu artefice dell’atto culturale più significativo del secondo Settecento facendo costruire proprio il Real Museo, dove fece raggruppare tutti i tesori di famiglia, partendo dai preziosi reperti vesuviani, ai quali tolse la proprietà privata per donarli a Napoli.
In quel museo vi fece trasferire anche le preziosità scultoree dei Farnese, ereditate dalla nonna Elisabetta insieme a quelle pittoriche e oggettistiche già raccolte a Capodimonte, prelevando le imponenti statue da Roma per farle giungere via Tevere e mare a Napoli, amplificando enormemente il richiamo della Città. Chissà oggi dove sarebbe tutta quella ricchezza, se egli non fosse stato così lungimirante come il padre, e innamorato più del padre della sua città.
Ma Ferdinando fece altro ancora: esentò la ricca committenza privata napolitana dai dazi doganali affinché facesse lavorare gli artisti residenti oltreconfine e arricchisse i nobili palazzi della Capitale con importanti opere d’arte, proprio a partire da quelle di Canova.
Fu inoltre vero stimolatore di una rivoluzione agricola di cui beneficiamo tutti noi oggi, tra produzione di pasta di grano duro, coltivazione di pomodoro lungo, lavorazione della mozzarella di bufala, protezione della vitivinicoltura e tanto altro ancora, e se le abitudini alimentari napoletane sono così peculiari e “nazionali” è soprattutto grazie a lui, che fece da congiunzione tra la abitudini del popolo e quelle dell’aristocrazia.
Sviluppò l’artigianato di qualità, a partire da quello serico di San Leucio, e pur essendo cattolico superò le superstizioni del tempo circa i primissimi vaccini contro il terribile vaiolo (altro che Covid!), fregandosene degli iniziali anatemi della Chiesa e dello stesso cattolicissimo e bigotto padre per sottoporre se stesso e la sua famiglia a un pioneristico e rischioso esperimento di immunizzazione, la variolizzazione, al quale, dopo qualche anno, fece seguire l’avvio della prima vaccinazione di massa in Italia, resa obbligatoria per i bambini.
La verità è che Ferdinando fu decisivo quanto Carlo per la crescita del prestigio di Napoli e per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. E se lo si racconta come non si fa per il padre è perché paga nella reputazione le teste tagliate dopo la repressione della Repubblica partenopea del 1799, la propensione al diletto più che alla vita a corte e un trono perso e riconquistato più volte a cavallo della Rivoluzione francese e degli sconvolgimenti napoleonici.
Paga anche il fatto che era napoletano, e parlava napoletano, mentre il padre era madrileno di madre parmigiana. E non era piemontese come Vittorio Emanuele II, vero zotico senza alcuna sensibilità artistica ma di esclusiva cultura militare sabauda, volgare e rozzo sovrano della prima Italia unita, i cui uomini fecero occultare la preziosa statua di Canova al museo di Napoli. Tornò al suo posto solo negli anni Ottanta, quando il sovrintendente dell’epoca si mise in testa di rimettere a posto i conti con la storia.
Una nuova statua dedicata a Ferdinando di Borbone troneggia da oggi sulla rotonda che prelude alla strada che conduce al Real sito di San Leucio. Canova non c’entra nulla, ovviamente. È opera dell’artista don Battista Marcello, non bellissima, ma poco male. Conta che racconti la storia del territorio leuciano, nonché la lungimiranza e l’eccezionalità dello “Statuto di San Leucio”. E conta che, nonostante le resistenze e i mal di pancia di certi ambienti elitari, si proceda nel solco dell’attribuzione dei giusti meriti spettanti a questo sovrano assai bistrattato dai risorgimentalisti, quantunque sia stato figura fondamentale, quanto il padre [Carlo], per il progresso del popolo napoletano e non solo, almeno fino ai tragici e controversi fatti del 1799.
Per approfondimenti: Napoli svelata (Magenes, 2022), Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017), Made in Naples (Magenes, 2013) e Il Re di Napoli (Magenes, 2019).
La copertina svelata di “Napoli Svelata”

Angelo Forgione – Sì, per la copertina del mio nuovo libro Napoli Svelata ho scelto proprio le Chiavi della Città di Napoli, simbolo di apertura di uno scrigno di Cultura e Civiltà che fa parlare di sé da secoli. Uno scrigno in cui non si finisce mai di trovare avvenimenti interessanti, di scovare insospettabili espressioni di un eclissato universalismo.
Ho scelto questo simbolico oggetto perché un libro che svela è un libro che apre la mente.
Le due chiavi dorate, realizzate all’inizio dell’Ottocento, sono oggi esposte in un quadro-medagliere al secondo piano di Palazzo San Giacomo, antico Palazzo dei ministeri borbonici e oggi Municipio.
Spicca il Corsiero del Sole, il “cavallo sfrenato”, da me rappresentato in posizione ancor più rampante, più fedele a quello che, in quanto simbolo dello scalciante e indomito popolo napoletano, è emblema della Città dal XIII secolo e di tutti i territori peninsulari del Regno delle Due Sicilie, cioè del Regno di Napoli. Racchiuso nell’anello, è delimitato da una ghirlanda di foglie di quercia (forza e resistenza) e di alloro (sapienza e gloria) su cui troneggia una corona reale, quella dell’unico regno europeo che ha portato il nome della sua capitale.
L’attaccatura dell’anello al gambo è a forma di scudo (e speriamo che porti bene!), sul quale è inciso, in lettere corsive intrecciate, il monogramma CDN, (Città di Napoli), sintetizzato nella traduzione grafica con una semplice enne neoclassica, la stessa del titolo, a comunicare un periodo in cui Napoli capitale ha sconvolto il mondo riscoprendo il gusto classico con gli epocali scavi vesuviani.
Lo sfondo non ha bisogno di spiegazioni. È un panorama conosciuto dal mondo intero.
Trionfo napoletano per Alberto Angela

Angelo Forgione – Più di 4 milioni di telespettatori per Stanotte a Napoli, e quasi il 23 percento di share. A Natale!
Un trionfo partenopeo per Alberto Angela, che ha dato a Napoli la ribalta che le spetta portando una minima parte della sua essenza culturale e della sua anima popolare in prima serata su Rai Uno, in un Paese che, dal dopoguerra in poi, ha esaltato solo Roma, Firenze e Venezia, e poi anche Milano, snobbando una città che pochissimi sanno essere prima per densità e rilevanza del patrimonio museale.
Era la città italiana più importante al momento dell’Unità, la vera capitale del Paese che veniva unito con la forza da chi poi avrebbe evitato che fosse fatta davvero Capitale d’Italia nel 1864, perché altrimenti si sarebbe rischiato di non andare a Roma.
Ha dettato mode, usanze e costumi, ed è stata la più popolosa città italiana per secoli, fino al primo ventennio del Novecento.
Pur con i suoi affanni, è ancora un gran laboratorio, il più fervido del Paese, e gli uomini di conoscenza sanno che l’Italia ha bisogno di Napoli, della sua storia, della sua cultura, delle sue emanazioni internazionali. Raccontare la magnificenza d’Italia senza mettere anche Napoli al centro è atto autolesionistico che il Paese si permette da un secolo. Alberto Angela è tra quelli che hanno capito che non può più farlo.
Che piaccia o no, l’Italia senza Napoli è come Napoli senza il Vesuvio.
Macron a Napoli ricordando Stendhal
Angelo Forgione – Visita ufficiale a Napoli di Emmanuel Macron, dopo le belle parole espresse pubblicamente in una chiacchierata con Fabio Fazio di un anno fa. In quell’occasione, il Presidente della Repubblica francese si incanalò nel solco delle altisonanti parole di Stendhal durante il suo soggiorno partenopeo nel 1817. Stendhal che però mai scrisse ciò che anche Macron ha riverberato, e cioè che Napoli e Parigi erano, a suo parere, le due uniche capitali d’Europa. Scrisse, il letterato francese, qualcosa di assai più lusinghiero per la capitale borbonica, e cioè che era “senza confronti, la più bella città dell’universo”. Napoli anche più bella di Parigi, e napoletani molto più buoni dei piemontesi, stranieri in Italia quanto i francesi.
“Parto. Non dimenticherò né la strada di Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli: è, senza confronto, ai miei occhi, la città più bella dell’universo. […]
Napoli, nonostante le sue trecentoquarantamila anime, è come una casa di campagna posta al centro di uno splendido paesaggio. A Parigi non si sospetta che vi siano boschi o montagne nel mondo; a Napoli, ad ogni curva di strada, sei sorpreso da un aspetto singolare del monte Sant’Elmo, di Posillipo o del Vesuvio. […]
Questa baia così bella, che sembra fatta apposta per il piacere degli occhi, il lungomare delle colline che cingono Napoli, la passeggiata di Posillipo lungo l’aereo viale costruito da Gioacchino (Murat): tutto un mondo che è impossibile rievocare, com’è impossibile dimenticarlo. […]
A Napoli, la grossolanità di questa piccola gente, che ti insegue anche nei caffè, mi ha scioccato un po’. […] Sono mascalzoni, perché sono poveri, ma non sono malvagi. I veri cattivi in Italia sono i Piemontesi. […] il Piemontese non è più italiano del francese e puoi aspettarti di tutto da lui.”
Era la Napoli da poco uscita dalla dominazione napoleonica e dal regno di Murat, che pure si era innamorato della città al punto da abbandonare Napoleone alle sue guerre.
A distanza di due secoli, l’apprezzamento dei francesi per Napoli non si è affatto esaurito e la città vesuviana resta un riferimento culturale tra i principali per i transalpini.
Stendhal fu comunque polemico con i napoletani per una grande pecca che notava dopo la caduta di Napoleone, ovvero quella che i partenopei stessero perdendo consapevolezza di se stessi e iniziassero a coltivare solo uno cieco orgoglio campanilistico. Due secoli fa.
Il San Carlo oscurato con la cultura meridionale
Angelo Forgione – Niente diretta televisiva, neanche su Rai 5, per la prima del Real Teatro di San Carlo, a differenza del trattamento sempre riservato alla prima de La Scala su Rai 1.
Ad aprire la polemica, la sovrintendente uscente del Massimo napoletano, Rosanna Purchia, seguita a ruota dal sindaco Luigi De Magistris, anche presidente della fondazione lirica sancarliana. Il primo cittadino partenopeo dice di non essere lui a scoprire che il Sud è discriminato e che c’è grande attenzione per Napoli solo quando accadono fatti negativi, anche se questi avvengono a distanza di chilometri dalla città.
Chiamatelo pure populismo ma non vittimismo. È una cruda verità che alla cultura del Mezzogiorno non si renda giustizia e che l’immagine che se ne dà sia oggetto di processi di semplificazione e di caricatura. Lo ha certificato il professor Stefano Cristante, docente settentrionale di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, snocciolando nel libro La parte cattiva dell’Italia del 2015 un monitoraggio condotto insieme alla collega Valentina Cremonesi sugli argomenti trattati dal Tg1: dal 1980 al 2015, per trentacinque anni, solo il 9% delle notizie apparse sul telegiornale più seguito dagli italiani sono state dedicate al Sud Italia, e di questo 9% si è trattato per il 75% di cronaca e criminalità, seguito dal meteo e dal welfare, tradotto in malasanità. Lo stesso vale per il Corriere della Sera e per la Repubblica, che hanno dedicato al Mezzogiorno uno spazio sempre più marginale e dedicato quasi esclusivamente a due sole categorie: criminalità/cronaca nera e meteo/natura. Insomma, il Mezzogiorno è raccontato come terra della criminalità e del degrado.
Ciò per cui eccelle il Sud, sostanzialmente, non viene rappresentato, e non è solo un problema riferito a giornali o trasmissioni di chiara impronta discriminatoria. Alla prima della Scala erano presenti il Presidente della Repubblica Mattarella e tre ministri dell’attuale esecutivo di Governo. A Napoli nessuno a rappresentare lo Stato, neanche il ministro Franceschini, che pure ha capito le potenzialità di Napoli e della Campania. Va bene la centralità contemporanea della Scala, ma il San Carlo ha un’anzianità e una bellezza superiori alle quali Milano asburgica guardò per dotarsi di un teatro che somigliasse a quello borbonico. Il grande teatro lirico napoletano, fondamentale per la storia della Musica, meriterebbe un minimo di attenzione nazionale, anche per attribuire al Sud quel che è del Sud.
Ai responsabili dei palinsesti Rai e agli uomini della politica consigliamo l’approfondimento della figura settecentesca di Karl Joseph Von Firmian, governatore di Milano e grande appassionato della cultura di Napoli. Fu l’asburgico plenipotenziario a chiedere ai Borbone di poter disporre in Lombardia di Luigi Vanvitelli con i suoi due migliori allievi: il figlio Carlo e Giuseppe Piermarini. Quest’ultimo realizzò La Scala, dopo aver imparato a Napoli l’architettura teatrale, studiando i rilievi del Real teatro di San Carlo e il progetto vanvitelliano del Teatro di corte alla Reggia di Caserta. Roba che in quest’Italia non si studia, e neanche si divulga in tivù. Figuriamoci se si possa mai dare attenzione alla prima del San Carlo.
PROMOZIONE NATALE
È tempo di Natale, ed ecco la promozione degli apprezzati lavori di Angelo Forgione, da mettere sotto l’albero con un po’ di risparmio e con dedica dell’autore. Perché c’è tanta storia e cultura di Napoli, del Sud e d’Italia da conoscere, da regalare, da regalarsi.
Franceschini: «Campania unica al mondo per patrimonio culturale»
Angelo Forgione – Tre anni fa si era concentrato sulle potenzialità inespresse di Napoli, il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini:
«Se investe in cultura, Napoli è destinata a tornare una delle capitali mondiali del turismo, con tutto il patrimonio che ha».
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Ora, dal palco del Teatrino di corte al Palazzo Reale di Napoli, in occasione degli Stati Generali della Cultura, il ministro ha allargato l’encomio all’intera regione Campania.
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«Non c’è regione al mondo, e dico al mondo non solo in Italia, che ha la stessa potenza cultuale della Campania. Con arte, paesaggio, bellezza, archeologia, mare, creatività, teatro, storia, borghi, città d’arte, cinema, musica, sole, non c’è un posto al mondo che abbia questo patrimonio. Se si investe qua tutto diventa possibile. Il Ministero e il Governo saranno al fianco della Campania se come sistema economico e istituzionale investirà su se stessa, sulle proprie eccellenze».
Inconfutabili parole, ma è ormai necessario fare.
Incontro a Pompei
Un incontro con me per parlare di Napoli, di napoletanità, di una grande cultura universale, dei miei lavori e de “la grande storia del pomodoro da Napoli alla conquista del mondo”, ovvero de Il Re di Napoli, che, vi assicuro, non è per niente roba da poco. Facendovene conoscere la storia, potrei farvi cambiare il modo di assaporarlo.
L’arte del pizzaiuolo napoletano
Angelo Forgione – “L’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano” è riconosciuta come parte del patrimonio culturale dell’umanità, identificata come espressione di una cultura che si manifesta in modo unico, perché la manualità del “pizzajuolo”, cioè il mestierante della pizza nelle strade della Napoli del Settecento, non ha eguali e fa sì che questa produzione alimentare possa essere percepita come marchio di napoletanità, ma anche italianità, nel mondo.
Del resto, nella parola “pizzaiuoli” vi è una “u” in più a differenziare i napoletani dagli altri; u come unicità, u come universalità. I “pizzajuoli” venivano dal popolo, e il popolo sfamavano. Loro per primi hanno messo mano al pomodoro delle Americhe, unendolo al frumento della Mesopotamia, all’olio della Grecia, alla bufala e al basilico delle Indie; hanno messo insieme il mondo e hanno modellato la pizza mediterranea, che per circa tremila anni era rimasta bianca. È a Napoli che è nata come cibo di strada, ed è da Napoli che è divenuta ciò che è dappertutto, filante e meravigliosamente rossa.