Agnelli e De Laurentiis, esempi opposti di approccio al tifo deviato

Angelo Forgione Giunge la sentenza del Tribunale nazionale della Federcalcio nel processo ad Andrea Agnelli per i rapporti non consentiti con gli ultrà: un anno di inibizione per il presidente della Juventus e ammenda di 300 mila euro per il club bianconero. Solo parzialmente accolte le richieste del procuratore della FIGC Pecoraro, in quanto il Tribunale ha ritenuto che il patron bianconero era inconsapevole del presunto ruolo malavitoso dei soggetti incontrati. Strano, però, visto che in un’intercettazione telefonica del marzo 2014 qualcuno disse ad Alessandro D’Angelo, addetto alla sicurezza allo Juventus Stadium, «Il problema è che questo ha ucciso gente», riferendosi al milanese Loris Grancini, capo dei Viking, personaggio vicino ai clan siciliani e calabresi. Gli inquirenti informarono che quel qualcuno era Andrea Agnelli, ma poi si è fatto complicato capire se si trattasse del presidente o di Francesco Calvo, ex responsabile del marketing bianconero. In ogni caso, di dirigenti della Juventus si trattava.
Intanto sappiamo che le risorse derivanti dal bagarinaggio favorito da Agnelli e Calvo sono andate alla criminalità organizzata. Chissà se un giorno riusciremo a sapere anche perché Raffaello Bucci, capo del gruppo ultras bianconero dei Drughi, assunto dalla Juventus come consulente esterno ufficiale di collegamento tra la tifoseria e il club, in contatto con la Digos e servizi segreti, si suicidò dopo l’interrogatorio dei piemme che indagavano sulla ‘ndrangheta allo Stadium.
Atteniamoci però alla sentenza del Tribunale federale. Agnelli sapeva che erano ultras ma non sapeva che erano mafiosi. Ma la Juventus, in ogni caso, si segnala ancora una volta per violazione delle norme federali, stavolta quelle che vietano ai dirigenti delle società sportive di intrattenere rapporti con gli ultrà. E prosegue la non edificante tradizione della famiglia Agnelli, soprattutto quella del ramo di Umberto, il padre di Andrea, che avviò nel 1994, non appena conquistata la presidenza del club e dopo 8 anni di digiuno del club, l’era più macchiata della storia juventina, tra scandalo doping (prescrizione) e calciopoli.
Alla luce delle certezze fornite dalla sentenza, vale la pena ricordare quel che accadde più a sud nel 2004, quando Aurelio De Laurentiis si mise alla guida della SSC Napoli e tagliò ogni laccio con i rappresentanti degli ultrà delle curve dello stadio San Paolo. Dopo poco più di due anni, nel dicembre 2006, la prima ritorsione eclatante. Campionato di serie B: nel bel mezzo di Napoli-Frosinone improvvisa pioggia in campo di potentissimi petardi “cobra”, lanciati dal settore Distinti. Le intemperanze durarono diversi minuti e costrinsero l’arbitro Orsato a sospendere più volte la gara. La giustizia sportiva inflisse poi una giornata di squalifica al San Paolo. Le indagini scoperchiarono un fenomeno estorsivo ai danni del Napoli e appurarono che il club di De Laurentiis aveva tagliato la fornitura di biglietti alle sigle ultras capeggiate da pregiudicati. Per tutta risposta, gli “esagitati” avevano deciso di intervenire in maniera coatta, prima dando fuoco al “dirigibile” dello stadio destinato alla stampa e poi “manifestando” nella gara contro i ciociari. Uno dei responsabili così aveva minacciato un dirigente partenopeo: «Ho campato con il Napoli [di Ferlaino] per 50 anni, anche tu e Pierpaolo Marino (ex Dg) tenete i figli. Mi sono fatto quattro anni di galera, se ne faccio altri quattro non succede niente». Gli arrestati finirono a processo e condannati per associazione a delinquere, incendio doloso, lancio di esplosivi, minacce e tentata estorsione. E pagarono anche i danni al Napoli, che li chiese costituendosi parte civile. Tutto finito? Neanche per idea. Col Napoli in crescita, iniziarono a verificarsi strane rapine ai suoi calciatori e alle loro compagne. Un collaboratore di giustizia rivelò che le incursioni avevano un’unica matrice: gruppi di ultrà intenzionati a punire i giocatori che non partecipavano alle manifestazioni organizzate dai tifosi.
L’Antimafia, chiaramente, ha interrogato anche De Laurentiis nel corso delle indagini a tappeto sull’intero movimento calcistico italiano, contestandogli la presenza a bordo campo del rampollo del boss della camorra Lo Russo, ma esponendosi a una figuraccia con l’interrogato, che gli ha puntualmente ricordato che il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli aveva già chiarito illo tempore che quell’uomo non era un latitante al momento dei fatti, che accedeva regolarmente sul rettangolo di gioco con pass da giardiniere procuratogli dalla ditta che curava il prato, e che la SSC Napoli aveva offerto la massima collaborazione alla Direzione Investigativa Antimafia, dimostrando la sua totale estraneità.
E poi la querelle tra De Laurentiis e Reina, col presidente che, alla cena sociale dello scorso maggio, invitò pubblicamente la moglie del portiere a controllarne “le distrazioni”, e pochi giorni dopo furono arrestati tre fratelli imprenditori in odor di camorra, amichevolmente disponibili nei confronti di Pepe.
Racconto tutto questo perché i buontemponi del tifo cieco continuano ancora oggi a citare a sproposito fatti di cui il Napoli è stato esempio e di cui Napoli è stata vittima in ambito mediatico.

Loris Grancini parla ai microfoni di Fanpage nel marzo 2017

“Napoli inventò le zeppole, tutta Italia se ne leccò le dita.”

zeppola

Angelo Forgione – Festa di San Giuseppe, e si conclude la Quaresima, con la Pasqua alle porte. Una ricorrenza davvero molto sentita a Napoli almeno fino al secondo conflitto mondiale. Portava anticamente la fiera degli uccelli e quella dei giocattoli, che avevano luogo vicino alla chiesa cinquecentesca di San Giuseppe, da cui prendeva il nome l’intero rione di Monteoliveto, finché questa non fu demolita per il Risanamento, e allora la fiera fu spostata in via Medina. Oltre i volatili, si potevano trovare cuccioli di cani di tutte le razze, di gatti e di conigli. Di balocchi se ne regalavano più o meno come oggi a Natale e come, a quel tempo, all’Epifania. Non erano i figli a fare regali ai padri quando il 19 Marzo non era ancora la Festa del Papà ma una data particolare per i napoletani, perché segnava il cambio di stagione. Tutti gli uomini riponevano la bombetta nell’armadio per indossare la paglietta e i pantaloni bianchi di flanella. Anche le donne si alleggerivano un bel po’.
Il giorno del Santo, di fronte alla chiesa di San Giuseppe si disponevano le bancarelle con le zeppole, dolci fritti a forma di serpe avvitata su se stessa, una serpula, dal latino serpens. Qualcuno dice che furono inventate da un cuoco dei Borbone, cui sarebbe stato chiesto di preparare un dolce per la Quaresima privo di uova e di grassi animali, allora proibiti. Qualcun altro, invece, sostiene che la maternità sia tutta da attribuire, in tempi più antichi, alle monache dei decumani. Ad ogni modo, le antiche zeppole, secondo la prima ricetta, scritta nel ricettario in dialetto napoletano di Ippolito Cavalcanti del 1837, erano di farina buttata nell’acqua bollente arricchita da un po’ di vino bianco, e poi fritte con l’olio o con la sugna per averne un bigné da guarnire con zucchero o miele. Dopo qualche anno, la ricetta fu tradotta anche in italiano, perché le zeppole iniziavano a invadere l’Italia. Il filologo Emmanuele Rocco, nel secondo Ottocento, avrebbe voluto addirittura un monumento cittadino con la seguente epigrafe: “Napoli inventò le zeppole, tutta Italia se ne leccò le dita”. Doveva esserne ghiotto visto che le riteneva uno dei tanti privilegi che gli italiani avevano avuto in dono dai napoletani, lui che, da studioso di cose partenopee, aveva individuato anche una variante rettangolare destinata ai più poveri, detta “dello zeppolajuolo”, che vale a dire ‘o scajuozzolo, fatta con farina di granturco, fritta e priva di qualsiasi guarnizione, da cui l’uso del termine per definire anche la semplice pasta cresciuta. A farcire le zeppole di crema pasticciera, come si usa oggi, fu il pasticcere Pintauro. Lui, come tutti gli zeppolari, allestiva dei banchetti davanti alla bottega di via Toledo, friggeva e serviva direttamente in strada.
Quando, nel 1968, il giorno di san Giuseppe fu reso Festa del Papà, la fiera era già in via Medina e la zeppola era ormai famosa in tutt’Italia, conosciuta anche oltreoceano grazie agli emigranti. Da allora i ruoli si invertirono e iniziarono i figli a fare regali al proprio padre. Il Santo non proteggeva solo ogni papà ma anche, in modo specifico, tutti i falegnami, e di legno era il suo bastone, Un avanzo di questo legno, autentico o fasullo che fosse, finì a Napoli nel primo Settecento per essere custodito in una nicchia del palazzo di Chiaia del tenore Nicola Grimaldi, controllato a vista da un servitore il cui compito era quello di evitare che fosse toccato. “Nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe” era, in napoletano, l’esortazione a non usurare il sacro bastone, poi divenuta un diffuso e tipico modo di dire del popolo per invitare a non infastidire, mentre la famosa mazzarella finiva per essere tradotta nella congregazione di San Giuseppe dei Nudi a San Potito, in via Giuseppe Mancinelli, dove oggi è gelosamente conservata.

Napoli, Fiera di San Giuseppe in via Medina (Ph: Archivio Parisio – Renato Bevilacqua)

Jean-Noël Schifano illustra la disunità d’Italia nella città di Garibaldi

al C.U.M. di Nizza conferenza su “la désunité italienne”

Angelo Forgione per napoli.com  – Sempre affascinato da Napoli, Jean-Noël Schifano, direttore letterario per l’editrice Gallimard e critico di Le Monde, ovunque si trovi, descrive la Capitale con stile e ricrea il fascino di una civiltà che mantiene la sua autonomia culturale.
Schifano è stato protagonista mercoledì 4 giugno di una conferenza al Centre Universitaire Méditerranéen di Nizza dal titolo “la désunité italienne”. Sì, la disunità italiana, raccontata proprio nella città natale di Garibaldi. Un’ora e mezza di racconti storici, più un quarto d’ora di risposte alle domande dei più di 300 presenti, per descrivere la realtà meno nota del Regno delle Due Sicilie nel 1860, le sue eccellenze, e l’interruzione del progresso ad opera di Garibaldi il nizzardo, Bixio, Cialdini, Vittorio Emanuele II e Cavour, «i criminali», attraverso «le menzogne e i plebisciti falsati agli occhi di tutti e sempre benedetti dalla Repubblica italiana».
Il percorso storico è culminato nel disastro del presente, nel degrado sociale del Mezzogiorno di oggi che muore sempre più e non può trovare speranze nelle contraddizioni verbali del premier italiano Matteo Renzi, «un nanomachiavelli», prima lusinghiero in campagna elettorale europea nei confronti dell’antico Stato meridionale, a tal punto da eleggerlo a modello di rinascita economica, e poi offensivo subito dopo le elezioni.
Vibrante anche la denuncia del museo lombrosiano di Torino, definito da Schifano «un obbrobrio dell’umanità». Quando dal pubblico l’esposizione è stata definita “una sfumatura della storia”, Schifano ha risposto con decisione: «Fatti e date, caro Signore, fatti e date che il mondo intero può controllare… E, scusi, se lei scoprisse un bel giorno in un museo, su uno scaffale nuovo fiammante, in un boccale conservato da 150 anni, la testa del suo bisnonno, farebbe delle sfumature?» Applausi scroscianti in sala.
Significativa una citazione di Rocco Scotellaro: «Bisogna strappare le maschere con i denti…». Vera emozione del pubblico, unita alla commozione per le reclusioni nel forte di Fenestrelle e per la descrizione, con dovizia di particolari, di alcuni massacri commessi delle truppe piemontesi.
Schifano ha pure messo in evidenza le campagne denigratorie di cui Napoli è vittima da più di un secolo e mezzo, descrivendo per esempio le varie copertine de l’Espresso, tra cui l’ultima titolata “Bevi Napoli e poi muori”: «Innumerevoli umiliazioni per coprire la sola Città capitale d’Italia di onta identitaria e rinforzare a spazi regolari, da 154  anni, una xenofobia storica degna dei peggiori colonizzatori».
«Non immaginate – ha detto l’intellettuale francese – con quanta rabbia Napoli e il Sud stiano riprendendosi sempre di più l’identità rubata, nonostante tutte le razzie economicamente mortali che da 154 anni si sono fatte, da Marsala alla Campania Felix. E questo grazie anche al coraggio di scrittori come Pino Aprile e Angelo Forgione (ringraziamenti, NdR), determinati a pubblicare libri-verità accecanti».
Chiusura con una sentenza: «A giudicare dalla partecipazione, Garibaldi, a Nizza, sembra “seppellito” da molto tempo».

La Coldiretti e il compleanno sbagliato della pizza “margherita”

l’associazione festeggia i 125 anni di una pizza che ne ha almeno 204

Angelo Forgione per napoli.com – A rammentare il 125esimo anniversario della pizza “margherita” è la Coldiretti, e sbaglia. Lo fa riferendosi alla lettera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, che nel giugno del 1889 convocò il cuoco Raffaele Esposito della pizzeria “Pietro… e basta così” al Palazzo di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse per Sua Maestà la Regina Margherita le sue famose pizze. Ma, come attestato da ormai noti testi ottocenteschi, Raffaele Esposito, in quell’occasione non inventò la pizza con pomodoro, basilico e mozzarella ma la fece semplicemente conoscere alla regina piemontese. Già nel 1866, infatti, il filologo Emmanuele Rocco, nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti del 1858, coordinato da Francesco de Bourcard, parlò di combinazioni di condimento con ingredienti vari, tra i quali basilico, “pomidoro” e “sottili fette di muzzarella”. E le fette, distribuite con disposizione radiale, disegnavano verosimilmente il fiore di campo su una pizza che Raffaele Esposito avrebbe proposto quarant’anni dopo alla regina sabauda.
La nascita della “margherita” è databile all’inizio dell’Ottocento, ben in anticipo rispetto all’omaggio ai Savoia di Raffaele Esposito. Del resto la produzione della mozzarella fu stimolata nei laboratori della Reale Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, un innovativo laboratorio avviato nel 1780, mentre il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in dono al Regno di Napoli dal Vicereame del Perù, e ne fu subito radicata la coltura nelle terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico produsse una saporitissima varietà. È dunque assai arduo credere che i napoletani abbiano potuto metterci più di cento anni per versare pomodoro e mozzarella, insieme, su una pizza.
Il fatto è che si ignora il Regolamento UE n. 97/2010 della Commissione Europea riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010 accreditante la denominazione Pizza Napoletana STG nel registro delle specialità tradizionali garantite, che al punto 3.8 dell’Allegato II, riporta testualmente:

“Le pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “margherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico) che ricordano la bandiera dell’Italia.”

Offerta alla regina d’Italia, dunque, non inventata per la regina d’Italia. La pizza “margherita” di anni ne ha almeno 204.

ESCLUSIVO – Il chiarimento della Gialappa’s Band

Incontro telefonico con Marco Santin del trio vocale al centro di una burrasca

Angelo Forgione – Bufera sulla Gialappa’s Band dopo il commento all’esibizione di Rocco Hunt a Sanremo. La battuta alla richiesta di alzare le mani del giovane artista salernitano e, soprattutto, quel «ma chi se ne fotte delle terra dei fuochi» ha aperto il fuoco contro Marco Santin, Carlo Taranto e Giorgio Gherarducci, le tre voci che da anni regalano sorrisi con la loro comicità dissacrante. Stavolta qualcosa è andato storto. Può succedere a chi, da un trentennio, lavora con le parole su un canovaccio ma senza un copione scritto. La protesta è partita subito tramite i social network, anche con toni eccessivamente accesi e persino minacce decisamente condannabili. Ho immediatamente detto la mia: nessun razzismo, ma su certi temi sarebbe meglio non scherzare, e quella non è stata una battuta riuscita ma un fortuito “autogollonzo” che ha urtato la suscettibilità di tanti cittadini di una terra stremata e stanca per mille motivi. La guardia è ormai molto alta, ma non deve tradursi in accuse prive di contenuti, insulti e intimidazioni che neanche la solidarietà di buona parte del pubblico della Gialappa’s ha potuto neutralizzare.
Marco Santin, a nome del trio, ha sentito la necessità di contattarmi telefonicamente per andare oltre il vespaio creatosi su facebook e chiarire l’accaduto.

A. F.: Un bel pasticcio, ragazzi. Ho detto subito che quella sulla terra dei fuochi non era una battuta razzista benché inopportuna, ed è chiaro che stavate esternando con il vostro stile scanzonato l’eccessivo buonismo – dal vostro punto di vista – del testo della canzone di Rocco Hunt. Potevate risparmiarvela, ma dal momento che in tantissimi non hanno compreso il senso della vostra ironia, volete spiegare il senso di quell’uscita?

M. S.: Il senso della nostra uscita riguardo alla canzone di Rocco Hunt, al primo ascolto, era di stupore perché arrivava da un rapper, e i rapper sono solitamente pronti alla protesta. È su quello che abbiamo fatto le nostre considerazioni. Il famoso «la terra dei fuochi… ma chi se ne fotte» era come interpretare il messaggio della canzone e doppiare idealmente Rocco. Qualcuno poi ha messo in rete uno spezzone audio che è solo una parte di quello che abbiamo detto, ma noi prima avevamo detto «questo è il rapper dello sticazzismo… tra poco la protesta la faranno i Peppino di Capri». Mai e poi mai avremmo potuto dire che non ce ne importa della terra dei fuochi, visto che ce ne stiamo occupando con Le Iene. Ma tutto questo è successo in diretta al primo ascolto di venerdì, mentre invece nella serata finale di sabato, risentendo il pezzo, due di noi hanno pure detto che in fondo il messaggio della canzone era un sogno, e ci poteva stare. Ecco, è forse il caso di chiedere scusa a Rocco per avergli messo in bocca parole che non direbbe mai.

A. F.: E quella battuta sui compari scippatori di Rocco Hunt pronti al raid? Ammettetelo, era banalissima, trattandosi di un meridionale.

M. S.: La battuta sul compare di Rocco l’ho fatta io e ne ho già spiegato la genesi. È nata perché lui ha detto «alzate entrambe le mani» e mi è venuta spontanea, ma ti posso assicurare che l’avrei fatta anche se lui fosse stato di Parigi, Oslo, Milano o Torino. Non è la battuta più divertente della storia perché un po’ banale, si, ma neanche una battuta che possa giustificare la rivolta. Infatti non credo, leggendo i vari commenti, che il problema fosse quella battuta.

A. F.: A tre giorni dall’accaduto, con tutto quello che avete letto e sentito, credo che abbiate percepito che, tra esagerazioni e toni più moderati, a Napoli e in Campania c’è qualche nervo scoperto. Insomma, c’è un bel po’ di gente che s’è stufata. Lo percepite dal vostro osservatorio milanese?

M. S.: Personalmente, sapevo già da tempo che in Campania c’è più di qualche nervo scoperto perché ho molti amici a Napoli e dintorni. E se posso dire un mio parere, hanno perfettamente ragione ad essere arrabbiati.

A. F.: Mi tocca farvi una scontata citazione. C’è un grande artista mai scomparso che si chiama Massimo Troisi, il quale non umiliava la sua gente scherzando sui luoghi comuni ma ci giostrava a suo favore per inviare messaggi sociali, da napoletano e meridionale stanco di una certa visione stereotipata. Avete pensato che forse la canzone di Rocco Hunt, pur nella sua semplicità, contenga un messaggio non buonista ma normalista, nel senso che rivendichi il diritto alla normalita? Fermo restando che i problemi sono grossi, voi che stimolate il buonumore, credete che si possa essere positivisti quando si parla della Campania o si deve per forza comunicare la Gomorra?

M. S.: Ovviamente, come ci hanno insegnato non solo Massimo Troisi ma anche Totò, certo che si può affrontare i vari argomenti con leggerezza anche scherzandoci su… e loro erano talmente grandi che riuscivano a farlo in maniera impeccabile. Due grandi maestri come ho già detto in tantissime interviste nel corso della nostra carriera.

A. F.: Facile capire l’equivoco, ma credo che l’esperienza vi basti per capire che non è il caso di scherzare sulle tragedie. Insomma, “mai dire chi se ne fotte”.

M. S.: Appunto, mai diremmo chi se ne fotte di un tema del genere.

Lotto e Tombola, tradizione ebraica e fantasia napoletana

Lotto e Tombola,
tradizione ebraica e fantasia napoletana

di Angelo Forgione
per napoli.com

È il gioco della sorte legata ai numeri inventato a Napoli nel 1734, adottato all’estero e rigirato a noi sotto altro nome (Bingo). Si tratta della Tombola la cui genesi si lega all’esoterismo e più precisamente alla cabala, detta anche càbbala o più esattamente Kabbalah, dall’ebraico qabbàlàh che significa ricezione, con la quale si indicano le dottrine mistico-esoteriche ebraiche, riferite a Dio e all’universo, rivelate ad una cerchia ristretta di persone e poi tramandate di generazione in generazione.
Secondo la qabbàlàh, nella Bibbia non esiste parola, lettera o numero privo di un significato celato, nel solco del simbolismo sul quale si basa il mondo stesso. Su questa base i cabalisti formarono una dottrina interpretativa che formulò una concezione secondo la quale, utilizzando la correlazione numerologica tra lettere e numeri, era possibile calcolare il numero preciso corrispondente ad ogni parola. A tutto ciò si unì la convinzione che i sogni fossero lo sfogo comunicativo delle forze extra umane, capaci però di manifestarsi anche tramite accadimenti naturali che venivano considerati segni del destino, e subito tradotti in numeri.
Si maturò così la codificazione e la numerazione dei simboli onirici e fisici che divennero elemento per tentare la fortuna nella Napoli del ‘700, città esoterica per antonomasia, dove il Lotto nacque come gioco popolare benché clandestino.
Resa indipendente Napoli nel 1734, il re Carlo di Borbone, nel suo illuminato progetto di sviluppo sociale e di accrescimento culturale, volle ufficializzare il gioco del Lotto nel Regno per strapparlo alla clandestinità che sottraeva entrate alle casse dello Stato.
Trovò però l’opposizione del frate domenicano Gregorio Maria Rocco, uomo di grande carisma e potere, noto in tutta la città perchè capace di ispirare numerose iniziative grazie alle quali la delinquenza fu decisamente arginata.
Il frate riteneva eticamente sbagliato introdurre un simile gioco in un regno in cui gli insegnamenti cattolici erano alla base del fondamento educativo.
Si arrese al Re quando questi lo convinse che il Lotto, se giocato clandestinamente, avrebbe potuto arrecare danno alle tasche dei sudditi.
I due contendenti strinsero un patto secondo il quale il gioco del Lotto sarebbe stato sospeso nella settimana delle festività natalizie per evitare distrazione al popolo in preghiera.
Ma ormai quel gioco era entrato nel costume dei cittadini che a quel punto, per non doverne fare a meno, si organizzarono per conto proprio.
Fu così che la fantasia popolare fece in modo che i novanta numeri del lotto fossero infilati nei cosiddetti “panarielli” di vimini e ognuno si disegnasse delle cartelle improvvisate con dei numeri scritti a caso. Il gioco pubblico del lotto divenne gioco familiare della tombola, figlio quindi del matrimonio tra il Lotto stesso e la fantasia dei Napoletani.
La parola “tombola” deriverebbe da tombolare, ovvero roteare e far capitombolare i numeri nel “panariello”.
Gioco natalizio per eccellenza, proprio perché nato nel Natale del 1734, ma la Tombola è giocata a Napoli durante tutto l’anno nei quartieri popolari dove per tradizione possono partecipare esclusivamente donne che seguono la chiassosa chiamata dei numeri effettuata dai “femminielli”, mentre agli uomini è consentito solo assistere fermi sulla porta o alla finestra.

Crolli a Pompei, cosa c’è dietro? (intervista a Radio SBS Australian Network)

Crolli a Pompei, cosa c’è dietro?

intervista a Radio SBS Australian Network

6 Novembre 2010: crolla la “Schola Armatorarum” detta anche Domus dei Gladiatori. Un pezzo di patrimonio unico al mondo che l’Italia perde per sempre. Disponibile online l’intervista ad Angelo Forgione sul crollo di Pompei concessa al prestigioso network australiano “SBS Radio” in cui si tenta di fare chiarezza sulla situazione.