Da Portici un segnale di dialogo per il Sud

Angelo Forgione “Noi, Terroni!”. È questo il nome del riuscito evento pensato dal senatore Sergio Puglia e voluto per far incontrare il Movimento 5 Stelle campano e la cultura meridionalista. Io, Pino Aprile e Gennaro De Crescenzo siamo stati accolti al Fabric di Portici (NA) dalla pattuglia campana dei pentastellati composta dallo stesso Puglia, da Valeria Ciarambino, da Maria Muscarà, da Gennaro Faiello e dal candidato sindaco di Portici “città borbonica” Giovanni Erra. Oltre due ore di dibattito, moderato da Luca Pepe (Europportunity) e coordinato da Alessandro Ciaramiello (M5S), in una sala affollatissima e pregna di consapevolezza, voglia di conoscenza e sentimento di riscatto.
Una serata importante per supportare dall’esterno, senza implicazioni partitiche o vincoli di sorta, le significative mozioni dei consiglieri regionali meridionali M5S per il “Giorno della memoria per il Sud” (il 13 febbraio, nel ricordo dell’inizio della fine a Gaeta, nel 1861) e gli interventi a favore del Sud di Sergio Puglia in Parlamento. Il primo vero incontro tra una forza politica e il “movimento” culturale meridionalista.
Quello di Portici è un segnale importante, dal quale può forse nascere una coscienza politica diversa, non contaminata da quegli estremismi e isterismi storici che fin qui hanno condizionato un sereno dibattito sociologico tra chi chiede più Sud nelle aule romane e chi è chiamato a raccogliere il disperato grido del Mezzogiorno.

Eduardo e l’influenza della politica

Angelo ForgioneNei giorni scorsi, dalle pagine de Il Mattino, il maestro Roberto De Simone ha espresso il suo parere sulle “celebrazioni defilippiane” in corso. Il contenuto revisionistico del suo scritto è tanto coraggioso quanto, a mio parere, condivisibile in diversi passaggi, perché condanna l’apologetica che non aiuta a comprendere i nostri fondamenti culturali. De Simone, da persona che ha certamente voce in capitolo, ha sviscerato con apparente azzardo i limiti sopraggiunti dell’opera eduardiana, consacrata nel momento in cui si fece meno genuina e “napoletana”, senza dimenticare i sempre vivi lampi di genio, e concludendo con una cruda constatazione:
“in Italia, con la fine dell’egemonia democristiana, l’avanzata al potere delle sinistre produsse un ulteriore consolidamento del mito eduardiano, avviando la nominanza del drammaturgo a traguardi agiografici. In questo modo la politica fece propri i temi filumeneschi, cupielleschi, jovineschi, ricambiando l’attore con la nomina di senatore a vita, e con una eduardoteca prodotta dalla televisione di Stato. L’imbalsamazione era compiuta già in vita.”
E proprio questo pensiero finale che aiuta a comprendere appieno lo “sfogo” di Roberto De Simone circa un grande interprete internazionale del teatro napoletano che ebbe evidentemente buon sostegno dal mondo politico di sinistra (mentre la DC gli impedì di aprire una sua scuola di recitazione). Fu evidentemente quel mondo ad affermare, e quindi ad influenzare, la figura del secondo Eduardo, diversa dal primo. E mi è venuta in mente una cruda intervista rilasciata proprio da Peppino, che col fratello Eduardo interruppe ogni rapporto anche umano dopo il furioso litigio del 1944, allorché, durante le prove di uno spettacolo, fu da lui rimproverato davanti a tutta la compagnia e gli rispose «Duce… Duce… Duce…», con tanto di saluto romano. Un’offesa insopportabile per chi detestava un Regime che bandiva l’umanità plebea del neorealismo e ostacolava le opere in linguaggio napoletano. Peppino, nella sua amara confessione, denunciava la sensazione di un boicottaggio politico nei suoi confronti, voluto dall’ambiente di Eduardo, fatto senatore a vita da Sandro Pertini, un ex partigiano, con investitura nel 1981. Vittorio Gleijeses, in La Storia di Napoli, aveva già scritto coraggiosamente che tra i suoi tanti meriti vi era anche la colpa imperdonabile “di aver distrutto la maschera di Pulcinella nella commedia Il figlio di Pulcinella”. Ed è significativo che proprio nell’aula di Palazzo Madama sia stata celebrata la sua figura lo scorso 31 ottobre.
Nulla toglie al valore di Eduardo, drammaturgo rappresentato in tutto il mondo già dal 1947, ma semmai aggiunge elementi di riflessione critica più profonda e meno solenne sulla storia d’Italia.

La questione meridionale nella crisi internazionale

Nola dimostra che il Sud cresce se non ci sono infiltrazioni mafiose

La crisi internazionale sembra aver fatto dimenticare il principale problema italiano: la questione meridionale. In pochi ne parlano, ormai sempre più fuori dall’agenda politica. La redazione di Rai Parlamento ha analizzato proprio la questione meridionale nell’ambito della recessione continentale. Invitati a parlarne, Adriano Giannola (presidente Svimez – associazione degli economisti per lo sviluppo del Mezzogiorno), Nicola Morra (Movimento 5 Stelle) e Mario Marazziti (Scelta Civica per l’Italia). Tutti con toni meridionalisti fortemente avversi alle politiche dello Stato dall’Unità ad oggi. Infine, un viaggio nell’eccellenza del Distretto di Nola, dimostrazione di un Sud virtuoso che, messosi autonomamente in condizione di non essere divorato dalla criminalità organizzata, è stato capace di decollare e primeggiare. Ecco perché, se prima lo Stato non farà il suo dovere, non ci sarà mai un Sud competitivo. Altro che piagnistei.

L’8 Dicembre nella storia delle Due Sicilie

Immacolata Concezione patrona delle Due Sicilie

di Angelo Forgione (per napoli.com)

La celebrazione dell’8 Dicembre riporta alla memoria storica della Festa Nazionale dell’antico Regno delle Due Sicilie in cui la devozione mariana era fortissima nel clero, nel popolo e nelle istituzioni. L’Immacolata Concezione era infatti la Patrona speciale della Patria Napolitana, Terra dedicata alla Madre del Signore la cui festività era molto sentita nell’antico stato meridionale pre-unitario fondato su forti valori cattolici. Si può dire che era, ed è ancora oggi, uno dei perni principali sui quali ruotava tutta la religiosità del popolo del Sud.
Fu proprio l’8 Dicembre del 1816 la data in cui, dopo il periodo napoleonico della città, i due regni di Napoli e di Sicilia furono riuniti come Regno unito con quella che fu detta “legge fondamentale del Regno”. Ferdinando non fu più il re di Napoli e di Sicilia ma il Re delle Due Sicilie.
Passarono quaranta anni esatti e l’8 Dicembre del 1856 fu un’altra data storica per le sorti del Regno. Nel giorno della festività nazionale della patrona, il Re Ferdinando II, dopo la messa a cui la famiglia reale si recava comunque quotidianamente, si recò alla festosa sfilata delle truppe nazionali a quello che all’epoca era il Campo di Marte, l’attuale Capodichino. Fu li che subì l’attentato di Agesilao Milano, un soldato che uscì dalle righe e gli si scagliò contro colpendolo due volte con la lama della baionetta. Il Re fu ferito ma rimase stoicamente al suo posto e, dopo essere tornato a Palazzo Reale, fu visitato dai medici con esito tranquillizzante. Per ringraziare la patrona del “miracolo”, fu decisa l’edificazione di un tempio all’Immacolata al Campo di Marte la cui prima pietra fu posta dopo otto mesi di raccolta di offerte volontarie. La chiesa dell’Immacolata Concezione è ancora oggi molto nota e si trova in Piazza Giuseppe Di Vittorio, all’imbocco del Corso Secondigliano.
Nel saggio del professor Gennaro De Crescenzo “Ferdinando II di Borbone – la patria delle Due Sicilie” si fanno ipotesi sull’agonia lenta e oscura del Re morto nella primavera del 1859, qualche anno dopo l’attentato di Agesilao Milano. Secondo il parere del professor Gino Fornaciari, ordinario di Storia della Medicina e Direttore della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, l’attentato ebbe la sua importanza postuma poiché il decesso sarebbe sopraggiunto a causa delle ferite trascurate. Un attentato riuscito dunque, anche se differito di un paio d’anni, che ebbe il suo peso nell’attuazione del progetto sabaudo di “piemontesizzare” il sud.
Il regicida venne processato in circostanze sospette, velocemente condannato e giustiziato prima che potesse confessare istigatori e complici del suo atto scellerato. Lo stesso sovrano, il giorno dell’esecuzione, avrebbe ipotizzato una grazia ma sarebbe stato dissuaso dal generale Nunziante che giustificò quell’intransigenza con il rispetto per la corona. Il generale Nunziante, unica persona ammessa a parlare con l’attentatore la notte prima del processo, qualche mese dopo tradì quella corona e passò al servizio di Vittorio Emanuele II dopo aver avuto frequenti contatti con Cavour che, come pare da documenti d’archivio, lo ripagò con quattro milioni di lire dell’epoca.
Il Regno restò scoperto e indebolito, privo di un uomo di forte decisionismo. All’erede Francesco II toccò l’impossibile compito di fronteggiare le cospirazioni e l’accerchiamento degli uomini che si erano già venduti al nemico. La spedizione dei mille garibaldini e l’assedio di Gaeta completarono il piano piemontese, finchè proprio l’8 Dicembre del 1860, sempre nel giorno fatale dell’Immacolata Concezione, il giovane re firmò un toccante e accorato proclama reale ai popoli delle Due Sicilie col quale comunicò ai “Napolitani” la resa all’invasore e la sparizione del più antico regno d’Europa di Ruggiero il Normanno e dell’antica monarchia di Carlo III.
Il lungo documento finiva appellandosi alla fede e all’ora della giustizia. Le ultime righe recitavano così: «Preghiamo il sommo Iddio e la invitta Immacolata protettrice speciale del nostro paese, onde si degnino sostener la nostra causa».

«Napoli fuori, era l’unico modo per stare in Europa»

«Napoli fuori, era l’unico modo per stare in Europa»

il leghista Buonanno infila un’altra “perla”

Il cattivo gusto dei leghisti non ha confini. In aula alla Camera dei Deputati Gianluca Buonanno ha sputato veleno su Napoli strumentalizzando l’eliminazione della sua squadra di calcio dalla Champions League in occasione della discussione del decreto rifiuti.
«Allora, capisco che oggi i napoletani siano tristi perché ieri sono usciti dalla Champions league  ha detto Buonanno – e quindi sono anche un po’ più arrabbiati per quanto riguarda il tema della raccolta dei rifiuti visto che non hanno più modo di divertirsi dato che non sono capaci di stare in Europa neanche nel calcio. Era l’unico modo che avevavano per stare in Europa, ora neanche quello…».
Chi è il parlamentare Gianluca Buonanno? Colui che, di nonno pugliese,  porta il “Grana Padano” come prova inconfutabile d’esistenza della Padania indipendenteBuonanno è sicuramente attento ai “veri” problemi del paese e convinto assertore della superiorità virile dei settentrionali rispetto ai meridionali: «l’uomo che risiede al nord è più concreto, ama meno le chiacchiere e girare attorno alle cose. Insomma, va prima al sodo, per questo seduce di più. Noi del nord ce l’abbiamo più duro, come dice da sempre Bossi», disse alla trasmissione radiofonica di Klaus Davi. Forse è per ottenere il risultato che ha concesso nel 2003 uno sconto del 50% sul prezzo del Viagra ai cittadini di Varallo e gratuito ai prostatici ancora vogliosi.
Su Buonanno, che è juventino e l’Europa quest’anno l’ha vista solo alla tv, se ne potrebbero dire tantissime, continuando con le sagome di vigili cartonati per le strade, ma meglio fermarsi ai complimenti per essere meritevolmente tra i più presenti in aula: solo l’1,80% di tasso di assenza. Peccato però che nella classifica degli indici di produttività parlamentare è solo 483mo su 630 deputati. Va da sé che lui al parlamento ci vada eccome, ma a sprecare fiato. E si vede.

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13 Febbraio 1861, a Gaeta finiva l’indipendenza del Sud

Il tragico assedio di Gaeta mai raccontato nei testi scolastici

di Angelo Forgione per napoli.com

7 Settembre 1860: Garibaldi arriva a Napoli lasciando dietro di sé le “conquiste” siciliane e il re Francesco II di Borbone, per risparmiare disordini e distruzioni alla capitale, lascia Napoli, stabilendo la base operativa militare per l’ultima difesa del regno nella Piazzaforte di Gaeta.

Ormai, l’esercito borbonico, indebolito dai tradimenti al soldo dei corruttori, può ben poco contro il fuoco delle truppe di Vittorio Emanuele II di Savoia capeggiate dal furioso generale Cialdini, che si appresta a scippare il posto dei garibaldini e a raccogliere i frutti della strumentale spedizione al Sud con l’ultima battaglia, la più sanguinosa: quello di Gaeta.

Si tratterà, come per la Spedizione dei Mille, di un attacco che violerà tutte le regole militari e diplomatiche internazionali, senza dichiarazione di guerra o un motivo per giustificare l’intervento straniero in territorio legittimo. Un assedio estenuante che inizierà sul fronte di terra il 5 novembre 1860 e durerà tre lunghissimi mesi, durante i quali le truppe piemontesi mettono in campo i moderni cannoni rigati “Cavalli” a lunga gittata contro le ormai inadeguate bocche da fuoco dei napoletani. Vengono sparate contro la piazzaforte circa 500 colpi di cannone al giorno per tutta la durata del conflitto, durante il quale il Re e la Regina Maria Sofia di Wittelsbach, sorella della principessa “Sissi” Elisabetta di Baviera, restano valorosamente sempre al fianco dei fedeli soldati, persino sul campo di battaglia tra le esplosioni dei colpi di cannone che piovono dal fronte piemontese di Castellone a Mola di Gaeta, l’attuale Formia. È proprio la regina ad avere un ruolo di grande spessore umano, ormai innamorata del suo popolo e del suo regno, che non intende cedere all’invasore.

Inizialmente, la presenza della flotta francese nel golfo impedisce a quella piemontese, rafforzata da unità napoletane i cui ufficiali sono passate al nemico, di cannoneggiare la costa. Ma, a Gennaio, Cavour, da Torino, convince Napoleone III a desistere dal “proteggere” i napoletani e da quel momento i bombardamenti si fanno insistenti.

Per l’esercito borbonico la battaglia é impari, anche se non mancano valorosi scontri che alzano illusoriamente il morale; come quello del 22 gennaio 1861 allorchè i napoletani conseguono una parziale rivincita dopo aver subito, l’8 Gennaio, un cannoneggiamento di dieci ore con cui vengono distrutti anche i quartieri civili. La flotta piemontese deve ritirarsi per i danni causati dagli colpi sparati dalla piazzaforte a ognuno dei quali corrisponde il grido «Viva ‘o Rre». Alla sospensione dei bombardamenti la banda militare suona l’inno di Paisiello.

I reali napoletani sperano nell’intervento diplomatico di altre nazioni europee, magari quelle più amiche, che però non si concretizza, lasciando lo schieramento napoletano sempre più in balia dello sconforto. La cancellazione delle Due Sicilie è in realtà già stata stabilita a tavolino dalle più potenti nazioni d’Europa, che intendono spazzare via il più grande pericolo del Mediterraneo: il connubio amichevole tra lo stato ricco e cattolico del sud e il potere temporale del Papa.

Giunge quindi il tempo delle trattative per risparmiare vite umane, ma il generale Cialdini, uomo spietato e vanaglorioso, non solo non blandisce i bombardamenti ma li intensifica con maggior vigore, dirigendo le operazioni dalla sua comoda postazione nel borgo di Castellone.

La capitolazione dei napoletani è inevitabile e l’11 febbraio Francesco II decide di interrompere la carneficina. La resa viene sancita con una firma il 13 Febbraio, che però non basta ad arrestare la sete di trionfo di Cialdini. Mentre i borbonici si apprestano a porre fine alla resistenza e a deporre le armi, salta in aria la polveriera della Batteria “Transilvania”, dove cade l’ultimo difensore di Gaeta, Carlo Giordano, un giovane di sedici anni fuggito dalla Scuola Militare della Nunziatella per difendere la sua Patria. È l’ultima vittima in ordine di tempo dei circa 2700 fedeli caduti a Gaeta, che non avranno mai degna sepoltura. E poi circa 4000 feriti e 1500 dispersi.

Campani, siciliani, calabresi, lucani, pugliesi e abruzzesi, falcidiati dai bombardamenti e dal tifo petecchiale, in condizioni di vita rese impossibili anche da un inverno che è tra i più freddi di quel secolo. Eppure resistono fino allo spietato colpo di grazia di un generale considerato oggi uno dei padri della patria e che avrà dal Nuovo Re d’Italia Vittorio Emanuele II la nomina a Duca di Gaeta, città da lui rasa al suolo, e la medaglia al valore militare per i successivi eccidi di interi paesi del meridione.

Il Re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia lasciano Gaeta il 14 febbraio imbarcandosi sulla corvetta francese “Mouette”, che li porta a Civitavecchia, in territorio pontificio, laddove inizia il loro triste esilio. Vengono salutati con 21 colpi di salva reale della Batteria “Santa Maria” e con il triplice ammainarsi della bandiera borbonica dalla Torre d’Orlando, tra la commozione di quanti capiscono che la fine del Regno delle Due Sicilie é giunta. Messina e Civitella del Tronto si arrenderanno solo a Marzo, ma la sottomissione di Gaeta segna di fatto il tramonto di un’indipendenza. Al posto della bandiera bianca coi gigli viene issato il tricolore con lo stemma della dinastia Savoia, a sancire la scrittura finale di una pagina cruenta inenarrata dai testi scolastici ma sempre viva nella memoria del popolo napoletano, che non dimentica una fine gloriosa e dignitosa di esempio ai posteri.

Nonostante gli accordi stipulati nell’armistizio, migliaia di fedeli soldati borbonici che non vogliono tradire il proprio giuramento al Re per sposare la causa militare piemontese vengono deportati in  carceri settentrionali come il forte di Fenestrelle, nella freddissima Val Chisone, dovduree sono avviati a stenti e sofferenze in quello che viene oggi definito il “lager dei Savoia”. Campi di concentramento anche a S. Maurizio Canavese, Alessandria, Genova, Savona, Bergamo, Milano, Parma, Modena, Bologna e in altre località settentrionali. A queste vittime si aggiungeranno nel decennio successivo quelle della repressione del brigantaggio. Civiltà Cattolica parlò, forse per eccesso, di circa un milione di morti su una popolazione delle Due Sicilie di circa nove milioni. In ogni caso, si trattò di eccidio, che non trova alcun ricordo o commemorazione.

Qualche anno fa, a seguito di scavi per interventi urbanistici a Gaeta, sono state rinvenute testimonianze di quei giorni di terrore e sangue: scheletri, frammenti ossei, stracci di divise militari, bottoni e monete. Testimonianze del colpo di grazia dato al Regno napoletano mettendo in ginocchio la “fedelissima” Gaeta, detta anche “secondo Stato pontificio”, che pagò perché colpevole di aver ospitato undici anni prima Papa Pio IX in fuga dalla Repubblica Romana. La cittadina fu retrocessa da vicecapoluogo provinciale a cittadina di provincia, per poi essere separata dalla sua storia e dalla provincia di Terra di Lavoro, regione del Regno delle Due Sicilie, e assegnata al Lazio nel 1927 nella nuova provincia di Latina.

Nella città è sempre viva la memoria di quegli eventi e va oltre il muro della retorica che nasconde le sepolte verità della nostra storia.

video / il caro assicurazioni al Sud discusso a Bruxelles

video / il caro assicurazioni al Sud discusso a Bruxelles

petizione di Federconsumatori e “Mo Bast”

Angelo Forgione – Ecco la sintesi dilmata dell’animata discussione al parlamento europeo di Bruxelles della petizione-rivolta presentata da Federconsumatori Campania per iniziativa del movimeno meridionalista “Mò Bast” e sostenuta dall’Europarlamentare Enzo Rivellini. 73.000 firme in sei mesi raccolte  contro le discriminazioni territoriali attuate dalle assicurazioni nei confronti del Sud Italia.
Tutta gente stufa che non accetta più che, a pari condizioni, gli automobilisti e i motociclisti di Napoli debbano pagare il triplo rispetto a quelli milanesi che commettono anche molti più incidenti. Qui le truffeammesso che siano solo napoletane, sono solo un alibi per spremere una parte del paese, perchè una persona perbene di Napoli non può pagare per i truffatori ma quanto una perbene di Milano.
I rappresentanti di “Mò Bast”, con avvocati al seguito, sono stati ricevuti a Bruxelles per discutere i motivi della petizione e per far capire all’Europa cosa sta accadendo da tempo in Italia, ovvero la violazione di un principio di concorrenza che è un validissimo motivo per avviare un procedimento di messa in mora dell’Antitrust italiana.

I dati ufficiali degli incidenti di tutte le province relativi all’anno 2010 richiesti all’ufficio stampa dell’ACI parlano chiaro; le province di Napoli e Milano sono lo specchio di una speculazione ai danni dei meridionali.

Napoli
popolazione = 3.080.873 / circolante = 2.321.363
incidenti = 5.700 / Morti = 97 / Feriti = 8.319

Milano
popolazione = 3.156.694 / circolante = 2.296.217
incidenti = 18.226 / Morti = 141 / Feriti = 24.813

video: Paolo Caiazzo racconta la vera storia del Risorgimento

video: Paolo Caiazzo e la vera storia del Risorgimento
sketch identitario a “Fratelli e sorelle d’Italia” su La7

Al programma umoristico “Fratelli e Sorelle d’Italia” del 15 Luglio scorso su La7, Paolo Caiazzo ha proposto con visibilità nazionale il suo simpatico sketch sugli avvenimenti che portarono all’unità d’Italia. Con geniali trovate (come ad esempio i soldi della Comunità Europea per descrivere le massonerie internazionali che cospirarono contro Napoli) e qualche situazione esilarante utile alla composizione del messaggio, l’artista Napoletano ha dato dimostrazione di come ogni componente possa essere utile a diffondere la verità storica, certificata dalle parole di commento finale della padrona di casa Veronica Pivetti.

Garibaldi: «Siciliani, tranquilli, noi siamo venuti per liberarvi».
siciliano: «Ma da chi?» 
Garibaldi: «Noi siamo venuti per restituirvi le vostre terre».
siciliano: «Ma quelle già sono le nostre. Che devi fare piemontese, te le devi prima prendere? Fammi capire.»  

Guglia dell’Immacolata, monumento a rischio crollo

Guglia dell’Immacolata, monumento a rischio crollo
mentre è boom di restauri risorgimentali in città

di Angelo Forgione per napoli.com

S.O.S. monumenti, prosegue l’emergenza patrimonio nel centro storico UNESCO di Napoli. Opere d’arte e capolavori che perdono i pezzi, come la guglia dell’Immacolata in Piazza del Gesù, transennata a Novembre per distacco di frammenti di marmo e da poco liberata dal catafalco dopo un intervento tampone di messa in sicurezza; non si è trattato, come in molti credevano, di un restauro di cui il prezioso monumento settecentesco necessita ma di un’operazione di emergenza per un manufatto di valore inestimabile i cui elementi sono in via di progressivo distacco. «Il monumento è esposto alle intemperie e non c’è stata alcuna manutenzione dall’ultimo restauro degli anni novanta – afferma un preoccupatissimo Massimiliano Sampaolesi, Direttore Tecnico della Giovanna Izzo Restauri che si è occupata dell’intervento – e il Comune non ha soldi. Ci siamo dovuti limitare ad arginare il distacco dei gruppi scultorei per poi smontare i ponteggi, sperando che presto si possano recuperare i fondi necessari per il restauro che è fondamentale».
Per evitare che perdesse i pezzi, l’obelisco barocco è stato completamente fasciato di reti di contenimento che garantiscono la trasparenza e la visione delle sculture ma allo stesso tempo evidenziano un problema che si è aggravato fortemente. Le casse comunali sono a secco, e dunque non resta che sperare in uno stanziamento del Governo o magari di fondi Europei per assicurare i 400mila euro necessari.
Criticità spalmate su tutta la preziosa antichità di un centro storico unico al mondo, e la causa è la medesima: mancanza di manutenzione e abbandono che favoriscono la formazione di vegetazioni selvagge e radici che invadono le intersezioni col risultato che marmi e pietre si fratturano prima e distaccano poi. Dalla guglia dell’Immacolata al campanile di Sant’Agostino alla Zecca, solo due tappe di un lungo percorso turistico del crollo che non è certo una novità. Basti pensare alla Galleria Umberto I, tra pavimentazione rovinata e fregi scultorei che cadono dalla volta d’ingresso di Via Toledo laddove un telo verde evita dalla Pasqua del 2009 che lo scempio si aggravi e che qualcuno di sotto ci rimetta la pelle. Prima dell’imbragatura, l’aquila decorativa ora nascosta dal telo aveva perso un’ala che pare sia finita in discarica e non in sovrintendenza.
Bisognerebbe far presto, ma senza soldi si farà tardi, forse troppo. L’immenso patrimonio monumentale di Napoli crolla: chiese, palazzi, statue e fontane perdono pezzi silenziosamente; una crisi strisciante, meno chiassosa di quella dei rifiuti ma sicuramente più dannosa in prospettiva.
Eppure un rubinetto privilegiato di stanziamenti è stato aperto nel corso dell’ultimo anno, soldi però non utilizzabili per le vere emergenze. Napoli ha visto infatti l’avvio di diversi restauri di statue cittadine quanti non se ne erano visti nell’ultimo decennio. Busti che versavano nel degrado assoluto e che per anni non avevano beneficiato di alcun intervento. Il primo in ordine cronologico, peraltro già terminato, è quello che ha visto finalmente ripulito il monumento a Paolo Emilio Imbriani in Piazza Mazzini. Subito dopo è partita la lavorazione alla statua di Dante Alighieri nell’omonima piazza, e poi ancora alla Colonna dei Martiri, ai busti di Nicola Amore e di Giovanni Nicotera in Piazza Vittoria, di Carlo Poerio in Piazza San Pasquale e di Giuseppe Garibaldi alla stazione ferroviaria, senza dimenticate la pulizia al monumento equestre a Vittorio Emanuele II collocato nella riqualificata Piazza Bovio.
Un filo conduttore unisce tutte queste statue e rende l’idea di una benefica ondata di restauri non casuali, avviati tutti nello stesso periodo, quello delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. I personaggi immortalati sono tutte figure e simboli risorgimentali, “sommo poeta” del Rinascimento compreso, la cui statua fu realizzata proprio durante il mandato di sindaco del patriota Paolo Emilio Imbriani e sul cui basamento è incisa l’epigrafe “All’unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri”. La ricorrenza ha dunque aperto un canale preferenziale di fondi, anche se le statue di Imbriani e Dante erano fuori lotto e hanno goduto dell’intervento di sponsor privati a completo supporto del Comune e delle Municipalità di competenza. Il resto è promosso e finanziato da “Italia 150”, ossia dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, coordinato dalla Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania.
I restauri, come si legge dalla nota del Ministero, rientrano nell’obiettivo di contribuire alla riqualificazione dell’immagine della città e alla sensibilizzazione dei cittadini affinché proteggano la loro storia e la memoria. Tutto giusto, o quasi, perché si parla di “loro storia” e viene da chiedersi allora perché le statue risorgimentali che riguardano la storia patria d’Italia vadano ripulite mentre quelle che comunicano l’autentica storia identitaria di Napoli debbano invece restare relegate al degrado assoluto.
Storia identitaria dunque, quella che passa per Piazza Sannazaro dov’è la fontana della bianca Sirena Partenope, pregevole scultura ottocentesca del marcianisano Onofrio Buccini spodestata dallo scuro monumento di Garibaldi nell’omonima Piazza. E mentre il “dittatore delle Due Sicilie” si rifà il trucco, la sinuosa sirena perde le dita e i pezzi, ma anche l’acqua che non sgorga più a causa di una tubatura otturata da mesi che l’Arin non sostituisce.
A Piazza del Plebiscito, la storia di Napoli è di casa forse più che altrove. E li, le statue non se la passano per nulla bene. Quelle equestri di Carlo e Ferdinando di Borbone, i cui basamenti sono ricoperti da scritte spray mentre il bronzo di cui sono fatte è totalmente degradato dalle intemperie e da escrementi di uccelli. Eppur si tratta di sculture preziosissime del Canova (con il contributo dell’allievo Antonio Calì), massimo scultore del neoclassicismo che è corrente artistica nata a Napoli e diffusa in tutta l’Europa ottocentesca di cui la basilica di San Francesco di Paola è straordinaria testimonianza esposta ad ogni vandalismo. Di fronte, sulla faccia di palazzo Reale, soffre soprattutto Alfonso d’Aragona la cui mano non trova pace; e nel frattempo il Ministero e la Sovrintendenza si scambiano incartamenti e solleciti perché gli si riattacchino le dita.
Vorrà dire che in futuro ammireremo Nicola Amore e magari, chissà, lo faremo a Piazza del Gesù dove potrebbe essere spostato in luogo della guglia dell’Immacolata una volta crollata del tutto.


Statua di Alfonso d’Aragona, 8 mesi per un sollecito

Statua di Alfonso d’Aragona, 8 mesi per un sollecito
seconda nota della Direzione Regionale ai B. C. 

Ottobre 2010: V.A.N.T.O. denuncia il danneggiamento della statua di Alfonso d’Aragona sulla facciata di Palazzo Reale. Dopo 50 giorni, la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania indica all’allora Ministro Bondi che la segnalazione di V.A.N.T.O. è relativa al Palazzo Reale di Napoli e non alla Reggia di Caserta (leggi la nota).
Luglio 2011: la stessa Direzione Regionale, con una nuova nota (clicca sull’immagine per ingrandire), sollecita riscontro alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e alla Soprintendenza Speciale, restando in attesa.
Otto mesi per una rettifica e un sollecito… e nessuna risposta. Restiamo in attesa anche noi, che prima o poi…