Nuove inesattezze sull’origine della pizza “margherita”

Angelo Forgione  Ho letto con interesse l’articolo pubblicato stamane su Il Fatto Quotidiano online circa la genesi della pizza “margherita” (pomodoro e mozzarella), che secondo il professor Alberto Grandi, docente di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, sarebbe nata in America.

Nell’articolo, di introduzione a un podcast di dodici puntate su spotify che pure ho ascoltato, il docente sostiene giustamente che “la pizza, fino al secolo scorso, la maggior parte degli italiani non sapeva neppure cosa fosse”, ma anche che “Quella che conosciamo e mangiamo anche oggi è nata in America e fino agli anni’50 gran parte degli italiani non la conosceva”.

Premetto che è giusto, tranne l’errore grave di attribuire la nascita della pizza con pomodoro e mozzarella agli americani.

Sostiene infatti il professor Grandi:
“Vero che la pizza è nata a Napoli ma si trattava di una pizza bianca, senza pomodoro e mozzarella, ricca di aglio e olio, mangiata per strada. Una sorta di street food primordiale”.
E ancora:
“Gli italiani imparano a fare la pizza con pomodoro e mozzarella negli Stati Uniti e poi, una volta tornati in Italia, portano con sé questo modo di prepararla che entra a far parte della nostra tradizione”.

L’errore enorme che commette Grandi è nel sostenere che la pizza con il pomodoro e la mozzarella nasca in America e la si impari a fare lì. Nel mio libro Il Re di Napoli, circa la storia del pomodoro, riporto le documentazioni che attestano come la pizza con il pomodoro e la mozzarella nasca indubitabilmente a Napoli nella prima metà dell’Ottocento.

È vero che la prima pizza dei napoletani, nel Seicento (così come le antiche preprazioni dei Greci e persino degli Egiziani) era bianca, poiché il pomodoro non era ancora abituale in alimentazione, e quello lungo ancora non era conosciuto in Europa. Intanto non era ricca di aglio e olio, come sostiene Grandi, ma di strutto, formaggio di pecora, pepe e basilico, e si chiamava “mastunicola”, nome derivante dalla storpiatura del lemma dialettale “vasinicola”, che in napoletano significa “basilico”.

Con l’inizio della coltivazione del pomodoro a bacca lunga attorno al Vesuvio, a fine Settecento, il cibo di strada del popolo napoletano iniziò a colorarsi di rosso. Quel pomodoro si chiamava “Fiascone di Napoli”, poi estintosi a metà del Novecento, quando era ormai stato sostituito dal “San Marzano”. L’uso del pomodoro su maccheroni e pizza inizia a diffondersi a inizio Ottocento, ed è attestato in numerosi scritti e ricettari.

Circa l’argomento in oggetto, è Alexandre Dumas a riportarne l’uso sulla caratteristica pizza nel suo Le Corricolo, scritto dopo aver visitato Napoli nel 1835 e pubblicato otto anni più tardi a Parigi:

“[…] La pizza è con l’olio, la pizza è con salame, la pizza è al lardo, la pizza è al formaggio, la pizza è al pomodoro, la pizza è con le acciughe. […]”.

Quasi tutte pizze “in bianco” quelle descritte dal romanziere francese, e una già “in rosso”, preparata soprattutto d’estate e d’autunno, perché il pomodoro era un prodotto molto più soggetto alla stagionalità di quanto non lo sia oggi, e lo si comprende da quello che si legge nella ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863 dai medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi:

“I Napoletani mangiano a dovizia le pizze: […] pizze condite alla superficie con olio o sugna in abbondanza, con formaggio, origano, aglio, prezzemolo, foglie di menta, con pomidoro specialmente in està, ed infine talvolta anche con piccoli pesciolini freschi. […] I pomidoro sono in Napoli adoperati moltissimo nell’està freschi, e nell’inverno o secchi o ridotti a conserva; […]”.

E la mozzarella? Insieme al pomodoro, ne fu stimolata la produzione nello stesso periodo, e insieme al pomodoro finì sulla pizza nella prima metà dell’Ottocento, a Napoli e non in America, a dispetto del romantico racconto riferito all’invenzione tricolore della pizza dedicata alla regina Margherita di Savoia datato 1889. Come più volte riportato in passato, lo attesta il filologo Emmanuele Rocco nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, pubblicato nel 1858, scrivendo nel capitolo “Il pizzajuolo” che il trittico pomodoro-mozzarella-basilico era già una delle possibilità di condimento nelle strade di Napoli:

“La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché […] è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli. […]
Le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e oglio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle ec. Talora ripiegando la pasta su di sé stessa se ne forma quel che chiamasi calzone.”

È evidente che nella complessità di quel periodo venivano sfornate anche pizze fatte con strutto, pomodoro, sottili fette di mozzarella, basilico e formaggio grattugiato. Basta sostituire l’olio allo strutto per avere proprio una margherita di metà Ottocento almeno.

Persino Carlo Collodi, nel 1886, testimonia dell’uso del pomodoro sulla pizza di Napoli, descrivendo quell’alimento agli scolari italiani nel suo Il viaggio per l’Italia di Giannettino – Parte terza: l’Italia meridionale:

“Vuoi sapere cos’è la pizza? È una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.”

Il professor Grandi commette dunque un autogol citando il “pizza effect” circa la pizza. Il cosiddetto “pizza effect” è proprio il fenomeno sociologico per cui un elemento della cultura di un particolare popolo viene conosciuto e diffuso maggiormente in un altra nazione, e successivamente reimportato nella nazione del popolo che l’ha creato. E infatti la pizza con il pomodoro e la mozzarella, nata a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, divenne ampiamente italiana solo oltre un secolo dopo, nel dopoguerra. Prima di allora, come dimostra lo scritto di Carlo Collodi, era considerata un alimento malsano da straccioni napoletani in odor di colera che lo preparavano per strada, discriminato come il popolo che lo mangiava. Poi, conosciuta dagli americani grazie agli emigranti napoletani che a inizio Novecento erano andati a farla negli States (il primo fu Gennaro Lombardi nel 1905, che sostituì la mozzarella con il formaggio locale), ne fu diffuso l’uso prima dai soldati americani impegnati sul fronte italiano per la Seconda Guerra Mondiale, che peraltro scoprirono il gusto originale a Napoli, e poi dai turisti statunitensi negli anni Sessanta, che la chiedevano nei ristoranti italiani negli anni del benessere economico. Come il fisiologo statunitense Ancel Keys, codificatore della Dieta Mediterranea, che assaggiò quella originale durante i suoi soggiorni a Napoli nei primi anni Cinquanta per osservare e studiare sul posto la virtuosa alimentazione locale, e provò ad ordinarla invano in un ristorante della vicina Roma. Raccontò lui stesso nei suoi scritti che la risposta fu: «Spiacenti, niente pizza qui, quella è roba da napoletani». A quei tempi, a Milano si diceva «Mi la pizza la mangi a Napoli e el pess el mangi al mar».

In conclusione, la pizza con pomodoro e mozzarella, creazione napoletana della prima metà dell’Ottocento, fu conosciuta dagli americani a inizio Novecento grazie agli emigranti napoletani, prima che la abbracciassero gli italiani negli anni Sessanta. Questa è storia.


“Vedi Napoli e poi muori”, quale la vera origine del detto?

Angelo Forgione “Vedi Napoli e poi muori!” è un aforisma assai diffuso nell’ambito della letteratura internazionale per descrivere il fascino della città del Vesuvio, così unica da visitare almeno una volta prima di morire. E però proprio nessuno conosce l’origine del celebre detto. Erroneamente, un certa convinzione diffusa vuole che a inventarlo sia stato Johann Wolfgang Goethe, nel secondo Settecento, ma il letterato tedesco, folgorato dalla bellezza di Napoli ben più di qualsiasi altra città italiana visitata, raccolse quanto già dicevano i napoletani e lo riportò nei suoi appunti di viaggio, nella cronaca del 2 marzo 1787:

[…] Della posizione della città e delle sue meraviglie tanto spesso descritte e decantate, non farò motto. “Vedi Napoli e poi muori!” dicono qui. […]

“Siehe Neapel und stirb!”, in lingua madre, e dalla pubblicazione del suo diario nel Viaggio in Italia, datata 1816, quel detto divenne sempre più famoso. Chi ne sia stato il padre nessuno lo saprà mai, ma nel corso delle ricerche e delle letture per la scrittura di un mio nuovo manoscritto mi sono imbattuto in qualcosa che può giustificare un’ipotesi plausibile.
Ne Il vetusto calendario napoletano nuovamente scoverto, pubblicato nel 1744, si legge:

[…] in Napoli vi è una strada, la quale avea nome, la Regione degli Alessandrini: […] per quest’antica strada degli Alessandrini scendon coloro, che debbono andare ad essere giustiziati su d’un patibolo; dal volgo coll’idiotismo Napoletano è chiamata questa strada, lo vico de li mpisi: […]
Perché d’intorno la Città di Alessandria in Egitto scorre il celebre fiume Nilo, perciò in questa strada dagli antichi Napoletani fu eretta una statua rappresentante il medesimo fiume: […]

“Dunque, la strada degli Alessandrini, conosciuta dal popolo come vico de li mpisi, corrisponde all’attuale via Nilo, lo stretto cardo del Centro Storico Unesco che dal Decumano maggiore scende verso il largo Corpo di Napoli, là dove troneggia la statua del Nilo. Lo conferma il tredicesimo volume della rivista Napoli Nobilissima, anno 1904, con un articolo scritto illo tempore da Alfonso Miola per affrontare la questione della confusione sui nomi delle vie della città, oggetto di cambio di odonimi negli anni precedenti. Vi si legge che nel 1850, tra i vari mutamenti, c’era stato anche quello del vico Bisi, già trasformazione dal vernacolare mpisi, cioè impiccati, diventato Via Nilo.

La strada degli Alessandrini, anticamente, era pertanto divenuta più nota come vico de li mpisi, ossia degli impiccati, perché da lì transitavano a gruppi i condannati al patibolo, e lo facevano obbligatoriamente, percorrendo un itinerario cittadino dettato dalle autorità del tribunale del Regno di Napoli. Non lontano era ubicato il Castel Capuano, che nel Cinquecento era stato convertito in sede della Gran Corte della Vicaria (palazzo di Giustizia) dal viceré don Pedro de Toledo. Lì operava il Sacro Regio Consiglio, che esaminava le principali cause civili e, in ultimo appello, le sentenze civili e criminali dell’intero Regno, mentre i sotterranei erano adibiti a prigioni. E infatti nella pubblicazione Il Decumano Maggiore da Castelcapuano a San Pietro a Maiella – cronache dei secoli passati si legge:

[…] Anche perduto infine, in tempi più felici, è l’altro passaggio (da non rimpiangere affatto) di condannati a morte che, da quando il Castello di Capuana era divenuto sede di tribunale penale e di carcere fino a quando le esecuzioni furono anche pubbliche, uscivano per essere portati, ad esempio terrificante, fino ai vari luoghi del supplizio: perciò l’attuale via Nilo, successivo tratto del percorso, si guadagnò il non invidiabile toponimo popolare di vico “degli Mpisi”, ossia degli impiccati, e così fu detto dal Sei all’Ottocento, salvo che, forse per mascherare il significato macabro del nome, fu anche chiamato dei Bisi. […]

E ancora…

[…] Circa i veri e propri crimini, la giustizia non riusciva a colpire tutti i delinquenti, ma quando ci riusciva, era severissima. Era continua la corrispondenza, così frequente da sembrare immediata, tra i reati commessi e la loro punizione, la quale, secondo la universale convinzione, doveva essere pubblica e in certi casi spettacolare. Con ripetizione quasi quotidiana e spesso con partecipazione molteplice, nella piazza davanti al Castello [Capuano] cominciava il macabro rito delle esecuzioni, col banditore o “trombetta della Vicaria”, che annunciava le sentenze. Poi il corteo avanzava per il decumano finché non svoltava per il già ricordato vico degli Mpisi. […]
[…] i criminali vengono giudicati in Castel Capuano e sono chiusi nelle sue carceri, essi passeranno per la strada di Capuana, fino alla svolta del vico degli Mpisi, per andare a pagare i loro misfatti in piazza Mercato, nel Largo del Castello o al Ponte Licciardo. E i tristi cortei, cominciati nella prima metà del Cinquecento, continuano, sebbene forse meno frequenti ancora nella seconda metà del Settecento, quando Napoli ha raggiunto in tutta l’Europa il colmo del suo prestigio culturale. […]

Pertanto, non vi è alcun dubbio che, tra il Cinquecento e il primo Ottocento, alcuni tra i delinquenti più feroci del Regno erano detenuti nei sotterranei di Castel Capuano, e che, una volta condannati in gruppo, erano obbligati a camminare in processione lungo un percorso prestabilito per raggiungere i luoghi delle esecuzioni. Dovevano perciò attraversare la città e la sua folla, alla pubblica gogna, percorrendo l’attuale Decumano maggiore, alias via dei Tribunali, per poi svoltare a sinistra immettendosi in via Nilo, il vico degli impiccati, e dirigersi in piazza Mercato, in largo Castello e al ponte della Maddalena. In sintesi, una volta usciti dalle buie segrete di Castel Capuano, vedevano per l’ultima volta la luce del sole, la folla, le strade e i palazzi della città, prima di essere giustiziati. Vedevano Napoli e poi morivano.
E quale Napoli vedevano? Quella che certamente al tempo di Goethe, il secondo Settecento, e ancora nel primo Ottocento, era considerata la più bella città d’Europa, come testimonia uno scritto dello storico austriaco Benedikt Pillwein in una sua opera del 1839:

Secondo i rapporti dei viaggiatori che hanno visto le città e le abitudini di molti popoli, Napoli è la prima tra le più belle città d’Europa, Costantinopoli la seconda, Salisburgo la terza.

Come si evince dai brani riportati, il rituale dei cortei dei condannati tra la folla era ancora in uso nella seconda metà del Settecento, il periodo in cui Goethe visitò Napoli e apprese dell’esistenza del detto “Vedi Napoli e poi muori”. È verosimile che il tedesco possa averlo riportato nei suoi appunti per descrivere la folgorazione avuta dalla città, facendo l’esperienza personale e comprendendo il padre, che vi era stato prima di lui e ne era rimasto altrettanto estasiato.
Il più grande letterato tedesco di tutti i tempi si convinse che bisognasse assolutamente vedere Napoli almeno una volta nella vita, e quel detto, ascoltato dalla bocca di qualche napoletano, gli sembrò perfetto per affermarlo. Forse vi era un retroscena un po’ macabro all’origine, ma questa è solo una mia ipotesi fondata su una consuetudine della città antica, quella di vedere la bellissima Napoli prima di morire… al patibolo.

Per approfondimenti: Napoli svelata (A. Forgione)

Vicepresidente Unesco: «Napoli rischia la cancellazione»

Angelo Forgione «È da tempo che dal Centro Storico di Napoli, patrimonio dell’Umanità, emergono una moltitudine di criticità e per questo rischia di essere inserito tra i siti materiali a rischio. L’inserimento in quella lista rappresenta l’anticamera per la perdita del riconoscimento come patrimonio Unesco e quindi c’è bisogno di grande attenzione su questa situazione».

Lo ha detto il vicepresidente dell’organo di esperti mondiali della Convenzione Unesco sul patrimonio culturale immateriale, Pier Luigi Petrillo, al programma di Radio Marte “La Radiazza”, ascoltato da Gianni Simioli, al quale nei giorni scorsi ho sollecitato interesse sul caso, dacché entro il 31 dicembre del 2023 bisognerà spendere i soldi stanziati per i 27 progetti di recupero di monumenti e siti del Centro Storico di Napoli, pena la restituzione dei fondi e magari anche l’inserimento nella lista che prelude alla cancellazione in caso di ulteriore immobilismo. La giunta del sindaco De Magistris, nei prossimi mesi, sarà chiamata a spendere e a rendicontare, molto più di quanto non abbia fatto nel corso del suo mandato, ma i cantieri deserti fanno pensare che si possa/voglia passare la patata bollentissima al prossimo sindaco, che avrebbe solo due anni per risolvere l’impasse. Situazione incresciosa.

SOS Centro Storico di Napoli: dopo 13 anni, fondi a serio rischio

Angelo Forgione Al microfono di Andrea Ruberto per Rete 4, ancora una volta ho lanciato con Antonio Pariante del Comitato Civico Portosalvo l’allarme sul rischio di dover restituire i finanziamenti per il recupero dei monumenti, delle chiese e delle strade del Centro Storico di Napoli, l’antica Neapolis, patrimonio dell’Unesco.
Il “Grande Progetto Unesco” del Comune di Napoli, infatti, rischia il clamoroso flop. 100 milioni da spendere categoricamente entro il 31 dicembre 2023, e l’Europa ha già lanciato l’allarme, perché l’intervento è stato finanziato già dal 2007 e sono trascorsi tredici anni senza completare le opere, già al palo nel precedente ciclo di programmazione dei fondi europei 2007/2013. In questo bisogna spendere e fare presto, pena la restituzione dei finanziamenti non spesi, senza possibilità di ulteriore proroga.
Su 27 interventi da eseguire, sei sono stati quelli finora completati: nove sono i cantieri aperti e i restanti 14 progetti sono in fase di progettazione o di gara. Solo due sarebbero di prossima apertura.
I cantieri sono stati aperti ma di operai non se ne vedono, e ora il responsabile del Comune, Luca d’Angelo, si difende informando che non si riesce a fare la solita corsa contro il tempo perché le ditte non riuscirebbero ad assumere, causa reddito di cittadinanza.
Stiamo parlando di un’occasione preziosissima per risistemare il Centro Storico di Napoli, definito un unicum dall’Icomos e dall’Unesco, testimonianza culturale dei 2.800 anni di storia della città. Stiamo parlando del rischio di uno spreco che sarebbe imperdonabile, e che già così rende l’idea di una città immobile, incapace di mettersi in moto verso verso il futuro valorizzando il suo grandissimo passato.Senza considerare tutto ciò che avviene nel resto del Centro Storico non “protetto” dall’Unesco, e nel resto della città.
Povera Napoli… baciata da Dio, stuprata dall’uomo.

La guerra ignorante tra chi non conosce il “pizza effect”

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Angelo Forgione Forti polemiche per l’autoproclamazione di Chicago a capitale mondiale della pizza. La città dell’Illinois, dunque, è convinta di essere il posto migliore del mondo per mangiare il piatto simbolo della cucina popolare napoletana, e lo ha annunciato su Twitter per festeggiare il World Pizza Day: «Orgogliosi di essere la capitale mondiale della pizza».
Non sembra essere d’accordo Phil Murphy, il governatore del New Jersey, che pure ha investito il suo stato del titolo di “Capitale mondiale della pizza” con un cinguettio sulla rete.

Quelli di Chicago vantano la deep-dish pizza, che non ha nulla a che vedere con l’originale pizza napoletana. Ha un altro impasto e lo strato di “mozzarella” è talmente alto da far sembrare la “pizza” una torta.
Quelli del New Jersey, invece, sbandierano la prima pizzeria d’America a Trenton, datata 1912. Peccato che si sbaglino, perché la prima pizzeria nella terra degli Yankees la aprì un napoletano, Gennaro Lombardi, e lo fece nel 1905 nella Little Italy di Manhattan. Era arrivato da Napoli nel 1897, mettendosi a fare la pizza napoletana dove nessuno l’aveva mai mangiata al di fuori di Napoli, Italia compresa. Al posto della legna usò il carbone e, per surrogare l’irreperibile mozzarella, si rassegnò al formaggio americano. Così nacque “Lombardi’s pizza”, e così gli americani, dal New York style che altro non era che una traduzione locale del piatto simbolo di Napoli, conobbero la pizza, sette anni prima dei cugini del New Jersey.

I newyorchesi pure si sono rizelati per quanto detto dai cugini degli altri stati, tutti dimenticando che il mondo non sono gli Stati Uniti, e anche se gli americani sono i primi consumatori al mondo di pizza gli unici ad aver diritto di fare una pernacchia a tutti sono proprio i napoletani, perché nel 1905, quando Gennaro Lombardi fece conoscere la pizza agli americani, a Napoli la si mangiava da almeno due secoli e mezzo, a partire dalla “mastunicola”, e che esistevano già un centinaio di pizzerie, la prima delle quali, a Port’Alba, operava già da 167 anni, cioè dal 1738. E lì, di fronte alla stessa pizzeria, ancora operante, è apposta un’epigrafe del 1796 con un bando borbonico su cui si legge che i deputati del tribunale comunicavano che l’esercizio della vendita dei generi alimentari sulla strada di Port’Alba, d’intralcio al passaggio dei pedoni e delle carrozze, sarebbe stato punito con sanzione pecuniaria di 24 ducati.Roba antica di secoli, e infatti l’Unesco riconosce quale patrimonio immateriale dell’Umanità l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani, checché ne dicano gli americani, che almeno hanno il merito di aver apprezzato la pizza prima degli italiani. Senza andare al tempo di Carlo Collodi, che sul finire dell’Ottocento la definì “sudiciume complicato” per descrivere agli alunni delle scuole italiane cosa mangiavano i napoletani, basta puntare al secondo dopoguerra, quando Ancel Keys, il fisiologo statunitense che nei primi anni Cinquanta, partendo dallo studio della virtuosa alimentazione dei cittadini partenopei per arrivare a codificare il modello nutrizionale della Dieta Mediterranea (anch’essa patrimonio Unesco), assaggiò la pizza originale a Napoli, e poi in un ristorante della vicina Roma gliela rifiutarono: «Spiacenti, niente pizza qui, quella è roba da napoletani». Divenne simbolo degli italiani solo a partire dagli anni Sessanta, quando i turisti americani la richiesero continuamente, perché nell’America molto meno snob dell’Italia era già apprezzatissima, e questo chi conosce la storia della pizza glielo riconosce agli americani, tant’è che per il mondo intero esiste il pizza effect. Si dice tale un fenomeno culturale che viene esportato da un paese, si trasforma in un altro e poi torna alla cultura iniziale.

SOS Centro storico di Napoli patrimonio Unesco

Angelo Forgione Il Centro Storico di Napoli, patrimonio UNESCO, è un unicum di valore inestimabile per significati e per ricchezza monumentale ed edilizia, ma si sta sgretolando nella sostanziale indifferenza generale.
Con Antonio Pariante del Comitato Civico di Portosalvo e la restauratrice Isabella Fiorentino, ho accettato l’invito di Maria Muscarà, consigliera regionale del M5S, a denunciare i ritardi degli interventi del Grande Progetto UNESCO, 27 interventi complessivi nel perimetro dell’antico insediamento greco-romano di Neapolis, che avanzano – si fa per dire – con spesa rendicontata dal Comune di Napoli al 18 aprile 2019 di circa 15 milioni, pari al 15% del totale delle risorse disponibili.
Consiglio di prestare attenzione al video. Questa è la nostra denuncia, non senza proposta: un garante civico per il controllo dei fondi e dell’esecuzione dei lavori per il restauro delle opere architettoniche ed artistiche di Napoli e della Campania.

 

Le 7 strisce sulla Pastiera napoletana? Una “bufala” nata nel 2016.

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Angelo ForgioneLa fantasia dei napoletani è proverbiale e affonda le sue radici nella nascita stessa della città, nella mitica leggenda della donna uccello Parthenia, la Sirena che, insieme a Ligea e Leucosia, si getta in mare in preda alla disperazione causata dall’insensibilità di Ulisse alla malia del loro canto e finisce defunta sulle sponde rocciose dove viene fondata la Palaeopolis pregreca, nominata appunto Parthenope.
Sono trascorsi millenni e le leggende continuano ad essere partorite, alcune riferite a miti e simboli autentici, altre inventate di sana pianta, senza alcun esoterismo di fondo… come quella recentissima delle sette strisce di pasta frolla incrociate a croce greca – tre in un senso e quattro nell’altro – che dovrebbero coprire la deliziosa Pastiera napoletana. Rappresenterebbero la “planimetria” ippodamea a scacchiera di Neapolis, il centro storico Unesco, con i suoi plateai / decumani intersecati dagli stenopoi / cardi. Una fantasia che non trova corrispondenza nel numero, visto che i plateai / decumani sono effettivamente tre ma gli stenopoi / cardi che li intersecano sono assai più di quattro (e irregolari).

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Una fantasia che, soprattutto, non trova alcun riscontro nelle documentazioni storiche e nelle primissime ricette scritte al tempo del Regno di Napoli, tra l’epoca barocca e quella neoclassica. La nascita della Pastiera napoletana è infatti databile al Cinquecento, ma la preparazione, come quelle di altre squisitezze partenopee, è stata incubata, modificata e perfezionata nel tempo all’interno dei monasteri dell’antica Napoli. Nel Settecento, proprio le suore di San Gregorio Armeno ne avrebbero canonizzato la versione attuale, diversa da quella dell’epoca barocca precedente. Il nome “Pastiera”, infatti, come già divulgato da chi scrive, compare per iscritto nel 1693 nel trattato di cucina Lo scalco alla moderna del marchigiano Antonio Latini, scritto a Napoli e qui pubblicato nel 1693. La ricetta è quella della Di Grano, detto alla Napolitana Pastiera, una torta a metà tra il rustico e il dolce in cui, oltre a grano e ricotta, era prevista una bella quantità di formaggio Parmigiano grattato, pepe, sale, pistacchi in acqua rosa muschiata e latte di pistacchi, tutto raccolto in pasta di marzapane stemperata con altri aromi antichi.

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Il Latini non fa alcun riferimento al numero di “sfogli” di marzapane per la copertura, e non lo fa neanche il pugliese Vincenzo Corrado, capocuoco presso il palazzo Cellamare di Napoli, che nel 1773, cioè ottant’anni più tardi, pubblica la prima edizione de Il Cuoco Galante, dove si legge la preparazione della Torta di frumento. Le modalità descritte dal Corrado insegnano a preparare una Pastiera più aderente a quella dolce di oggi, pur partendo dalla cottura del grano in un brodo di cappone, “la quale si coprirà con altra pasta a striscie”, senza alcuna indicazione di quantità.

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Neppure il napoletano Ippolito Cavalcanti, nel 1837, accenna in alcun modo alle sette strisce nella sua ricetta scritta nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano inserita nella prima edizione del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica, vero e proprio compendio dell’ormai moderna cucina napoletana. Le indicazioni del Cavalcanti insegnano a preparare una Pastiera dolce, pur offrendo l’opportunità di farla “rusteca”.

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Il Cavalcanti scrive di “cancellata de tante laganelle”, senza precisare quante. Non lo fa nessuno per secoli, facendosi pastiere di ogni strisciatura nelle case e nelle pasticcerie vesuviane. Fino al 2016, quando una pasticceria nel cuore dei decumani distribuisce ai suoi clienti un racconto cartaceo intestato alla onlus “I Sedili di Napoli” in cui si narra dell’opportunità di coprire la Pastiera proprio con sette strisce, esattamente come quella mostrata dal pasticciere immortalato nella foto.

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Nient’altro che un’ottima operazione di marketing territoriale che però non sfonda con la sola diffusione cartacea e con la pubblicazione su corpodinapoli.it. C’è bisogno dei social network affinché la divulgazione della nuova leggenda bruci i tempi biblici della tradizione orale e corra a velocità della rete. Le pubblicazioni sui portali identitari e soprattutto sui gruppi facebook napoletanisti si ripetono con un certo impulso a Pasqua del 2019, tutti ricalcando a cascata lo scritto de “I Sedili di Napoli” e quindi senza offrire fonti a coloro che le chiedono, pochi per la verità. Pasqua 2020 è quella dell’esplosione virale della bufala, e ci casca anche qualche divulgatore di spicco. La leggenda metropolitana è ormai virale, e me ne accorgo sulla mia pelle l’11 aprile, vigilia della Resurrezione, pubblicando su Facebook un post sulla storia della Pastiera con una foto allegata che mi ritrae in quarantena al balcone con la mia Pastiera in mano. La mia “cancellata” a rombi è realizzata con sei strisce, esattamente come in passato, quando mai nessuno ha trovato nulla da contestare. Stavolta, invece, apriti cielo! Fioccano commenti del tipo mi cadi proprio sulla pastiera! Le strisce devono essere 7″, come se proprio io abbia commesso alto oltraggio alla napoletanità. Buona parte dei lettori, invece di beneficiare della storia documentata della Pastiera napoletana loro offertagli, del sorprendente passaggio dalla torta rustica alla torta dolce, trovano da ridire sul numero di strisce.
Il giorno seguente, sera della domenica di Pasqua, il presidente della Onlus “I sedili di Napoli”, Giuseppe Serroni, pubblica un suo post sulla pagina Facebook personale (taggando il titolare della pasticceria da cui tutto ha avuto origine) con cui si dice “lieto dell’attuale divulgazione di massa, col copia-incolla, in molti casi” della storiella, avvertendo che “il documento originale è del 2016, quando la Pasticceria Ippolito a San Gaetano, cominciò a distribuirlo ai suoi acquirenti”.

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Nonostante l’ammissione pubblica, qualcuno continua a chiedere le fonti a Serroni, il quale avvisa che non c’è nessuna fonte storica. La cosa è nata un po’ per scherzo, un po’ come “ipotesi” per ricordare che abbiamo Radici storiche e Culturali molto antiche e che la Sacralità muove ancora oggi le azioni dei Napolitani. Oggi vedo, con un sorriso, che questa “teoria” è diventata “verità” perché quest’anno sta invadendo i Social”. Macché! Nessuna verità, neanche tra virgolette; non può diventarlo uno “scherzo-ipotesi” nato per attrarre clienti in pasticceria, click sul web e like sui social, a meno che non si voglia credere anche, per esempio, che la pizza margherita, già esistente almeno nel 1858 borbonico, sia stata inventata per l’omonima Savoia regina d’Italia nel 1889. Almeno lì sono passati un secolo e mezzo di delicata retorica risorgimentale. Qui siamo di fronte a un’invenzione suggestiva alla quale in tanti hanno creduto in men che non si dica, ma pur sempre tale.

L’arte del pizzaiuolo napoletano

pizzaiuoloAngelo Forgione – L’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano” è riconosciuta come parte del patrimonio culturale dell’umanità, identificata come espressione di una cultura che si manifesta in modo unico, perché la manualità del “pizzajuolo”, cioè il mestierante della pizza nelle strade della Napoli del Settecento, non ha eguali e fa sì che questa produzione alimentare possa essere percepita come marchio di napoletanità, ma anche italianità, nel mondo.
Del resto, nella parola “pizzaiuoli” vi è una “u” in più a differenziare i napoletani dagli altri; u come unicità, u come universalità. I “pizzajuoli” venivano dal popolo, e il popolo sfamavano. Loro per primi hanno messo mano al pomodoro delle Americhe, unendolo al frumento della Mesopotamia, all’olio della Grecia, alla bufala e al basilico delle Indie; hanno messo insieme il mondo e hanno modellato la pizza mediterranea, che per circa tremila anni era rimasta bianca. È a Napoli che è nata come cibo di strada, ed è da Napoli che è divenuta ciò che è dappertutto, filante e meravigliosamente rossa.

Napoli culla della Dieta mediterranea

Angelo Forgione Pochi sanno che la Dieta Mediterranea, il più suggerito dei modelli nutrizionali, ispirato all’alimentazione di alcuni Paesi del Mediterraneo, nasce nella Napoli del dopoguerra.
In occasione di un convegno internazionale sull’alimentazione mondiale svoltosi a Roma nel 1951, il fisiologo statunitense Ancel Keys apprese da un collega napoletano, Gino Bergami, di una ridottissima incidenza delle patologie cardiovascolari in Campania. Folgorato dalla rivelazione e dagli elementi raccolti, un anno dopo si recò a Napoli con la moglie Margaret Haney, biologa, per osservare l’alimentazione locale e la relativa incidenza sullo stato di salute dei cittadini, conducendo le ricerche nei laboratori del Vecchio Policlinico, sulla scorta degli esperimenti condotti sui Vigili del Fuoco e sugli impiegati comunali. Il basso consumo di carne e le sane abitudini alla pasta ricca di carboidrati, alle verdure, all’olio d’oliva, al pane, ai legumi e al pesce, lo convinsero che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute dei napoletani. Al termine dei suoi studi, nei suoi appunti annotò:

A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.

A Napoli trovammo la conferma che Bergami aveva ragione riguardo alla rarità della malattia ischemica coronarica nella popolazione generale, ma in ospedali privati che ricoveravano persone ricche vi erano pazienti con infarto al miocardio. La dieta della popolazione generale era ovviamente molto povera in carne e formaggi, e Margaret trovò livelli di colesterolo sierico molto bassi in numerose centinaia di operai e impiegati presi in esame dal Dott. Flaminio Fidanza, un assistente di Bergami nell’Istituto di Fisiologia. Fui invitato a cena con i membri del Rotary Club. La pasta era condita con sugo di carne e tutti la ricoprivano con formaggio parmigiano. Un arrosto di carne era il secondo piatto. Il dessert era una scelta di gelato o ricchi dolci. Persuasi alcuni commensali a venire da me per essere esaminati, e Margaret trovò il loro livello di colesterolo molto più alto che negli operai.

In fondo, prima di essere i “mangiamaccheroni”, i napoletani erano i “mangiafoglia”, i più grandi vegetariani d’Europa per secoli, e il broccolo era stato il loro stereotipo alimentare prima di pizza e spaghetti.

Il fatto è che i napoletani seguivano da tempo una dieta molto prossima a quella che è oggi è considerata la più sana ed equilibrata del pianeta. Consumavano molta frutta e verdura, divoravano pasta e pizza, e condivano con olio di oliva. La dieta napoletana era la madre di quella “mediterranea”.

La scintilla napoletana fu l’origine di un’ampia indagine ventennale che portò Ancel Keys, insediatosi nella cilentana Pioppi, a sondare le diete di vari paesi con culture e stili di vita differenti, elaborando e codificando il modello nutrizionale dei popoli del Mediterrano quale misura alimentare per prevenire l’infarto, ispirata alle usanze di Italia, Grecia, Spagna e Marocco, osteggiata dai potentati americani e riconosciuta patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO nel 2010.

L’apprezzata e salutare tradizione culinaria partenopea ha mantenuto nei secoli tutta la sua qualità e varietà, resa ancor più rinomata dagli studiosi della nutrizione, che si sono precipitati a certificarne la completezza di valori alimentari su base scientifica durante la penetrazione globale dell’alimentazione veloce all’americana, nefasta a tal punto da rendere proprio la Campania la regione più affetta da obesità d’Italia (che è uno dei Paesi europei più affetti da sovrappeso adulto e infantile), a causa di scarso consumo di frutta e verdura e alto di bevande zuccherate o gassate.

Insomma, è necessario tornare a mangiare alla napoletana e respingere lo stile americano per neutralizzare l’influenza negativa del mondo esterno globalizzato che, inquinando il pensiero individuale, omologa e sconvolge la specificità.

Quando la pizza stava per sparire

Agli spagnoli de La Vanguardia, il quotidiano più diffuso in Catalogna, ho raccontato come la pizza napoletana ha rischiato di sparire nell’Ottocento, e che se fosse accaduto la pizza non sarebbe oggi il cibo più famoso del mondo.
Aggirando un certo pregiudizio catalano, ho narrato come da uno scenario di timore nei confronti dei pizzaiuoli napoletani si sia passato a un altro in cui gli stessi pizzaiuoli sono considerati vere e proprie star, custodi di un patrimonio immateriale dell’Unesco. Senza dimenticare accenno alla falsità della pizza tricolore inventata per la regina d’Italia.

Di seguito la traduzione dell’articolo pubblicato in Spagna (a cura di Marc Casanovas) con record giornaliero di visualizzazioni.

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Più di un secolo prima che l’Arte dei “pizzaiuoli” napoletani fosse dichiarata Patrimonio Immateriale dell’Umanità, decenni prima che l’Associazione Verace Pizza Napoletana formulasse un decalogo di conformità obbligatoria della Pizza napoletana STG, anni prima che migliaia di famiglie italiane si imbarcassero su una nave alla ricerca del sogno americano con la ricetta in valigia, e anche prima che il pomodoro si stabilizzasse come ingrediente fondamentale in Europa, vi fu un momento cruciale nella storia in cui la pizza rischiò di sparire.

Il fatto è che le origini della pizza appartengono esclusivamente al proletariato e sono profondamente radicate nella città di Napoli. “La pizza era il cibo preferito dei lazzaroni, i poveri dei quartieri popolari”, dice Angelo Forgione, storico e autore de Il re di Napoli, un racconto sul pomodoro napoletano. Vale a dire che l’impasto, il pomodoro e la mozzarella furono uniti per sempre a Napoli grazie alla buona arte dei “pizzaiuoli” (artigiani della pizza). Rapidamente, la pizza si consacrò come piatto unico che permise ai più poveri di arrivare sfamati a fine giornata.

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Grazie a questa stretta relazione tra le persone e il loro cibo preferito nacque il concetto di pizza a ogge a otto”, che si riferiva alla possibilità di mangiare una pizza e di pagarla a otto giorni. Tale pagamento posticipato permetteva di nutrire gli affamati e attendere che il debitore recuperasse i soldi necessari a pagare: La pizza e i maccheroni nacquero come cibo di strada. Pietanze a prezzo popolare per la plebe che non aveva cucine attrezzate in casa ed era abituata a mangiava fuori, in piedi”. Lo conferma anche Antonio Mattozzi, autore di Una storia napoletana: “Il sottoproletariato napoletano riuscì a sopravvivere alla fame grazie a due dei principali pilastri della sua gastronomia: i maccheroni e la pizza, entrambi a basso costo e, allo stesso tempo, molto gustosi”. Non a caso, Alexandre Dumas rimarcò il valore simbolico nella prima cronaca gastronomica della pizza:

“A prima vista, la pizza sembra un piatto semplice; dopo averla ben verificata si comprende che è un piatto complicato. (…)È il termometro gastronomico del mercato: aumenta o diminuisce il prezzo secondo il corso degli ingredienti suddetti, secondo l’abbondanza o la carestia dell’annata. Quando la pizza ai pesciolini costa mezzo grano, vuol dire che la pesca è stata buona; quando la pizza all’olio costa un grano significa che il raccolto è stato cattivo (…)”.

Ma la sua umile origine suscitava sdegno e diffidenza tra le classi alte. Senza prove scientifiche, la pizza fu sospettata di trasmettere malattie e non mancò molto perché la sua storia finisse prima del tempo: “La reputazione della pizza fu rovinata dalle diverse epidemie coleriche”, dice Forgione. “Soprattutto quella del 1884, di cui divenne potenziale veicolo di contagio per i più timorosi. Basta leggere quello che scrisse il toscano Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio, per comprendere come sui pizzaiuoli di Napoli incombesse disprezzo e come sulla pizza napoletana vi fosse una pesante reputazione di alimento malsano per straccioni a rischio colera:

Vuoi sapere cos’è la pizza? È una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.

Un attacco classista che ha concentrato tutta l’ira su Napoli per l’immagine che stava proiettando all’estero. Per i politici romani era una vergogna nazionale. Fu allora che Agostino Depretis pronunciò le sfortunate parole che lo perseguiteranno eternamente: “Bisogna sventrare Napoli”. Il ministro lombardo faceva riferimento alla situazione insostenibile quando l’epidemia di colera colpì violentemente la città. Interi quartieri traboccavano di gente che faceva quello che poteva per sopravvivere.

Era quasi inevitabile che la pizza fosse collegata all’epidemia di colera, come se fosse esclusivo veicolo di tutti i mali del popolo. Forgione dice che “Le epidemia di colera colpirono continuamente e pesantemente i napoletani nell’Ottocento. La città era rifornita idricamente da due acquedotti sotterranei dalle cui cisterne si attingeva acqua raccolta in vasche scavate nel tufo, una roccia porosa e quindi non isolante dalle falde infette, dalla quale permeava l’acqua del mare, dove finivano gli scarichi delle fogne statiche. L’epidemia del 1884 flagellò la città con la metà dei decessi dell’intera Italia, e diede alla pizza una cattiva fama. Come dimostra Collodi, i pizzaiuoli di Napoli furono a lungo infamati come pure la pizza napoletana, che era fatta con acqua ritenuta infetta”.

Sorprendentemente, lo snobismo italiano perpetuò il cliché quasi fino ai nostri giorni: “Solo dopo la Seconda guerra mondiale la pizza iniziò a diffondersi in Italia con l’emigrazione dei napoletani nel triangolo industriale del Nord”. Per superstizione o paura, molti accettarono come inevitabile il piano per riurbanizzare l’intera città e partire da zero sembrava l’unica soluzione. Quello che non sapevano Depretis e gli altri politici è che i napoletani avevano una grande capacità di sopravvivere nonostante le condizioni avverse e sottovalutavano la forza unificante della pizza come fattore comunitario: “L’esplosione della pizza, nel secondo Settecento, fu talmente veloce che il tribunale borbonico piazzò delle epigrafi nelle strade centrali per avvertire la cittadinanza che l’esercizio della vendita ambulante dei generi alimentari era d’intralcio al passaggio dei pedoni e delle carrozze, e sarebbe stato punito con precise sanzioni pecuniarie. Una lapide è ancora ben visibile sulla strada di Port’Alba, dove si trovava la prima bottega specializzata in preparazione e smercio di pizze, insomma la prima pizzeria del mondo, che è ancora nello stesso posto”.

Ma cosa c’è di vero in questo legame quasi magico tra prodotto e persone che ha scongiurato la scomparsa della pizza? Per Forgione, “la pizza rimase un’esclusiva pietanza del popolo minuto fino alla fine dell’Ottocento, soprattutto perché la facevano pizzaiuoli insudiciati e si mangiava con le mani. I colti e facoltosi viaggiatori del Grand Tour che la vedevano mangiare in strada la considerarono una singolarità che non avrebbe mai potuto avere particolare successo. Mentre nel Settecento si diffondeva per le vie di Napoli, i ricchi, che avevano cucine e cuochi a disposizione, si indirizzarono verso la nuova cucina napoletana di influenza francese. E così nei palazzi nobili si diffusero i sartù di riso, i gattò e altri piatti dal nome francofono. Forgione ribadisce che “non c’erano certamente garanzie igieniche sui cibi venduti nelle strade, e questo costituì un limite per la diffusione della pizza”.

In quel momento cruciale della storia di Napoli, si optò per un’operazione di riabilitazione e marketing patriottico con l’approvazione di una nuova legge: “I Savoia non potevano permettersi di trascurare i problemi sanitari della città più popolosa d’Italia, e così il Governo stanziò i soldi per vari interventi, tra cui un più sicuro sistema fognario e un nuovo acquedotto”La più sicura situazione igienica garantì anche l’igiene alimentare e, di conseguenza, il futuro della pizza: “Da quel momento in poi, i napoletani ripresero a mangiare la pizza senza paura”. E fu allora che, secondo la leggenda, la famosa pizza tricolore fu dedica in onore della regina Margherita. La pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, cioè i colori della bandiera italiana. “Il racconto è stato tramandato fino a noi, ma si sa che alla gente piacciono le leggende”.

Questo destino non permise che la diffusione della pizza su tutto il territorio italiano avvenisse molto prima del previsto. Inoltre, la pizza è uscita dalla categoria dei prodotti umili solo negli ultimi anni. “La pietanza fu abbracciata dalle altre classi sociali nel corso del Novecento, ma solo negli ultimi vent’anni ha conquistato la sua completa dignità, fino a prendersi la ribalta dell’UNESCO. Ancora negli anni Ottanta, anche a Napoli essere pizzaiuolo era qualifica modesta. Ora un bravo pizzaiuolo è considerato una vera e propria star della cucina, e anche le persone ricche corrono a mangiare la sua pizza.


lo storico britannico John Dickie spiega a History Channel il perché la pizza tricolore, già esistente prima della visita dei sovrani sabaudi a Napoli del 1889, avesse bisogno a fine Ottocento di un rilancio d’immagine

le rubriche giornalistiche Rai raccontano l’esistenza della pizza tricolore prima del 1889