SOS Centro storico di Napoli patrimonio Unesco

Angelo Forgione Il Centro Storico di Napoli, patrimonio UNESCO, è un unicum di valore inestimabile per significati e per ricchezza monumentale ed edilizia, ma si sta sgretolando nella sostanziale indifferenza generale.
Con Antonio Pariante del Comitato Civico di Portosalvo e la restauratrice Isabella Fiorentino, ho accettato l’invito di Maria Muscarà, consigliera regionale del M5S, a denunciare i ritardi degli interventi del Grande Progetto UNESCO, 27 interventi complessivi nel perimetro dell’antico insediamento greco-romano di Neapolis, che avanzano – si fa per dire – con spesa rendicontata dal Comune di Napoli al 18 aprile 2019 di circa 15 milioni, pari al 15% del totale delle risorse disponibili.
Consiglio di prestare attenzione al video. Questa è la nostra denuncia, non senza proposta: un garante civico per il controllo dei fondi e dell’esecuzione dei lavori per il restauro delle opere architettoniche ed artistiche di Napoli e della Campania.

 

La morte della Villa Comunale di Napoli

Angelo Forgione – La prima passeggiata che fece Antonio Canova quando mise per la prima volta piede a Napoli, nel gennaio del 1780, fu alla nuova Villa Reale, oggi detta Villa Comunale. Era una unicità assoluta in Italia, voluta da Ferdinando di Borbone e firmata da Carlo Vanvitelli. Un nobile giardino sul lungomare riempito di gessi, tempietti e fontane, sulla scia della moda neoclassica lanciata da Napoli con gli scavi vesuviani.
Nel suo secondo “Quaderno di viaggio”, l’artista veneto scrisse: «[…] presimo la strada di Chiagia e fumo andati a vedere il nuovo giardino Pubblico, cosa veramente bellissima».
Una delle tantissime visioni che lo condussero a dir di Napoli: “[…] per tutto sono situazioni di Paradiso […]”.

Qualche anno dopo, il tedesco Hermann von Pückler-Muskau, artista tedesco specializzato in architettura del paesaggio, fece la stessa escursione, come tutti gli stranieri in visita culturale alla città, e scrisse:
“[…] giungemmo alla passeggiata che chiamano villa Reale, sita in riva al mare, anche se nell’interno della città e che mi sembrò essere il luogo di convegno della società distinta. Non credo vi sia al mondo giardino pubblico che si possa paragonare a questo, tanto per la sua posizione che per la sua distribuzione. […] Viali di lecci folti, ma nani formano passeggiate ombrose, miste a giardini inglesi, terrazze, fiori e fontane zampillanti”.

Oggi la Villa Comunale di Napoli è paradigma dei disastri amministrativi. Lo sfregio all’impronta neoclassica della passeggiata reale, che di reale ormai non ha più nulla, è iniziato con Antonio Bassolino e l’allora assessore competente Dino Di Palma. Tra il 1997 e il 1999, infatti, fu chiamato un designer moderno, Alessandro Mendini, a realizzare un intervento di riprogettazione che sollevò giustissime polemiche per l’evidente contrasto con l’ambiente creato da Carlo Vanvitelli. Napoli chiamava Milano, l’illuminata capitale del design moderno, consentendo a un contemporaneo di sovrapporsi a un architetto della storia locale, che aveva fatto un capolavoro nel secondo Settecento, quando Milano chiamò Napoli per farsi bella e neoclassica. Lo stesso sarebbe poi accaduto con la meneghina Gae Aulenti per la ridefinizione con altrettante polemiche di piazza Dante, e così si iniziò a cancellare una tradizione gloriosa, a favore di una modernizzazione coloniale. Ne vennero fuori degli chalet-scatolette a colori, l’alterazione dell’aspetto botanico della storica villa a sconvolgere la scelta delle essenze arboree fatta nell’800 dal tedesco Friedrich Dehnhardt (ispettore del Real Orto Botanico), la scellerata pavimentazione in tufo e lo scempio della cancellata in alluminio anodizzato con rimozione degli storici lampioni in ghisa in cambio di scabrosi “siluri” sempre in anodizzato.
Non bastò. Sotto l’amministrazione Jervolino arrivò la nuova Linea 6 metropolitana a mangiarsi gli spazi e a devastare la falda acquifera sottostante, con inevitabili danni agli alberi secolari della villa e pure alla stabilità dell’intera Riviera di Chiaja.
Lungo il corso dell’amministrazione De Magistris il colpo di grazia alla Villa, ormai completamente abbandonata a se stessa, un luogo non luogo, non più ambito dai cittadini e dai turisti. L’unico intervento, il restauro della Cassa Armonica di Errico Alvino, durato anni e inizialmente sbagliato nei colori, ma poi ripresi filologicamente grazie alla ricerca di chi scrive. Ora arrivano 2 milioni per provare a rimediare.

A Napoli, città ricca di storia disseminata nel suo tessuto urbano, la modernità ha violentato l’antichità e le straordinarie creazioni realizzate da artisti e governanti che avevano come prospettiva la Bellezza e la Storia. Carlo Vanvitelli e Giuseppe Piermarini furono gli allievi migliori di Luigi Vanvitelli, e se il primo rimase a Napoli a proseguire l’opera del padre il secondo fu chiamato a Milano dal governatore austriaco Karl von Firmian, amante della cultura napoletana, perché mettesse in pratica in Lombardia quello che aveva imparato al Sud. Oggi i milanesi Mendini e Aulenti rimaneggiano le realizzazioni settecentesche partenopee, al soldo di amministratori miopi e di corto respiro che beneficiano anche di silenzio e, spesso, di appoggio ideologico da parte di un certo ceto accademico e intellettuale “sensibile” alle suggestioni del potere.
Voltare pagina è una necessità. Ma per poterlo fare occorre una coscienza collettiva che alzi la voce di fronte alla devastazione dell’identità napoletana. Prima che sia troppo tardi.

 

Pezzi di storia di Napoli per risarcire la Russia

L’ambasciatore italiano in Russia, che poi è napoletano, inaugura una sede diplomatica a Voronezh, qualche centinaia di chilometri da Mosca, e scopre che nel museo cittadino sono custoditi preziosissimi volumi sulla storia del Regno di Napoli e sull’architettura vanvitelliana della Reggia di Caserta.
«Come mai si trovano qui?», ha chiesto il diplomatico Terracciano, e la risposta è stata: «Facevano parte dell’indennizzo per i danni di guerra provocati dagli italiani alla Russia».

 

Avete capito? L’Italia, per risarcire i russi, che tanto amano Napoli, ha ceduto loro alcune testimonianze del più bel palazzo del mondo, che in quegli anni veniva trascurato con insufficienti fondi per la manutenzione e veniva destinato per 800 ambienti su 1200 alla Scuola allievi ufficiali dell’Areonautica, e poi da due istituti scolastici superiori, con chiari danni visibili nel video dell’Istituto Luce qui di seguito:

 

 

 

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Il prevedibilissimo furto dell’albero di Natale in Galleria Umberto I

Angelo Forgione Sono stufo di commentare ogni anno il rituale gioco del furto dell’albero di Natale in Galleria Umberto I, paradigma del liberismo e della drammatica assenza di amor proprio partenopeo. Ma cosa c’è ancora da commentare? Quel che avevo da dire l’ho detto nel 2009, anzi, l’ho proprio scritto e attaccato sul vaso orfano dell’albero, in modo che lo riprendessero tutte le tivù nazionali e la figuraccia smuovesse l’immobilismo in un sito monumentale dove di notte si giocava a pallone e di giorno si faceva commercio di merce abusiva.
“SIETE IL NOSTRO CANCRO”, scrissi. Un messaggio di spregio alla banda di ladruncoli che da anni, puntualmente, privavano la città di un simbolo festoso.

Come se non bastasse, nella notte di Capodanno fu fatto esplodere un pericoloso ordigno pirotecnico sui marmi preziosi con i protagonisti della bravata soddisfatti nel riprendere la scena.

Dopo qualche mese, l’allora consigliere comunale Raffaele Ambrosino, che aveva raccolto le mie richieste e quelle dei commercianti, portò in aula un emendamento votato favorevolmente in Consiglio dalla giunta Iervolino, e così fu istituita la sorveglianza fissa H24 del monumento da parte della Polizia Municipale, inaugurata il 1 Giugno 2010. Mettemmo su pure un’improvvisata festicciola per brindare alla necessaria misura che poteva garantire la sicurezza minima.

Grazie al presidio, le partite di calcio furono sospese di forza e l’albero ebbe vita facile, per due anni e due festività natalizie, durante le quali la triste tradizione del furto dell’albero fu interrotta.
Poi cambiò il sindaco, arrivò De Magistris e, forse per problemi di bilancio, rimosse il servizio di vigilanza. E così i piccoli balordi tornarono immediatamente alla carica. La Galleria ri-piombò nell’incontrollata anarchia e il Natale portò le brutte figure napoletane e il danno d’immagine procurato dai nemici di Napoli che non non hanno alcuna sensibilità e rispetto per la comunità. Per non parlare del dramma che corre l’integrità monumentale del sito, il cui confronto con la gemella milanese fa vergognare.

Napoli è una città senza un’adeguata formazione civica e culturale. In assenza di questa, e quindi senza prevenzione, c’è bisogno di repressione. Chi l’amministra dimentica che per troppo tempo si sono alimentate le risacche di miseria, annidate in quartieri non solo periferici della città. A Napoli esiste una commistione tra borghesia e popolo minuto, concentrazioni indigenti in pieno centro, proprio a ridosso di importanti strade di demarcazione sociale. Nascono da qui alcune croniche criticità di particolare degrado monumentale, come quelle della Galleria, in cui il furto è un gioco di rivalsa dei ragazzini dei Quartieri Spagnoli nei confronti dell’altra parte della strada di Toledo, un assalto nel salotto di quell’altra Napoli, ma anche sfida alle forze dell’ordine. Il puntuale ritrovamento nei vicoli è una logica rivendicazione.

Dunque, o si ripristina la vigilanza H24 e si recupera l’intero decoro della Galleria oppure è inutile anche fare l’albero di Natale con la certezza che sarà sottratto. Io mi indigno molto di più per un quattordicenne che ci ha rimesso la vita sotto un pezzo di intonaco tra i tanti che negli anni si sono staccati, e continuano a farlo, dalla facciata del monumento. Le colpe sono le stesse.
E mo’, se permettete, me so’ scucciato ‘e parla’.

SiiTurista: Angelo Forgione icona pop

Dialogo coi ragazzi di Sii Turista Della Tua Città

1) Negli ultimi anni la tua popolarità è cresciuta enormemente, sei un intellettuale-storico “pop”. Ciò nonostante ti abbiamo visto in campo nella pulizia della discarica a via Aniello Falcone. Come mai?

“Cosa c’è di più intellettuale di mettersi al servizio della comunità? Pensiero e azione devono incedere in parallelo. Che senso ha spendersi per leggere, pensare, scrivere, opinare e poi starsene chiusi dentro la virtualità della rete, nei salotti culturali e nelle librerie? La mia attività è iniziata nel 2008 proprio con la denuncia, e da solo ho ottenuto piccoli-grandi risultati. Poi ho sentito l’intima spinta di diffondere identità e cultura, e questo ha consumato il mio tempo, e meno male che siete spuntati fuori voi. Mi ritengo a vostra completa disposizione per ogni cimento in strada. Fatemi un fischio e ci sarò.”

2) Quanto cambia la storia nel corso di un solo secolo è triste verità, ma quanto ti emoziona vedere e ascoltare che negli ultimi 10 anni c’è un forte Risveglio Culturale verso le nostre radici?

“Vedere che una parte di Napoletani e di Meridionali sentono il bisogno di conoscere l’altra storia, leggere libri diversi, è benzina per tenere acceso il motore. Non è solo una questione di cultura del passato ma una necessità per il futuro. I danni sociali che viviamo sono esattamente il risultato dell’ignoranza diffusa. Siamo immersi in un sistema di potere non troppo dissimile da quello della Chiesa del passato, che per secoli ha tenuto il popolo nel buio per meglio manovrarlo. Il meridione è immerso da tempo in un oscurantismo spaventoso del quale non tutte le colpe sono altrui. Il Risveglio Culturale è importante ma è ancora insufficiente nella sua propulsione. Molti non hanno ancora capito il senso della profusione e, poiché hanno sfiducia nel futuro, si aggrappano al passato per riempire un vuoto. Qui non si tratta di riempire i ventri molli di orgoglio ma di trasferire una minima conoscenza nelle teste, di dare quella scintilla utile ad accendere la luce e porsi in maniera pro-attiva in direzione del futuro. Strada lunghissima, ma l’importante è che sia iniziata.”

3) Secondo te è un caso che una città come Napoli, al centro del Mediterraneo, abbia pochissime spiagge o zone dove poter facilmente accedere al Mare? A volte sembra quasi che il Mare non bagni Napoli…

“No che non è un caso! Questa è una delle mie grandi battaglie culturali-identitarie, e la propongo in ogni occasione utile. A questa città, tra il 1885 e il 1905, è stato sottratto completamente l’accesso al suo mare. Tra “Legge per il Risanamento” e “Legge Speciale per il Risorgimento economico” sono state cancellate le spiagge di Santa Lucia, Chiaia e Bagnoli. Un delitto di Stato nel quale siamo cresciuti, educati all’accesso negato al mare. Lo vediamo dalle strade panoramiche, sembra appartenerci, ma di fatto non fa parte della nostra vita. Abbiamo un rapporto viscerale col mare sin dai tempi della Palaeopolis, e non è tollerabile che ci si accontenti distrattamente di cercare gli approdi meravigliosi ma scomodi e di Posillipo o di fare chilometri per raggiungere altri litorali. Non è tollerabile che ci si rallegri di sola prossimità col mare sul lungomare “liberato”. Il litorale di Napoli è ancora oggi tutto uno spreco di risorsa turistica e balneare, mentre Barcellona fa della sua spiaggia uno dei motori delle proprie fortune post-olimpiadi. Diamoci da fare tutti per alimentare questo necessario dibattito e per stimolare una diversa visione della città del futuro, che deve passare per l’idea che anche bagnarsi a Napoli faccia parte della nostra vita sociale.”

4) Cosa sogni per Napoli?

“Spero di morire dopo aver visto una vera spiaggia attrezzata e il centro storico, per intero patrimonio dell’Unesco, almeno decoroso. La sensazione di abbandono di strade, palazzi e chiese alla quale sia abituati, allo stesso modo del mare negato, è un mix di tristezza e rabbia che fa male già passeggiando da solo, figurarsi quando sento turisti rammaricarsene. E poi vorrei vedere i palazzi monumentali di Napoli illuminati di notte. È una città tetra in notturna, e anche a questo siamo male abituati. I turisti, invece, se ne accorgono eccome. La sola città d’arte che non si preoccupa di illuminare le sue bellezze a dovere. Qualche anno fa, Francesca Chillemi, ex miss Italia, passeggiando nottetempo per Napoli, disse che la città era luminosa di giorno ma buia di notte. Provate a vedere a Catania, dalle sue parti, come si accende la città.”

5) La tua passione per Napoli dove speri ti porterà?

“Non ho aspettative rispetto a questo che è un sentimento intimo. Quello che faccio mi viene spontaneo, quasi missionario, direi. Impiego energie e tempo come non potrei se non fosse un’esigenza che arriva dal mio centro. Spero solo che la nostra terra ritrovi un minimo di normalità e che sappia farsi rispettare, perché ha dato tanto al mondo occidentale e non può navigare a vista, ai margini del progresso.”

6) Ti chiediamo un consiglio per farci crescere sempre di più, vai!

“Toccate i temi che di cui vi ho parlato. Il contatto col mare; il restyling del Centro storico Unesco; l’illuminazione dei monumenti. Toccherete i tasti giusti. I napoletani vogliono questo per sentirsi turisti della loro città, anche nel caso in cui non ne siano consapevoli. Il resto lo fate già benissimo.”

Il Sud ignorato dai media e mal raccontato

Angelo Forgione – Il giornalista Maurizio Ferraris, piemontese, se la ride quando il professor Stefano Cristante, docente settentrionale di Sociologia dei processi culturali e comunicativi in Puglia, gli ricorda che i primati tecnologici dell’Ottocento italiano arrivavano dal Sud: «La prima ferrovia nel Regno delle Due Sicilie… noi piemontesi ce ne siamo avvalsi per meglio condurre l’invasione».
È una cruda verità storica in un dialogo televisivo per spiegare il Mezzogiorno, che nei media nazionali è spesso rappresentato come terra della criminalità e del degrado. Questa rappresentazione non si limita a cogliere dati di fatto ma aggiunge ai fatti un’interpretazione che fa di alcuni problemi la chiave di lettura di un’intera area geografica. Alla cultura del Sud non si rende giustizia e l’immagine che se ne dà è oggetto di processi di semplificazione e di caricatura.
Cristante snocciola un monitoraggio condotto insieme alla collega Valentina Cremonesi sugli argomenti trattati dal Tg1: da circa 35 anni solo il 9% delle notizie apparse sul telegiornale più seguito dagli italiani sono state dedicate al Sud Italia, e di questo 9% si è trattato per il 75% di cronaca e criminalità, seguito dal meteo e dal welfare, tradotto in malasanità. Lo stesso vale per il Corriere della Sera e per la Repubblica, che dal 2000 al 2010 hanno dedicato al Mezzogiorno uno spazio sempre più marginale: 500 articoli contro i 2.000 del ventennio 1980-2000, legati quasi esclusivamente a due sole categorie criminalità/cronaca nera e meteo/natura. Ciò per cui eccelle il Sud, sostanzialmente, non è stato e non viene raccontato, e non è solo un problema riferito a giornali o trasmissioni di chiara impronta discriminatoria. 
In sostanza, un terzo del territorio e degli abitanti d’Italia sono sistematicamente ignorati dai media o hanno un ruolo marginale.
La politica, incapace di mettere mano alla Questione meridionale ma solo di tradurre il lamento in vittimismo al pari di buona parte dell’opinione pubblica, non è stata in grado di intercettare il malcontento, che si è aggiunto al disagio esistenziale. Vittimismo che non va oltre l’incapacità dei meridionali di trasfomare la loro grande potenza creativa in forza politica, come evidenzia l’editore Alessandro Laterza. Ed ecco spiegato perché la gente del Sud, orfana di classi dirigenti all’altezza di proporre un riscatto, si affida in massa a persone senza esperienze di governo e dalla faccia pulita.

Saluto a Paolo Villaggio, uomo in polemica col “suo” Sud

Angelo Forgione Scompare a 84 anni Paolo Villaggio, sangue palermitano e identità genovese trapiantata a Roma. Con lui, protagonista del fortunato Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller, entrai in polemica diretta nel 2011, dopo una delle tante violente alluvioni di Genova. Tra distruzione e emergenza, Villaggio se la prese col Sud, con la sua storia, colpevole, a suo dire, di aver infettato l’intera Italia. Questo era il suo modo di pensare, ma non ne aveva completamente colpa. La sua era un’errata presunzione di superiorità nordica, e gli era stata trasmessa dalla sua Genova, dalla storia d’Italia. Lui, che prediligeva da buon ligure la cultura anglosassone, non conosceva davvero la Storia, e non sapeva che i grandi problemi del Sud e anche del resto d’Italia erano radicati nelle politiche dei primi governi del Regno d’Italia, proprio quelle che avevano sollevato la sua Genova, insieme a Torino e Milano.
Se ne va uno dei sostenitori delle falsità storiografiche d’Italia, ma aveva almeno l’attenuante di esserne stato plagiato, non quella di aver insisto fino alla fine a puntare il dito con eccessiva severità e superiorità contro Napoli e il Sud.

La volgare (e debole) difesa di Michele Emiliano: «Bari non è Napoli»

Angelo Forgione –  Nel finale di puntata del 23/02/16 di L’aria che tira (La7) Myrta Merlino ha trattato il tema dell’emergenza sicurezza nelle periferie di Bari, città purtroppo interessata dall’erosione sociale della malavita organizzata come le maggiori del Sud. Ospite in studio il Governatore della Puglia Michele Emiliano, che, dopo un reportage filmato sulla delinquenza nel quartiere San Pio, si oppone affermando che «il servizio è completamente sconnesso dalla verità, perché gli autori del triplice omicidio di cui si è parlato sono stati immediatamente catturati». Per rinforzare la difesa, l’ex sindaco di Bari ha poi usato un termine di paragone, il più classico, il più volgare: «Noi ci siamo eccome. C’è la Regione, c’è il Comune, c’è la Questura, ci sono i magistrati. Cioè… la Puglia (Bari) non è Napoli, e rappresentare Bari in quella maniera è un errore catastrofico. In quel quartiere nessuno si può permettere di commettere reati senza finire in galera regolarmente, perché è noto che gli uffici giudiziari della città di Bari e della Puglia reagiscono puntualmente».

Punto 1: Il sistema giudiziario di Napoli non è diverso da quello di Bari, ed Emiliano non può insinuare che gli uffici giudiziari di Napoli e della Campania reagiscono diversamente e meno prontamente nei confronti di chi commette reati. Che poi lo Stato al Sud sia sostanzialmente assente è certo, ma Bari e Napoli sono entrambe meridionali. Irrispettoso!
Punto 2: Il tasso di omicidi di Napoli e Bari (per 100.000 abitanti) è pressoché identico. Il Rapporto ISTAT 2015 (riferito ai dati 2013) dice che, circa gli omicidi volontari (tentati e consumati) nei grandi comuni, Napoli e Bari hanno gli stessi valori, e che nel quinquennio 2009-2013 Napoli ha visto migliorare la sua situazione mentre per Bari gli omicidi sono in aumento. Disinformato!
Punto 2: Rappresentare Bari (e Napoli) in maniera distorta, diffondendo la sensazione che tutta la città sia interessata da fenomeni di criminalità è sicuramente un errore, ma è davvero catastrofico, non per Bari ma per Napoli, tentare di migliorare la percezione della città pugliese attraverso la denigrazione di quella campana. Scorretto!
Punto 3: Emiliano, evidentemente, ha idea di quale catastrofe rappresenti per Napoli il perpetuo uso del suo nome in termini negativi, giorno dopo giorno, nelle emittenti nazionali, e perciò non vuole che questo accada per la sua città. Però poi violenta Napoli. Ipocrita!
Punto 4: Il fatto che vengano catturati degli assassini vuol dire che quegli assassini esistono, e quindi esiste un’emergenza sicurezza. La cattura segue il reato, non lo cancella. Sballato!

Dispiace davvero vedere un politico d’impronta meridionalista, che legge libri meridionalisti, governatore di una regione del Sud, ex sindaco di un’importante città meridionale qual è Bari, fare la guerra dei poveri e infangare inopportunamente un’altra città del Sud, peraltro la più rappresentativa, quella di cui conosce bene la storia e i motivi del declino. Proprio colui che, più degli altri, ha sollecitato in passato una sinergia tra le amministrazioni meridionali da opporre alle politiche filosettentrionali.

Vecchioni: «Sicilia isola di m…, ma è provocazione d’amore». Poi elogi a Milano e brutte rassegnazioni.

Angelo Forgione Un’offesa volgare incastonata in una riflessione ad ampio raggio può essere più forte del senso di un discorso espresso, e perciò strumentalizzata. Quella pronunciata da Roberto Vecchioni nell’aula magna della facoltà di Ingegneria di Palermo, secondo tanti, ha offeso l’orgoglio siculo e meridionale. «Sicilia, sei un’isola di merda» ha scatenato furiose polemiche sui social network. Ma cosa intendeva dire il professore della canzone? L’audio integrale parla chiaro e va analizzato per intero.
Da 150 anni qui non succede nulla. Credete che sia qua soltanto per sviolinare? No, assolutamente. Arrivo dall’aeroporto e mi tirano dietro le uova. Entro in città e praticamente ci sono 400 su 200 persone senza casco. In tutti i posti ci sono tre file di macchine in mezzo alla strada, e si passa con fatica. Questo significa che tu non hai capito cos’è il senso dell’esistenza con gli altri. Non lo sai, non lo conosci. È inutile che ti mascheri dietro al fatto che hai il mare più bello del mondo. Non basta, sei un’isola di merda. La mia è una provocazione d’amore. La filosofia e la poesia antiche hanno insegnato cos’è la bellezza e la verità, la non paura degli altri, in Sicilia questo non c’è, c’è tutto il contrario. E mi sono chiesto, prima di arrivare qui, se dovevo dirle queste cose a voi ragazzi. Non avete idea di cosa sia la civiltà, la colpa è vostra! Volete sviolinate? No. Io non amo la Sicilia che rovina la sua intelligenza e la sua cultura, le sue coste; quando vado a vedere Selinunte, Segesta e altri posti di questo tipo non c’è nessuno a spiegarti cosa c’è da sapere. Non amo questa Sicilia che si butta via, che non si difende. Siete il popolo più intelligente, perché vi buttate via?

Fermarsi a questo servirebbe a spegnere le polemiche su una parola fuori posto in un discorso evidentemente condivisibile per tanti versi. Ma c’è dell’altro, e lo si ascolta in seguito, quando Vecchioni risponde a un ascoltatore che ha protestato.
No, non si fa così. Poi se vieni a Milano ti spiego perché… anche perché Milano ha inventato per tutto il mondo una cosa per 25 milioni di persone [l’Expo] che manco per il cazzo poteva succedere in qualsiasi altra città d’italia, questo mettitelo in testa. E tu dirai “perché hanno più soldi?” No, non sono i soldi. È la volontà!

A questo punto interviene il moderatore, di fianco, a cercare di sedare la protesta. E dice qualcosa di veramente esecrabile (e contraddittorio):
 
Vecchioni è qui perchè ci vuole stimolare a prendere coscienza di un declino irreversibile che innegabilmente c’è in Sicilia e ad essere protagonisti del cambiamento.

È dunque forte la denuncia, e va accettata, ma non si tratta certo di “provocazione d’amore” per la Sicilia. È chiaro che di sentimento vi sia veramente poco e che il tutto sia ispirato da una certa tipica e presunta superiorità di stampo milanese da esportare al Sud retrogrado. È evidente la beatificazione dell’Expo delle multinazionali, degli illeciti amministrativi e delle risorse per il Sud distratte per metterlo in piedi, e poi ripulito nella sua immagine con un evidente maquillage dall’alto attraverso la creazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Sono stati proprio i soldi la volontà motrice dell’Expo, ma Vecchioni finge di non saperlo, come forse finge di non sapere da dove nasce il degrado meridionale.
La denuncia è corretta, perché quel Sud che offende la sua Cultura, la sua Storia e la sua Civiltà va condannato, ma ci sono ambienti e ambienti per il turpiloquio e per le offese, e in quel contesto, con quel linguaggio, Vecchioni ha fatto, purtroppo, danno soprattutto a se stesso più che alla Sicilia. C’è da sperare vivamente, per il rilievo del cantautore, che questi fosse un po’ su di giri, come due anni fa, quando gli fu ritirata la patente per guida in stato di ebrezza e provò a giustificare al giudice l’alto tasso alcolemico nel sangue con l’assunzione di uno sciroppo per la tosse a base di alcol.
Più delle parolacce usate in un’aula magna, però, ritengo decisamente più stonati gli elogi alla Milano che insegna e le parole del moderatore. Quando un cantautore meridionale andrà alla Bocconi a dire che la Lombardia è una m…, perché è ancora la Tantentopoli irredenta degli anni Novanta, capiremo la differenza tra vittimismo e legittima difesa. E non si può definire irreversibile il degrado, soprattutto se poi dopo chiedi ai siciliani di farsi protagonisti del cambiamento. Se proprio dobbiamo tirar fuori una frase dal contesto, condanniamo quella del moderatore siciliano, il primo da stigmatizzare per aver comunicato a studenti e non studenti la sua rassegnazione. Neanche quella è irreversibile.

La prima stazione ferroviaria simbolo del passato cancellato

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Angelo Forgione La mattina del 3 ottobre 1839, alla presenza del Re Ferdinando II e delle più alte cariche del Regno delle Due Sicilie, da Napoli partiva il primo treno d’Italia. Si trattava di una locomotiva a vapore costruita nelle officine ‘Londridge e Starbuk’ di Newcastle, mentre le carrozze e il resto dei materiali rotabili erano costruito nel Regno (le rotaie dal Polo siderurgico di Mongiana, in Calabria). C’è da chiedersi perchè la prima stazione ferroviaria della Penisola, quella da cui il convoglio partì per percorrere la prima strada ferrata italiana che conduceva a Portici, sia abbandonata nel degrado più assoluto. È una delle domande più frequenti dei napoletani consapevoli, senza risposta dalle istituzioni. I non consapevoli, invece, non sanno neanche dove si trovi, e quando passano davanti la stazione della Circumvesuviana al Corso Garibaldi non immaginano cosa ci sia nei pressi e cosa sia accaduto in quel posto quel 3 Ottobre di 176 anni fa. La stazione della società Bayard, con la sua prima strada in ferro che passa davanti la storica Villa d’Elboeuf – anch’essa in pietoso stato – per culminare a Pietrarsa, monumento allo sviluppo interrotto, meriterebbe lustro e percorsi turistici. La prima stazione del Paese dovrebbe essere meta di turismo e pellegrinaggio di appassionati. E invece…

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Il 28 Novembre del 2011 fu inaugurata a Roma la nuova stazione Tiburtina dell’Alta Velocità, intitolata a Cavour. Quella stessa sera un servizio del TG1 di Marco Bariletti diffuse le seguenti parole: “la stazione è intitolata al Conte Camillo Benso di Cavour, il primo che pensò alle strade ferrate”. Falso, perchè la prima ferrovia piemontese, la Torino-Moncalieri, fu inaugurata nel 1848. Vi circolavano decine di 
locomotive napoletane che il Piemonte aveva acquistato da Pietrarsa, il cui reparto di produzione locomotive a vapore fu inaugurato nel 1845. Gli acquisti cessarono solo con la fondazione dell’Ansaldo, che poi avrebbe beneficiato, dopo l’Unità, delle commesse della stessa Pietrarsa mandata a chiusura e relegata prima a officina di riparazione e poi a museo. E se è vero che nel 1861 le Due Sicilie contavano circa 130 km di strade ferrate mentre il Piemonte ben 850 circa, è anche vero che altri 130 erano in costruzione o in preparazione al Sud in modalità “sostenibile”, cioè lentamente e senza pesare troppo sulle finanze statali, contando anche sulle sviluppatissime vie del mare che da sempre servivano il trasporto delle merci delle Due Sicilie, mentre Cavour e Vittorio Emanuele II, che non disponevano di trasporti marittimi, si erano indebitati a tal punto per costruire rotaie che neanche i ducati delle Due Sicilie furono sufficienti a ripianare il debito pubblico poi trasformato in “nazionale”. La stessa Napoli-Portici-Nocera fu costruita a spese dell’ingegnere francese Armando Bayard de la Vingtrie in cambio della gestione della linea per 80 anni, una sorta di “project financing” d’avanguardia. Il ruolo di primo grande modernizzatore italiano non spetta a Cavour bensì, di diritto e di fatto, a Ferdinando II. Dopo l’Unità, il piano di sviluppo ferroviario borbonico fu cancellato in corsa e fra i primi provvedimenti del parlamento di Torino ci fu la sospensione dei lavori della ferrovia Tirreno-Adriatica tra Napoli e Brindisi, iniziata nel 1855. Eppure, le gallerie e i ponti erano già stati realizzati, ma a nulla valsero le proteste degli ingegneri convenzionati. Le ferrovie meridionali furono poi cedute dal governo di Torino alla compagnia finanziaria privata torinese di Pietro Bastogi, che le subappaltò vantaggiosamente e clandestinamente, sostituendosi al governo nell’approvare un contratto con destinatari diversi da quelli indicati dal ministero, per una speculazione sulla costruzione della rete ferroviaria al Sud che coinvolse diversi governi del Regno d’Italia. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord, con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Nel 1864, una commissione d’inchiesta indagò sulle grosse speculazioni attorno alla costruzione e all’esercizio delle reti ferroviarie meridionali. I giudici denunciarono la sparizione di importanti documenti comprovanti la colpevolezza degli imputati, e sparirono anche i progetti di collegamento orizzontale tra Tirreno e Adriatico (maggiori dettagli su Made in Naples – Magenes, 2013).
Prima i bombardamenti della guerra e poi il terremoto hanno ridotto la stazione “Bayard” a rudere di cui nessuno si è mai interessato in settant’anni. Eppure nel 1998 il Consiglio Comunale di Napoli discusse l’opportunità di un’integrazione culturale che accogliesse una più ampia valutazione storica nel corso delle celebrazioni del bicentenario del 1799. In sostanza la città decise la rivalutazione di ogni periodo storico, a prescindere che si trattasse di vinti o vincitori, ma ben poco è stato fatto. Nel 2008 Erminio Di Biase, già autore del libro L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie, portò sul posto le telecamere di Rai Tre Regione per denunciare le condizioni della struttura. Ovviamente, dopo sette anni e tante parole, nulla è cambiato.