––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione — “Juventini disturbati”. Una mia definizione del 2017 proferita dopo una delle tante incursioni vuote degli juventini di Napoli in una trasmissione televisiva locale dedicata al Napoli e alla cultura napoletana, ripescata strumentalmente dai tifosi bianconeri in questo periodo per loro difficile, diventa l’occasione per un ben più interessante dibattito tra me, Paolo De Paola e il conduttore Vincenzo Marangio (tre napoletani di nascita) sulla difficile convivenza tra juventini e napoletani a Napoli e dintorni e, soprattutto, sui diversi aspetti del tifo meridionale in genere.
Tratto da “Radio Bianconera” (TMWradio) del 5/12/22
Angelo Forgione –«Terrone di m…», urla a un giornalista napoletano un tifoso del Milan della provincia umbra di Terni, tutt’altro che settentrionale, all’esterno dello stadio Meazza del capoluogo lombardo. Spaccato di un’Italia calcistica in cui, oltre a certa ideologia imperante in alcune tifoserie storicamente e dichiaratamente razziste, troppo spesso l’astio verso i napoletani risponde a un fastidio avvertito da gente del Centro-Sud che tifa per le grandi squadre del Nord. Diventare tifosi di Juventus, Inter e Milan da bambini perché provenienti da territori le cui squadre sono impossibilitate a lottare per il vertice, e rendersi conto che il Napoli è l’unico club del Mezzogiorno capace di fronteggiare le nobili strisciate settentrionali, produce una sorta di invidia che si esprime con manifestazioni discriminatorie, tanto più violente quanto più è competitivo il Napoli. Picchi storici negli anni maradoniani e in quelli correnti, non a caso i due periodi più floridi della storia Azzurra. Perché più l’unico grande club del Sud dà fastidio a quelli del Nord e più il razzismo nei confronti dei suoi tifosi cresce, non solo al Settentrione.
In una questione meridionale che coinvolge anche lo sport, il Napoli, l’unica espressione meridionale del calcio metropolitano, è la quarta potenza d’Italia per bacino d’utenzae, di fatto, la squadra di calcio più titolata del Mezzogiorno, sia a livello nazionale che internazionale. Dietro, al Sud, vi è un sostanziale vuoto. Per trovare la prima concorrente per prossimità territoriale, bisogna salire di duecento chilometri, a Roma, città della quinta e della sesta potenza della Penisola calcistica. Ma il Napoli è pur sempre il club di Maradona, il calciatore più forte di tutti i tempi, un preziosissimo patrimonio in termini di notorietà e blasone che va oltre la non troppo ricca bacheca del club. Ed è proprio per sua “colpa” che in Italia pronunciamo la definizione di “discriminazione territoriale” per indicare in modo mascherato il razzismo di un territorio verso un altro, che però, senza girarci troppo intorno, è manifestazione di intolleranza nei confronti dei napoletani.
Con l’avvento del Fascismo, le differenze tra Nord e Sud furono celate dal Nazionalismo mussoliniano, ma la proclamazione delle Leggi razziali, ispirate dal Manifesto degli Scienziati razzisti, più noto come “Manifesto della razza”, condusse alla subdola rielaborazione del concetto di superiorità etnica interna. La visione dei colonizzati d’Africa si sovrappose al modo in cui erano stati considerati i meridionali nel periodo postunitario. Tripoli, Mogadiscio e Addis Abeba vennero trattate come lo erano state Napoli e Palermo nel periodo risorgimentale, e i metodi di repressione delle rivolte coloniali furono formulati sul modello della lotta al brigantaggio, tant’è che la rivolta anticoloniale in Libia degli anni Venti fu gestita col ricorso agli stati di assedio, alla Giustizia militare e alle pene capitali, ovvero ricalcando la Legge Pica del 1863.
Nel Dopoguerra, le popolazioni del Sud si spostarono in massa nel “triangolo industriale”, trovando cartelli del tipo “Non si fitta ai meridionali”, e divennero per i torinesi “i tarún” e per i milanesi “i terun”, ma anche “i mau-mau”, appellativo mutuato dal nome della comunità kenyana ribellatisi al dominio coloniale britannico. E poi “i nàpuli”, appellativo ingiurioso piemontese poi tradotto in “nàpoli” e inserito in forma spregiativa nei moderni vocabolari di lingua italiana.
Il Calcio, divenuto grande passione delle domeniche degli italiani, non rimase immune da certe manifestazioni. Il razzismo, negli stadi, si affacciò negli anni Sessanta, in concomitanza con l’arrivo in Italia di calciatori di pelle nera, costretti ad ascoltare le prime offese da parte dei tifosi del Nord. E il Cagliari in vetta alla classifica nel campionato del 1970, poi vinto, veniva accolto a Milano e a Torino al grido di «banditi» e «pecorai». Nessuno sapeva che la proprietà del club, nell’ombra, era dei lombardi Angelo Moratti e Nino Rovelli, bisognosi di fare affari in quella terra per realizzare i loro impianti petrolchimici.
Sulla scia del colera del 1973 che colpì violentemente Napoli, ma anche Cagliari, Bari e altre città del Sud, nacquero i cori discriminatori contro i napoletani. Storia chiarita, quella del colera, esploso con la distribuzione di cozze infette di provenienza tunisina durante un’epidemia partita dodici anni prima dall’Indonesia e in quel periodo transitante nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 ed è in circolo ancora oggi. La scorretta informazione italiana colpevolizzò Napoli, con conseguenze pesantissime sul turismo e sulla condizione socio-economica della città.
Le autorità sanitarie della Regione Liguria disposero che il Napoli non dovesse recarsi a Genova per il match di Coppa Italia Genoa-Napoli del 16 settembre, temendo che potesse diffondere il vibrione sul territorio, contrariamente al parere delle autorità sanitarie campane. Fu decisa l’inversione del campo, ma i calciatori del Genoa si rifiutarono di recarsi a Napoli, e non partirono, accettando lo 0-2 a tavolino. Un mese più tardi, una volta che l’OMS ebbe dichiarato la conclusione dell’emergenza a Napoli (dopo solo un mese e mezzo, altrove proseguì ancora lungo), i genoani andarono a disputare un’amichevole di riconciliazione nel capoluogo campano. Ma da quel momento, in ogni stadio del Nord, il Napoli fu accolto al grido di «co-le-ra, co-le-ra», un’etichetta immeritata per un popolo che aveva dato prova di grande compostezza nella più imponente operazione di profilassi del dopoguerra.
Trascorsero sedici anni prima che la FIGC introducesse le sanzioni per “discriminazione territoriale”, entrata ufficialmente nel codice di giustizia sportiva nell’autunno del1989, in piena epoca maradoniana, cioè di Napoli vincente, come mai era avvenuto prima di allora. Gli Azzurri, tre anni prima, avevano iniziato a spadroneggiare con le milanesi grazie al più forte calciatore del mondo. Tanta la paura e la rabbia per quei miserabili del Sud che si erano presi quello che era sempre “spettato” al Nord, lo scudetto, e minacciavano di rifarlo ancora dopo aver trionfato anche in Europa.
Vinto il primo Tricolore, a Torino era stato esposto una scritta infame: “Napoli campione oltraggio alla Nazione”. La sera del 17 maggio 1987, dagli schermi di Rai Uno per Notte per uno scudetto, uno show celebrativo del primo tricolore, l’ottimo Gianni Minà, torinese, aveva finto di intervistare un sorridente Massimo Troisi, napoletano, ricordandogli che al Nord erano comparsi striscioni del tipo “siete i campioni del Nord Africa”, e che evidentemente l’unità d’Italia non fosse mai avvenuta. Il compianto attore di San Giorgio a Cremano, in tempo di apartheid e di propaganda leghista, aveva risposto alla sua maniera: «Io, intanto, sinceramente, preferisco essere un campione del Nord Africa piuttosto che mettermi a fare striscioni da Sud Africa».
La consacrazione della “discriminazione territoriale”, ovvero il razzismo tra italiani negli stadi, avvenne dopo il match Roma-Napoli (1-1) dell’8 ottobre 1989 allo stadio Flaminio, con l’Olimpico in rifacimento per i Mondiali previsti in Italia a fine stagione. Match tra un Napoli in testa alla classifica e una Roma quarta che avrebbe potuto agganciarlo, in uno stadio piccolo e strapieno. Venticinquemila spettatori di cui tremila napoletani, e diretta televisiva, insolita per l’epoca, irradiata eccezionalmente nelle province di Roma e di Napoli per motivi di ordine pubblico. Tensione forte all’esterno dello stadio tra le due tifoserie e “botte” in campo tra le due squadre. Persino Maradona, sempre estremamente corretto in campo, a fine primo tempo era entrato pericolosamente sulle caviglie del romanista Desideri, autocensurandosi nel dopopartita. Durante il match, i tifosi della Roma avevano più volte ricordato ai napoletani di essere colerosi e terremotati e di non usare il sapone per eliminare la loro puzza. E poi le invocazioni al Vesuvio, scioccanti in quel periodo storico, anche perché fino a qualche anno prima, tra romanisti e napoletani, era stato celebrato un meraviglioso gemellaggio, interrotto proprio quando il Napoli aveva preso il posto della Roma nella contesa dello scudetto contro Juve, Milan e Inter. Parallelamente alla crescita del club partenopeo era cresciuta l’aggressione verbale verso i suoi tifosi negli striscioni e nei cori, non più prerogativa esclusiva di certi stadi del Nord.
La colpa dei romanisti, in quella domenica d’autunno del 1989, fu quella di aver discriminato i napoletani esattamente il giorno dopo una storica marcia antirazzista per le strade della Capitale, la prima grande manifestazione nazionale contro il razzismo in Italia, promossa dopo l’omicidio dell’immigrato Jerry Masslo avvenuto la sera del 24 agosto 1989. Il bracciante sudafricano, prima di essere ucciso durante una rapina ai danni di un gruppo di una trentina di conterranei, aveva denunciato il razzismo degli italiani in un’intervista, avvisando che prima o poi qualcuno dei suoi sarebbe stato ammazzato. Quel delitto aveva scosso l’opinione pubblica, facendo scoprire agli italiani di essere razzisti, e aveva messo in moto il meccanismo per l’organizzazione dell’epocale manifestazione con duecentomila partecipanti nelle strade di Roma, alla quale, come atto di protesta verso le espressioni di discriminazione che si verificavano in molti stadi, avevano aderito formalmente anche i calciatori del Napoli, del Milan e dell’Inter, oltre al sindacato dei calciatori. Che imbarazzo per la Federcalcio: la capitale d’Italia a gridare no al razzismo il sabato e a invocare il Vesuvio la domenica. E così fu immediatamente introdotta la “discriminazione territoriale” tra i motivi di provvedimento disciplinare nel Codice di Giustizia sportiva. Sanzioni pecuniarie qua e la fino al termine del campionato, vinto sul turbolento finale dal Napoli di Maradona sul Milan di Sacchi. Il fuoriclasse argentino dovette difendere proprio negli stadi italiani, e da campione d’Italia con il Napoli, il titolo mondiale dell’Albiceleste vinto in Messico quattro anni prima. All’esordio contro il Camerun, nello stadio dei rivali milanisti e interisti, il tifo fu tutto per i “leoni indomabili”, vincitori a sorpresa per 1 a 0. Dopo i fischi all’inno argentino e il sostegno agli africani, Diego si rifece in sala stampa con sarcasmo pungente: «L’unico piacere di questo pomeriggio è stato scoprire che, grazie a me, gli italiani di Milano hanno smesso di essere razzisti: oggi, per la prima volta, hanno fatto il tifo per degli africani».
Malcostume bandito nelle successive due partite, perché giocate a Napoli, ovvero in casa. I fischi all’inno argentino ripresero a Torino, per il derby sudamericano vinto contro il Brasile, e a Firenze, per la sfida alla Jugoslavia vinta ai rigori. Alla semifinale di Napoli approdarono proprio la Nazionale di Maradona e l’Italia. Dieguito, colui che era scappato da Barcellona per il razzismo dei catalani nei confronti dei “sudaca” del Sudamerica, dopo anni di battaglie in campo per i “terroni” napoletani, alla vigilia dello scontro coi padroni di casa, lanciò un proclama agli italiani in cui racchiuse un acuto messaggio identitario: «Per 364 giorni su 365 chiamano “terroni” i napoletani, ma questa volta gli chiedono di essere italiani. L’Italia si ricorda che sono italiani solo quando devono sostenere la Nazionale, poi si dimentica di come li tratta».
Erano passati nove mesi dall’introduzione della “discriminazione territoriale”. La gente di Napoli apprezzò le parole dell’amatissimo avversario; molto meno gradì il resto d’Italia, che di certo non poteva guardarsi allo specchio per una partita della Nazionale di calcio. A guadagnarsi la finalissima fu l’Argentina, certamente per errori degli Azzurri, anche se il CT Vicini e qualche calciatore azzurro preferirono incolpare i napoletani sugli spalti. La tensione salì alle stelle nel ritiro dell’Argentina a Trigoria, storico quartier generale della Roma, antipasto della vendetta per quell’imbattibile ragazzo che faceva vincere il Napoli e l’Argentina. Nella notte della finale all’Olimpico contro la Germania Ovest tornarono più violenti che mai i fischi all’inno argentino, ai quali il capitano del Napoli rispose con un eloquente «hijos de puta» in mondovisione. Complice un rigore benevolo concesso ai tedeschi, tra cui alcuni romanisti e interisti, Diego dovette lasciare il trofeo agli avversari, tra incessanti fischi e amarissime lacrime. Ormai odiato in Italia e amato solo a Napoli, finì di fatto lì la sua parabola vincente e l’avventura nel Belpaese.
Il Napoli, nella stagione successiva, iniziò a declinare, trascinandosi lungamente verso il fallimento del 2004, al culmine di un decennio abbondante di affanni tra la Serie A e la B. Di pari passo, la discriminazione dei napoletani si assopì, per risvegliarsi esattamente quando il Napoli di De Laurentiis ritornò in Serie A. 6 ottobre 2007: a San Siro, i tifosi dell’Inter accolsero i tifosi partenopei scrivendo “Ciao colerosi”, “Napoli fogna d’Italia”, “Partenopei tubercolosi” su degli indecenti striscioni sparsi qua nel secondo anello della Curva Nord del Meazza. Accadde a quattro mesi dall’entrata in vigore del nuovo Codice di Giustizia sportiva, per il quale fu imposta per la prima volta la chiusura temporanea di un settore di stadio, nella fattispecie quello degli ultras interisti, per comportamento discriminatorio La prima storica proibizione per i tifosi, abbonati e non, colse tutti di sorpresa e riaprì un dibattito di fatto antico.
Il Napoli si riaffermò sempre più tra le grandi della Serie A e iniziò a proporsi persino come concorrente della Juventus, al principio dello storico ciclo-record dei Bianconeri. E perciò, il 22 ottobre 2012, durante il match Juventus-Napoli, andò in onda sulle frequenze piemontesi della Rai la grande vergogna del TG Regione Rai Piemonte. A partita da poco iniziata, fu mostrato un servizio firmato dal cronista Giampiero Amandola, recatosi ai cancelli dello stadio prima del match. I telespettatori piemontesi videro due giovani juventini urlare in coro «o Vesuvio lavali tu» nel microfono. Uno di loro spiegava poi che i napoletani erano inestinguibili perché «ovunque, a Nord e a Sud, un po’ come i cinesi», e il giornalista si univa allo squallore così: «Li distinguete dalla puzza, con grande signorilità». Compiaciuto, il tifoso rilanciava: «Molto elegantemente, certo!». Proprio chi scrive, allertato da una segnalazione giunta da uno sdegnato telespettatore, denunciò quanto era stato diffuso nei confini regionali del Piemonte, evitando che tutto restasse nei confini regionali e passasse in cavalleria. Il vergognoso servizio, posizionato sul web a futura memoria, accese l’indignazione napoletana e, divenendo immediatamente virale, divenne visibile all’Italia intera e oltre.
La Rai prese le distanze da ogni razzismo, scusandosi con l’allora sindaco di Napoli De Magistris, così come fece l’omologo Piero Fassino, e aprì un procedimento disciplinare per Giampiero Amandola, dopo aver diffuso in un’altra edizione del telegiornale regionale piemontese un duro comunicato stampa con cui condannò la condotta del suo dipendente e chiese scusa ai cittadini di Napoli ma anche a tutti gli italiani per l’inqualificabile servizio.
Uno scandalo enorme, sulla scia del quale, nella primavera del 2013, la FIGC, allertata dall’UEFA per la degenerazione degli eventi italiani, dovette recepirne le nuove direttive, diramate il 23 maggio attraverso l’adozione della risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo, con cui furono inasprite le pene per i casi associati agli eventi internazionali. L’organo calcistico europeo pretese altrettanta severità da ogni Federazione affiliata, chiedendo di impegnarsi per favorire l’adozione di identiche politiche sanzionatorie “in relazione alle manifestazioni nazionali”. Gli ispettori federali della FIGC furono chiamati a non tapparsi più le orecchie e a refertare tutti i cori di discriminazione territoriale. Dell’accanimento riversato sui napoletanine fece immediatamente le spese la curva del Milan, e poi quella della Juventus, della Roma, del Bologna e molte altre in sequenza continua.
L’allora amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, scese in campo a guidare la rivolta dei club contro le nuove norme, fino a ottenere la modifica all’applicazione della norma e introduzione da parte del Consiglio federale della cosiddetta “sospensione condizionale”, una sorta di ammonizione per le società, le cui pene sarebbero state congelate per un anno solare e applicate in modo cumulativo solo nel caso di una seconda violazione dei loro supporters nel periodo interessato. L’intento era evidentemente quello di ridurre il rischio di chiusura parziale degli stadi, col subdolo presupposto per il quale il Napoli sarebbe stato ospitato solo una volta l’anno da ciascuna società. I vertici del calcio non fecero bene i loro conti, perché la maleducazione dei tifosi più decisi a vincere il braccio di ferro, iniziò a manifestarsi anche in partite senza i partenopei di scena.
Ne venne fuori una denigrazione sistematica del popolo partenopeo per piegare la FIGC, un odio che nell’immediata vigilia della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina del 3 maggio 2014 a Roma toccò il suo drammatico picco ancora lì, all’esterno dello stadio Olimpico: durante un agguato premeditato a un torpedone dei tifosi napoletani zeppo di famiglie con bambini, il ventinovenne Ciro Esposito fu ferito a morte da un colpo di pistola sparato da Daniele De Santis, un ex militante della curva romanista appartenente ad ambienti di destra estrema, sostenitore di una squadra estranea alla partita da disputare. Non per una folle faida tra ultras, ma per il razzismo di stampo neofascista che aveva fatto della partita un pretesto per colpire Napoli e i napoletani.
Il drammatico accadimento spinse i vertici federali a tirare i remi in barca e dichiarare persa la battaglia di civiltà attorno alla discriminazione dei napoletani. Nell’estate 2014, irruppe sulla scena Carlo Tavecchio, presidente della Lega Nazionale Dilettanti e candidato alla presidenza della Federcalcio con immediata scivolata sulla buccia di banana del razzismo lasciata a terra dal fantomatico Optì Pobà. Nella corsa alla poltrona fu sostenuto da Adriano Galliani, l’uomo a capo della rivolta dei club contro la “discriminazione territoriale”. Nel programma elettorale spuntò la cancellazione delle chiusure dei settori degli stadi per responsabilità oggettiva, da convertire di nuovo in sanzioni pecuniarie. Tavecchio fu eletto presidente e da lì in poi si poté tornare a invocare il Vesuvio e a urlare contro i napoletani a pagamento delle società, a loro volta in silenzio e senza rivalersi sui colpevoli.
Bruciatosi il nuovo presidente federale in tema di lotta al razzismo per la gaffe che gli era costata la sospensione temporanea dall’attività internazionale da parte dell’UEFA prima e della FIFA poi, della finta battaglia alle discriminazioni se ne fece paladino Andrea Agnelli, per il quale la discriminazione territoriale era da considerarsi campanilismo facente parte della cultura italiana, e i cori contro Napoli “nostre peculiarità”. Il presidente della Juventus andò alla sede UNESCO di Parigi per presentare, nel novembre 2015, un’analisi del fenomeno razzista in cui la discriminazione territoriale veniva definita“forma tradizionali di insulto catartico”, cioè purificatorio, addirittura benefico per le folle. E da allora, con il Napoli sempre più stabilmente al vertice della Serie A, il Vesuvio è sempre più invitato a svegliarsi e a seminare distruzione e morte. Ma lui dorme e non da cenni di risveglio. Dorme il Vesuvio e dorme altrettanto profondamente l’Italia.
Per approfondimenti: Dov’è la Vittoria, (Angelo Forgione, Magenes, ed. 2022)
Angelo Forgione–«La Gazzetta dello Sport è sempre stata il giornale di Juve, Inter e Milan ed è sempre stata contro il Napoli… i giornalisti del Nord mi odiano, il Nord odia il Sud dai tempi del Conte di Cavour». Così disse, senza peli sulla lingua, Aurelio De Laurentiis in diretta nazionale qualche tempo fa, scatenando un autentico putiferio.
Nei giorni scorsi, Stefano Barigelli, direttore della Gazzetta, ha onestamente ammesso che il principale quotidiano sportivo nazionale – ripeto, nazionale – risponde principalmente alle tifoserie di Milan, Inter e Juve, che rappresentano il core-business di riferimento, e l’informazione propone soprattutto ciò che è a loro gradito, come, ad esempio, un like dato da Zaniolo a un post di Vlahovic finito in prima pagina, o come il furto della Panda di Spalletti ma non altri reati predatori in altre città. Fino al caso-non-caso Osimhen alla vigilia di una trasferta delicata del Napoli a Bergamo. Nessuna novità, non siamo nati ieri, e però è legittimo il sospetto che De Laurentiis avesse ragione a gridare il suo sfogo.
Eugenia Saporito ha perciò messo in piedi un animatissimo ma garbato dibattito in diretta sull’argomento, ospitando Paolo De Paola, napoletano di nascita, ex vicedirettore della Gazzetta e poi direttore di Tuttosport, anch’esso quotidiano nazionale anche più aderente alla specifica utenza di Juventus e Torino, per un confronto con Maurizio Zaccone e chi scrive, moderato assieme a Umberto Chiariello e sintetizzato nel video per racchiudere in pochi minuti le due ore di talk.
Con un’informazione condizionata non solo nello sport dalle esigenze dei lettori di riferimento e dalle pressioni degli editori, Napoli senza voce combatte una battaglia mediatica ad armi impari contro il Nord, ma, come si capirà ascoltando l’interessantissimo dibattito, senza tacere.
Angelo Forgione–TG2 Dossier del 13 marzo ha proposto una puntata celebrativa del Risorgimento e dell’unità d’Italia, ma a senso unico, in direzione netta dell’esaltazione dell’epopea e dei protagonisti. Lo ha fatto con l’ausilio di testimonial “genealogici”, come li ha definiti il comunicato del Tg2, quali Costanza Ravizza Garibaldi, Giuseppe Garibaldi jr e Francesco Garibaldi Hibbert, discendenti di Giuseppe e Anita Garibaldi; Nicolò San Martino d’Agliè di San Germano, parente ed erede di Camillo Benso di Cavour; Aimone di Savoia-Aosta, discendente di Re Vittorio Emanuele II; Anna Maria Menotti, pronipote del patriota Ciro Menotti; Guido Palamenghi Crispi, discendente di Francesco Crispi; Ernesto Pisacane, pronipote di Carlo Pisacane. Un “dossier” per nulla attendibile, quanto meno di parte. L’idea di dar voce agli eredi lontani in una vicenda storica così complicata non garantisce affatto la qualità delle testimonianze. Cosa potevano mai dire coloro che portano i cognomi dei padri della patria italiana? Che erano invece ladri della patria napolitana? Certo che no. Dunque, scontato sentire riflessioni lontane dalla realtà, una su tutte quella al principio del programma di Francesco Garibaldi Hibbert, per il quale l’antenato Giuseppe “fu un grande uomo perché non aveva interessi personali”, e tanto sarebbe bastato per cambiare immediatamente canale. Non una voce degli sconfitti, quantunque si sia trattato di un lungo processo culminato con una guerra illegittima mossa da italiani del nord a italiani del sud. Almeno questo sarebbe stato opportuno, e chissà se sarà d’accordo il napoletano Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, testata giornalistica della tivù di Stato e di tutti gli italiani. Ascoltati anche alcuni storici in un’insalata mista di temi vari, con il risultato di un approfondimento storico non solo agiografico ma anche poco profondo. La redazione a cura di Adriano Monti Buzzetti ha però avuto il merito di evitare i soliti noti che avrebbero aumentato il tasso di superficialità, a partire dall’onnipresente Alessandro Barbero (vale anche per Emanuele Filiberto di Savoia). Chiusura del “dossier” degna dell’intero “dossier”, con la classica retorica sugli italiani mai nati, costruita sulla manipolazione della frase di Massimo d’Azeglio: “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Frase mai scritta, bensì così posta dall’autore: “purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani”. E precisamente:
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Il primo bisogno d’Italia è che si formino italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’italiani.
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Quella di d’Azeglio non fu affatto un’esortazione alla fratellanza, e figuriamoci; per lui unirsi con i Napolitani era “mettersi a letto con un vaiuoloso”. La sua fu una constatazione, dopo aver capito che gli italiani erano legati al Papa, comunque cattolici, quindi impossibilitati ad alti e forti caratteri, e non sarebbe stato possibile cacciare del tutto il Pontefice per sostituire la dottrina cattolica con la dottrina massonica. La sua. Appunto, nel “dossier” nessun accenno alla vera regia del Risorgimento: la Massoneria.
L’antipasto della tivù di Stato in vista del 160esimo anniversario dall’autoproclamazione di Vittorio Emanuele II quale re d’Italia è ben servito. Appuntamento al 17 marzo con la solita “storia”.
Clicca qui per il podcast di Tg2 Dossier del 13 marzo
Angelo Forgione– Il 13 febbraio 1861, 160 anni fa, Francesco II di Borbone si arrendeva all’esercito di Vittorio Emanuele II di Savoia in quel di Gaeta. Il Sud veniva così conquistato dal Regno di Sardegna. La capitolazione chiuse tre drammatici mesi di assedio alla piazzaforte napoletana, con le truppe del generale Cialdini a cannoneggiare violentemente da Castellone di Mola, la collina dell’attuale Formia. Una guerra mossa con cupidigia e ferocia dai piemontesi e dai lombardi ai Napolitani. Una guerra che solo in quell’ultimo atto, e senza considerare la decennale repressione del brigantaggio che ne seguì, significò più di 3.000 vittime civili gaetani e 846 soldati meridionali caduti, oltre a 46 tra gli aggressori settentrionali. Seguirono massimi onori e promozioni per i militari delle truppe del Regno di Sardegna. 5 medaglie d’oro al valore militare e 2098 d’argento, oltre a 98 onorificenze. Al generale Cialdini, che pure a tre ore dell’imminente firma della resa borbonica, per dimostrare la sua superiorità d’armi, aveva fatto cannoneggiare all’indirizzo dei Napolitani stremati dalle distruzioni e dal tifo petecchiale, Vittorio Emanuele II concesse il titolo di Duca di Gaeta, cioè della città letteralmente raso al suolo.
Tre minuti a La Radiazza (Radio Marte) per descrivere il Maradona napoletano, immediatamente divenuto tale, non appena sbarcato nel paese in cui aveva cercato riparo da una Spagna ostile verso i sudamericani. Lui, giovane argentino catapultato in Europa dalla sua classe, non immaginava che in Italia avrebbe dovuto fare i conti con le stesse pulsioni avvertite in Catalogna. Capì che i napoletani erano il popolo da proteggere. Capì che Napoli era Buenos Aires.
Tutto quello che abbiamo fatto a Napoli lo sappiamo voi ed io. Sappiamo che abbiamo fatto tutto contro tutti e questo non si può cancellare. Io sarò sempre, sempre, Diego il napoletano.
Angelo Forgione – La Top 30 degli afflussi ai musei e ai parchi archeologici statali del 2019 conferma ovviamente il podio del Colosseo, con oltre 7,5 milioni di visitatori, delle Gallerie degli Uffizi, con quasi 4,4 milioni di ingressi, e di Pompei, con circa 4 milioni di presenze. In calo, ma stabili in classifica, sesta e settima, Venaria Reale e la Reggia di Caserta (-14%).
I dati evidenziano una crescita sensibile della Galleria Nazionale delle Marche (+36,8%) e dei musei napoletani. Il Museo di Capodimonte aumenta del 34,2% pur restando ancora ampiamente sotto le sue potenzialità. Significativo incremento anche per Castel Sant’Elmo (+18,7%) e per Palazzo Reale (+11%).
Manca all’appello, perché non statale, quello che è il museo napoletano più visitato, che non è l’Archeologico (al decimo posto) ma, di fatto, la Cappella Sansevero. Lo scrigno del Cristo Velato, in continua crescita, ha totalizzato nel 2019 ben 758.453 accessi, senza domeniche gratuite. Confrontando i numeri con la classifica ufficiale stilata dal ministero dei Beni culturali, si piazzerebbe all’ottavo posto, proprio tra Venaria Reale e la Reggia di Caserta. Una posizione eccelsa, considerando che i numeri dei musei statali contemplano la gratuità degli accessi, che dovrebbe aggirarsi tra il 40 e il 50% del totale.
Insomma, bene il trend per la Campania della cultura e dei tanti tesori e delle potenzialità ancora ampiamente inespresse.
Angelo Forgione – Indici di criminalità elaborati da Il Sole 24 Ore in base ai dati forniti dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e relativi al numero di delitti commessi e denunciati nel 2018. La maglia nera per numero di reati riportati nel corso del 2018 spetta alla provincia di Milano che, con 7.017 denunce ogni 100mila abitanti, mantiene la leadership poco lusinghiera fotografata già nei due anni precedenti. Subito dietro, Rimini e l’incalzante Firenze (in forte crescita), rispettivamente con 6.430 e 6.252 illeciti rilevati. Poi Bologna, Torino, Roma, Prato, Livorno, Imperia, Genova, Savona, Parma, Pisa, Venezia, Ravenna e Modena davanti alla prima città meridionale in classifica, Napoli, al diciassettesimo posto. Non è una novità, così come non è nuova l’analisi applicata: «Nord criminale, ma al Sud si denuncia poco», dicono quelli bravi. Ma sono veramente così bravi?
Che al Sud si denunci di meno lo sostengono i media, e così finisce per pensarla l’opinione pubblica. Lo ha detto persino il Tgr Campania, nell’edizione pomeridiana del 14 ottobre. Titolo: “Nella classifica criminalità del Sole 24 Ore, Napoli diciassettesima ma lo scarso numero di denunce condiziona il dato”. Guardi con attenzione il servizio e comprendi che si tratta di un dubbio (insinuato), non di uno studio del fenomeno:
«La fotografia è stilata tenendo conto delle denunce. È qui il primo nodo: risulta difficile credere che, nella classifica sulla criminalità, Napoli venga dopo Parma o Modena. Al Sud si denuncia molto meno rispetto al Centro-Nord».
Ma nessuna prova di tale teorema, che teorema resta.
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Credere che Napoli venga dopo Parma o Modena risulta difficile perché siamo tutti abituati a credere che Napoli e il Sud siano il regno del crimine. È una visione discriminatoria della cosa non suffragata dai dati e neanche dallo stesso Ministero dell’Interno, che, nel recente Rapporto Criminalità, informa testualmente come il teorema delle mancate denunce al Sud sia falso e retaggio del razzismo positivista del secondo Ottocento, quello dei Lombroso, dei Niceforo e dei propagandisti della borghesia settentrionale che plasmarono l’opinione pubblica anti-meridionale, cioè il pregiudizio settentrionale, nei primi anni dell’Italia unita, e che ancora oggi sono pretesto per discutibili mostre che sbattono in faccia ai visitatori le faccia dei “delinquenti napoletani”.
Leggiamo, dunque, cosa è scritto nel Rapporto Criminalità del Ministero dell’Interno, perché magari l’autorevolezza della fonte, la stessa consultata da Sole 24 Ore, può aiutare a riflettere più profondamente:
Ogni reato ha una sua precisa distribuzione a livello territoriale che è riconducibile a quelle caratteristiche che distinguono i borseggi dagli scippi e dai furti in appartamento. Ad esempio, questi ultimi sono più diffusi al Nord, mentre al Sud si rileva un maggiore numero di scippi.
Questa è un’osservazione importante da tenere a mente perché smentisce l’opinione comune che tutti i reati siano in larga misura più frequenti nel Sud rispetto al Nord Italia. Si tratta di una credenza piuttosto diffusa e duratura nel tempo che si può far risalire alla scuola positivista italiana alla fine del XIX secolo quando venivano attribuiti i più alti tassi di delinquenza – sia violenta che contro la proprietà – al meridione sulla base di aspetti razziali e indicatori socioeconomici delle due aree geografiche. È invece possibile distinguere storicamente tra i reati contro la proprietà effettivamente più frequenti nel Nord e i reati violenti più diffusi al Sud. Nel caso dei furti, furti in appartamento e borseggi avvengono di più al Nord e gli scippi al Sud. Ciò non dipende, come sostengono alcuni, da una diversa propensione a denunciare i reati subiti da parte dei cittadini sulla base di un supposto maggior senso civico di chi vive nelle regioni settentrionali. Le indagini di vittimizzazione hanno infatti mostrato che si denuncia di più quanto più alto è il valore della refurtiva e quando è stata stipulata una relativa assicurazione. I diversi tassi di furti, scippi e borseggi tra Nord e Sud si spiegano meglio sulla base delle opportunità che si presentano sul territorio e in base agli stili di vita e alle attività della popolazione.
Tradotto in soldoni, il Ministero degli Interni avverte che i reati sono più frequenti al Nord perché lì c’è più benessere che al Sud, e questo alletta il crimine. Ciò accadeva anche a fine Ottocento, quando il positivismo plagiava le teste degli italiani, e lo mise nero su bianco il politico Napoleone Colajanni analizzando la delinquenza della città di Napoli in confronto a quella di Milano, dimostrando che, complessivamente, dati del triennio 1896-1898 alla mano, i reati nella città lombarda, allora senza meridionali ed extracomunitari, erano in numero maggiore che in quella campana, nonostante l’eccessiva pressione daziaria del Regno d’Italia dei Savoia cui erano stati sottoposti i napoletani, superiore a quella esercitata sui milanesi, avesse comportato, tra il 1872 e il 1899, sofferenti condizioni di povertà e parassitismo. I dati furono commentati da Francesco Saverio Nitti nella sua pubblicazione Napoli e la questione meridionale del 1903.
Qualche anno fa, anche un’indagine svolta dall’Università Suor Orsola Benincasa, fondazione Polis e centro Res Incorrupta, evidenziò che le denunce nel Meridione erano in linea con i dati europei, smentendo la teoria del Sud più restio del Nord a denunciare. Roba da lombrosiani che ancor ci travolge, e travolge anche le redazioni dei telegiornali locali, che dovrebbero essere invece in prima linea nel riportare, almeno in casa, quel che il Ministero degli Interni e le ricerche accademiche hanno evinto per ripristinare l’equilibrio di giudizio.
Qualcuno provi dunque a sfidare i luoghi comuni e a sostenere che Milano è la città della delinquenza, più di Napoli, e che il Nord è più criminale del Sud, come statistiche e rapporti dimostrano. Perché un conto è la criminalità reale e un altro è la criminalità percepita.
Angelo Forgione – Il 3 ottobre 1839 partiva il primo treno della penisola italiana, da Napoli verso Portici. Quattordici anni prima, nel 1825, il nuovo mezzo di locomozione a vapore aveva fatto la sua comparsa in Inghilterra.
Il giovane re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, salito al trono nel 1830, appassionato di meccanica, si dimostrò incline alle novità che il progresso stava producendo e particolarmente attratto dalle nuove macchine locomotive.
Il 25 febbraio del 1836, accolse la richiesta dell’ingegnere francese Armand Joseph Bayard de la Vingtrie per la concessione di una strada ferrata da Napoli a Nocera, verso Salerno. Due anni dopo, il 27 marzo 1838, l’ingegnere Bayard presentò al governo la proposta tecnica ed economica per la tratta da Napoli a Torre del Greco, caratterizzata da alcune opere assai ardite, tra cui un ponte a sei arcate da 7,90 metri in uscita da Torre del Greco e un viadotto a 59 arcate che correva al di sopra della spiaggia di Torre Annunziata e che costituiva il manufatto più spettacolare della linea. Il progetto di Bayard comprendeva anche il tratto verso Nocera dove, all’ambiente marino, si sostituiva la fertile campagna dominata dalla sagoma del Vesuvio. Qui, nei pressi delle rovine romane da poco riscoperte, si trovava la stazione di Pompei. Da qui, la strada ferrata, con un tragitto pianeggiante, attraversava il fiume Sarno presso Scafati, entrando prima in Angri e poi a Pagani per affrontare l’ultimo tratto e raggiungere la stazione di Nocera. La linea comprendeva anche una diramazione per Castellamare che partiva alla fine del viadotto di Torre Annunziata attraversando terreni incolti e valicando il fiume Sarno con un ponte a tre archi di 5,50 metri di luce. I lavori iniziarono ad agosto, e quattordici mesi dopo, il 3 ottobre 1839, fu inaugurato solennemente il primo tratto del percorso, dalla strada dei Fossi di Napoli (oggi corso Garibaldi) al Granatello di Portici. Fu un giorno festoso e di grande orgoglio per la Capitale e per i suoi territori.
Alla prima linea ferroviaria della Penisola seguì, dieci mesi più tardi, la seconda, la Milano-Monza, concessa in appalto a un costruttore austriaco e progettata con tecnologia identica a quella della strada ferrata vesuviana.
Qualcuno ancora oggi racconta che quel treno era un giocattolo del Re, ma la realtà era ben diversa. Il Re inserì la prima strada ferrata in un più ampio progetto che prevedeva la realizzazione di due assi costieri, uno sul Tirreno e uno sull’Adriatico, da congiungere con linee interne, e tre linee in Sicilia. Tutto partiva da Napoli, collegata a Caserta tra il 1840 e il 1843, e poi a Capua due anni dopo, con finanziamento statale.
Lo sviluppo della rete ferroviaria procedette senza particolari ansie, rispettando un programma di risanamento del bilancio statale, gravato dal cosiddetto “debito galleggiante”, il persistente debito contratto con l’Austria e le sue truppe per tenere il trono di Napoli al riparo da ulteriori ribaltamenti dopo il Congresso di Vienna del 1815. Il Regno di Napoli, contando sulle già sviluppate vie del mare e sulla sua importante flotta, aveva già come spostare le merci. Lo sviluppo della rete ferroviaria poté procedere senza particolari ansie, rispettando un programma di risanamento del bilancio statale, gravato dal cosiddetto “debito galleggiante”, il persistente debito contratto con l’Austria e le sue truppe per tenere il trono di Napoli al riparo da ulteriori ribaltamenti dopo il Congresso di Vienna del 1815.
Il Borbone, convinto che il suo trono fosse esclusivamente quello del Sud, non pensò a diventare il Re d’Italia ma a sanare le finanze del suo regno e ad emanciparlo dalle dipendenze straniere, affrancandosi dalla smodata competizione liberista appena abbracciata dei paesi europei e dal perverso indebitamento progressivo presso le banche private che alimentava gli affari dei grandi finanziatori (Rothschild); e intraprese un programma di sviluppo autonomo del tutto svincolato dalla nuova finanza internazionale, che garantì una spesa verificata necessaria a ridurre la crisi del debito. Per dare avvio alla produzione siderurgica interna, estese la produzione di motori a vapore per le navi nel nuovo Real opificio di Pietrarsa, presso Portici, a rotaie, carri-merci e locomotive, tutto made in Naples. Tutto in sinergia con le Reali ferriere di Mongiana, in Calabria, dalle quali uscirono i primi ponti sospesi in ferro d’Italia e le rotaie per le prime tratte ferroviarie. I prodotti erano di qualità eccellente, e nulla avevano da invidiare a quelli francesi e inglesi.
Nel 1860-61 circolavano nella Penisola 75 locomotive made in Italy, di cui 60 erano costruite nelle Due Sicilie. Quattro a uno il rapporto produttivo del treno che alcuni Stati stranieri e lo stesso Piemonte acquistarono dal Regno delle Due Sicilie.
Il risanato Stato napoletano si presentò all’appuntamento con l’Unità del 1861 con il debito pubblico più esiguo d’Europa. Il Regno di Sardegna, al contrario, fortemente indebitato con i banchieri europei anche per l’accelerato sviluppo della propria rete ferroviaria che sopperiva all’assenza di rotte marittime interne, ebbe necessità di invadere il Sud e incamerarne le buone finanze. E allora il piano di sviluppo ferroviario borbonico fu cancellato in corsa e fra i primi provvedimenti del parlamento di Torino vi fu la sospensione dei lavori della ferrovia Tirreno-Adriatica tra Napoli e Brindisi, iniziata nel 1855. Eppure, le gallerie e i ponti erano già stati realizzati, ma a nulla valsero le proteste degli ingegneri convenzionati. Le “Ferrovie Meridionali” furono poi cedute a una compagnia finanziaria privata del banchiere livornese Pietro Bastogi, amico di Cavour e ministro delle Finanze, il quale le subappaltò clandestinamente a un’altra società, ripartendo il capitale tra banche di Milano, Torino e la sua Livorno, per una speculazione sulla costruzione della rete ferroviaria al Sud che coinvolse diversi governi del Regno d’Italia e aprì uno scandalo per il quale Bastogi fu costretto a dimettersi, ma fu “premiato” col titolo di conte da Vittorio Emanuele II. Mentre Pietrarsa e Mongiana venivano cedute a speculatori privati per essere poi smantellate, le Ferrovie Meridionali restarono al palo e quelle settentrionali si svilupparono intensamente con la regia di un’altra guida delle banche del Nord, un altro amico di Cavour, quel Carlo Bombrini che, da comproprietario dell’Ansaldo, coordinò le banche di Torino e Genova nel finanziamento delle imprese settentrionali.
Nacque una narrazione di Napoli e del Mezzogiorno lontana dalla realtà, calunniosa e ingigantita nei problemi che pure affliggevano il Sud pur di convalidarne l’invasione. L’arretratezza meridionale, che equivaleva all’arretratezza settentrionale, fu tradotta in immobilismo, massimo esempio del quale fu resa la sproporzione di estensione delle reti ferroviarie delle due Italie, al netto dei collegamenti marittimi. Falsità smentite dal presidente della Fondazione FS Mauro Moretti, non certo un meridionale e meridionalista, nel suo discorso al pubblico di inaugurazione del Museo nazionale di Pietrarsa del 31 marzo 2017:
«Ferdinando II fu un sovrano illuminato e lungimirante, che volle emancipare le Due Sicilie dalla dipendenza inglese e fece di Pietrarsa la Silicon Valley della tecnologia dell’epoca. I lavoratori di Pietrarsa, consapevoli del patrimonio industriale qui installato e della relativa superiorità tecnologica raggiunta, lottarono contro la delocalizzazione delle attività a vantaggio dell’industria del nord voluta dai sabaudi, fino alla carica dei bersaglieri che causò numerosi morti e feriti gravi».
Distante dai canoni narrativi della storia risorgimentale. Una diversa e più corretta lettura del Re che industrializzò il Regno delle Due Sicilie prima dell’invasione piemontese.
per approfondimenti: Made in Naples e Napoli Capitale Morale
Angelo Forgione – Non bastava a Torino il Museo di Antropologia criminale ‘Cesare Lombroso’, nel Palazzo degli Istituti Anatomici. Ora anche la mostra fotografica “I 1000 volti di Lombroso” al Museo del Cinema. Fino al 6 gennaio, sarà possibile osservare i volti meridionali collezionati dal criminologo veronese, utili a dimostrare, o meglio, a inchiodare la gente del Sud appena annessa al nuovo Regno d’Italia dei Savoia a una presunta predisposizione alla delinquenza, delineandone un truce profilo, espressione di sottocultura e di una razza ritenuta inferiore, nella duplice ottica dell’ereditarietà e dell’atavismo della tendenza a delinquere.
Non fatevi ingannare dalla dicitura “Delinquenti napoletani” di certi pannelli espositivi, ché non indica la gente della città di Napoli ma tutti i meridionali. Era infatti “napolitana” la nazionalità degli abitanti delle Due Sicilie, ma a certa borghesia la corretta distinzione tra napoletani e napolitani faceva difetto, anche dopo l’Unità. Anzi, per Lombroso la gente di Napoli non era il peggio che vi fosse. Quello equivaleva a calabresi, siciliani e sardi, visto che nel 1876, nella sua principale opera, ‘L’uomo delinquente’, scrisse:
“È agli elementi africani e orientali (meno i greci), che l’Italia deve, fondamentalmente, la maggior frequenza di omicidii in Calabria, Sicilia e Sardegna, mentre la minima è dove predominarono stirpi nordiche (Lombardia).”
È chiaro che chi non conosce certi risvolti legge “Delinquenti napoletani” e pensa esclusivamente alle genti vesuviane, che continuano a pagare pesantemente i conti sbagliati della storia.
Ma Lombroso fu solo il primo teorizzatore dell’inferiorità razziale dei meridionali, ispiratore dell’opera dell’antropologia positivista del secondo Ottocento cui si accodarono altri benpensanti della criminologia. A cominciare dal lombardo di sinistra Enrico Ferri, teorizzatore del “tipo napoletano”, cioè meridionale, secondo cui i popoli del Sud erano propensi a delinquere per atavica inferiorità biologica e non dovevano mescolarsi alle razze del Nord d’influenza celtica.
E se pensate che erano solo i settentrionali a marchiare i meridionali è perché forse non conoscete il criminologo siciliano Alfredo Niceforo, che ricalcò la teoria della distinzione etnica in Italia e la configurò in due diverse razze: l’euroasiatica ariana al Nord e l’euroafricana negroide al Sud e nelle isole. Onesti, presentabili, laboriosi e cooperativi quelli appartenenti alla prima; truffatori, sudici, oziosi e individualisti gli altri.
Nel saggio ‘L’Italia barbara contemporanea’ del 1898, Niceforo coniò per la seconda categoria l’espressione “razza maledetta”, condannando con asprezza i meridionali a un cronico sottosviluppo e a uno stadio primitivo di evoluzione psichica, tali da meritarsi di essere trattati “col ferro e col fuoco”. All’innata brutalità di siciliani e sardi, gli isolani, accostò il congenito servilismo dei napoletani, cioè quelli del Sud peninsulare, descritti come individui senza alcuna personalità:
“I segni dell’inferiorità e dello stato ancor primitivo che affettano la psiche del popolo napoletano si palesano con mille altre manifestazioni della sua vita sociale e in specie col servilismo. Nessuna plebe è così servile come quella delle provincie napoletane (Sud peninsulare) […]. L’uomo servile è un individuo senza personalità e le società servili sono società in cui il carattere non esiste […].”
Il fatto è che Niceforo era egli stesso siciliano, e quindi apparteneva alla “razza maledetta”, così come Lombroso era afflitto da “cretinismo perpetuo”. Lo refertarono i medici che gli fecero l’autopsia dopo la sua morte, smentendo indirettamente le teorie razziste di cui era stato artefice e che avevano configurato un rapporto tra Nord e Sud simile a quello che le potenze coloniali riservavano ai popoli conquistati, costruendo l’inferiorità razziale del meridionale per legittimare il dominio settentrionale. Avrebbe completato l’opera di demolizione della scienza lombrosiana la storia stessa d’Italia, tra delitti di serial killer, mitomani, “mostri” e truffatori d’alta finanza del Settentrione.
Eppure i lombrosiani sono ancora tra noi. Uno professa le sue teorie razziste sui meridionali d’Italia dalle lontane sponde britanniche. Si chiama Richard Lynn, professore di psicologia all’University of Ulster, in Irlanda del Nord, secondo il quale i meridionali sarebbero meno intelligenti dei settentrionali, e da questo deriverebbe la differenza di reddito tra le due Italie, mica dalle cause politiche della “Questione meridionale” e dal colonialismo interno avviato col Risorgimento. Nel 2010, se ne venne fuori con una ricerca secondo la quale la causa dell’inferiorità intellettiva della gente del Sud Italia «è da attribuire alla mescolanza genetica con popolazioni del Medio Oriente e del nord Africa». Esattamente quello che Lombroso aveva scritto ne ‘L’uomo delinquente’.
Questa fu l’ideologia diffusa in modo scientifico dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione, e ancora oggi a Torino si inaugurano musei e mostre che la perpetuano subdolamente nel tempo. Perché quella città, persa la Fiat e la sua propulsione industriale, si è convertita al turismo, e certe esposizioni non guardano di certo in faccia all’etica ma badano esclusivamente alla cosiddetta “cassetta”.
E voi volete che cambi qualcosa in questo Paese razzista e sempre uguale a se stesso?