Il primato dei vini delle Due Sicilie

Angelo Forgione Nel dicembre 1858 Rivista contemporanea pubblicò la tabella degli ettolitri di vino prodotti ed esportati dagli stati preunitari stilata dal prestigioso statistico milanese Pietro Maestri, che nel 1861 avrebbe coordinato il primo censimento del Regno d’Italia. Alla vigilia dell’Unità d’Italia risultavano 7,150,000 ettolitri prodotti nel Regno delle Due Sicilie, di cui 5,200,000 nelle province peninsulari e 1,950,000 in Sicilia, per un valore economico superiore anche a quello del maggior produttore di quel momento, lo Stato Pontificio, comprendente le tante vigne laziali, umbre, marchigiane, emiliane e romagnole.

Alcuni vini siciliani, calabresi e campani, particolarmente quelli di Napoli e di Terra di Lavoro, erano considerati tra i migliori dell’intera Penisola, come si evince dal valore in franchi. Tra i più famosi figuravano il Lacryma Christi, i vini di Capri e Ischia e il Marsala di Sicilia.
In Piemonte, la principale produzione vinicola era stata fino a un decennio prima quella del liquoroso Vermouth. Il Barolo era nato da qualche anno mentre il Chianti di Toscana neanche esisteva.
Gli stati che esportavano qualcosa in più delle Due Sicilie, in realtà, non portavano significative quantità in altri stati europei ma avevano come sbocco gli altri territori italiani, dacché a quel tempo le quantità prodotte in Italia non superavano la domanda e il consumo interno. Difatti, Pietro Maestri chiariva: “gli ettolitri 652,462 […] recati da noi nella bilancia del commercio di esportazione, debbono essere considerati piuttosto come un articolo richiesto e smerciato tra le stesse provincie italiane, che come un oggetto di cambio internazionale”. E infatti il prodotto di Sardegna andava in buona parte ai genovesi, mentre i vini piemontesi, quelli veneti e gli emiliani erano esportati soprattutto in Lombardia, che non produceva a sufficienza per il suo fabbisogno, così come la Toscana, che si approvvigionava dalle Marche e dall’Umbria. Nei più ampi territori del Regno di Napoli, portare un vino calabrese negli Abruzzi non era esportazione.

Il primato dei vini campani e siciliani era dovuto a una vivacità testimoniata dalla nascita a Napoli, nel 1833, della Compagnia Enologica Industriale, la primissima azienda enologica d’Italia, istituita privatamente con sovrana approvazione borbonica per il miglioramento della vinificazione dell’intero Regno e per favorire il commercio interno e l’esportazione, così da emancipare le Due Sicilie dalla passività straniera.I giornali italiani e stranieri, compresi quelli dei maestri di Francia, ne annunciarono i cimenti e ne riportarono i grandi successi ottenuti in poco tempo. Alcuni vini delle Due Sicilie riuscirono a fare una minima concorrenza a quelli francesi, e furono i primi d’Italia a riuscirvi.
Dopo cinque anni, nel 1838, l’esperienza napoletana fu replicata a Milano con la costituzione della Società Enologica Lombardo-Veneta. Nell’introduzione all’atto costitutivo si leggeva:
“[…] a’ premurosi inviti di molti distinti proprietari e industriali di fondare una Ditta enologica sulle basi della Compagnia delle Due Sicilie […], ove l’industria vinaria ha fatto tali progressi, di aver potuto emancipare quel regno dalla passività estera, e metterlo in grado di far concorrenza colla Francia nella esportazione”.

Dopo l’Unità, le vicende del settore vitivinicolo nazionale seguirono quelle più generali dell’agricoltura italiana, con le aree economicamente avvantaggiate del Nord investite da importanti trasformazioni tecniche e organizzative, tradotte nella creazione di un divario tra aree avanzate verso una viticoltura moderna e altre rimaste indietro. Le attività enologiche di Camillo Benso di Cavour in Piemonte e di Bettino Ricasoli in Toscana furono fondamentali per la crescita dei vini delle due regioni, che iniziarono a farsi onore insieme a quelli della Campania, in particolar modo della provincia di Napoli, e della Sicilia all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 e a quella di Vienna del 1873.
Da contraltare allo sviluppo industriale dell’enologia piemontese e toscana della seconda metà dell’Ottocento fecero gli effetti della repressione del brigantaggio al Sud, per la quale nel primo decennio del Regno d’Italia risultavano interdette e saccheggiate le case coloniche di campagna ritenute possibili rifugi per i ricercati, con incarcerazioni e processi sommari a danno dei proprietari. E poi la requisizione dei siti reali e delle antiche proprietà borboniche, polmoni di uve importanti lasciate all’abbandono.

Pur nella decadenza sociale e politica del Mezzogiorno, la sola Campania, tra le prime regioni produttrici, significava ancora un decimo abbondante del vino italiano prima della Grande guerra del ’15-’18. I meridionali, tagliati fuori dallo sviluppo industriale e relegati all’agricoltura, svuotarono ancor più massivamente le campagne per il reclutamento militare al fronte con lo scoppio del conflitto bellico.
Pure alla vigilia della Seconda guerra mondiale la Campania eccelleva per quantità media complessiva prodotta, insieme a Puglia, Sicilia, Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna. La provincia di Napoli, allargata fino al Garigliano per riforma fascista, risultò addirittura in testa alla produzione vinicola nell’annata 1938.Dopo il conflitto mondiale, durante il ventennio Cinquanta-Sessanta, l’abbandono delle terre coltivate al Sud proseguì con l’ingrossamento dei flussi migratori dei meridionali in direzioni delle ricostruite industrie del Nord. Le regioni meridionali si ridussero alla fornitura di vino da taglio da destinare al Nord per irrobustire alcuni vini settentrionali e la Campania andò via via scivolando fuori dall’élite produttiva.

Solo nell’ultimo decennio del Novecento una nuova politica di valorizzazione del vino italiano ridestò la sete delle tantissime uve autoctone regionali e prese corpo anche la tardiva valorizzazione dei vitigni meridionali.
Oggi gli italiani bevono meno rispetto al secolo scorso, ma bevono assai meglio e con consapevolezza, orientandosi sempre più verso la qualità dei vini autoctoni. Piemonte, Veneto e Toscana sono in assoluto le regioni con più incidenza di denominazioni di origine controllata e garantita, le DOCG, ma un significativo progresso qualitativo ha interessato la lavorazione dei vini del Meridione, riducendo la supremazia di quelli nordici. I vini ottenuti dai vitigni autoctoni di Sicilia, Puglia, Campania, Calabria, Basilicata, Abruzzo, Lazio e Sardegna hanno guadagnato gradimento all’estero, certificato dalla crescente esportazione delle bottiglie del Sud Italia.
Quanto narrato è solo un compendio assai sintetico di uno dei capitoli del mio prossimo libro, ricco di documenti e ricostruzioni storiche relative a diverse eccellenze. Relativamente a quella vitivinicola, le aree produttive del Sud e del Centro pagano ancora una certa percezione di inferiorità, un pregiudizio e un ostracismo di radice commerciale esercitato da alcuni produttori settentrionali, come denunciato dal produttore siciliano Lucio Tasca d’Almerita, ospite nel febbraio del 2018 della rubrica Tg2diVino della Rai.

Napoli capitale in Piemonte

Angelo Forgione Non sono certo una novità le parole anti-risorgimentali di Aurelio De Laurentiis pronunciate al Passepartout Festival 2021 di Asti, anzi, e sarebbe banale sottolinearle ancora se non fosse che certe chiacchiere, stavolta, sono state fatte ad Asti, davanti ad una platea piemontese.
Beppe Rovera, redattore cuneese della Rai TgR Piemonte, ha snocciolato le parole del filosofo e politico milanese Giuseppe Ferrari, grande conoscitore della cultura umanistica di Napoli, di cui ho scritto in Napoli Capitale Morale. Parole pronunciate in una seduta del parlamento del Regno di Sardegna l’8 ottobre 1860, due settimane prima della falsa consultazione plebiscitaria per l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, durante la quale il deputato lombardo si espresse contro la colonizzazione della città più importante e popolosa d’Italia, rimproverando Cavour di perseguire un piano opportunistico e per niente democratico.
Il milanese Giuseppe Ferrari, da solo, denunciava gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi e si batteva politicamente per Napoli, città in cui lui era stato con gran curiosità. Non c’erano mai stati i torinesi Cavour e Massimo D’Azeglio, quest’ultimo governatore della provincia di Milano, che nove giorni dopo quella discussione parlamentare scrisse: “la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”.

Napoli Capitale Morale si apre appunto con un passaggio dell’intervento di Giuseppe Ferrari, filosofo e deputato milanese, al Parlamento di Torino durante la discussione sull’annessione delle province meridionali al Piemonte, a due settimane dai plebisciti dell’ottobre 1860:

“Ho visto una città colossale, ricca, potente […]. Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nel agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle Nazioni.”

Ferrari, estraneo a consorterie e a gruppi politici, di ritorno in Italia dopo un ventennio trascorso in Francia, sosteneva una confederazione degli stati italiani ed era contrario all’annessione al Piemonte delle province meridionali. L’unico parlamentare che vedeva l’Italia unita alla maniera giusta. Un idealista destinato ad essere isolato. Un milanese che studiò la cultura di Napoli, e visitò la città, cosa che non fece mai Cavour, e che Vittorio Emanuele II fece solo per andarsela a prendere. Ecco alcuni passaggi interessanti del lungo discorso del milanese.

“[…] Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che sia data a voi, che si dia a Torino. Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico lo vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalle volontà individuali, il vostro principio conduce alla confisca immediata e incondizionata della più grande delle città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di Napoli. (Mormorio)
[…]
La dedizione incondizionata (di Napoli) significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi tutte le leggi piemontesi…
(mormorio prolungato)
[…]
La parola incondizionata implica che il regno napoletano si troverà in balia di un Re o di un Senato piemontesi.
[…]
Le leggi delle Due Sicilie sono ottime, paragonate con quelle delle altre nazioni incivilite; esse sono da preferirsi a tutte; in una parola i codici francesi sono vigenti nella bassa Italia, e voi volete che Napoli si sottometta incondizionatamente e subito ad occhi chiusi a un regno i cui codici sono nel dubbio della discussione, le cui finanze ondeggiano nell’urto delle autonomie, e il cui ordinamento geografico è un mistero per i membri stessi del Gabinetto piemontese?
[…]
Del resto, voi lo sapete meglio di me, non ispetterebbe a me il dirlo, le Due Sicilie sono regolate col miglior governo che si possa in quest’istante immaginare.
(Ilarità)
[…]
Or bene, s’io avessi l’onore d’essere nato nella patria di Vico, e se l’alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci
. (Segni di disapprovazione)
E diffatti, giacché la storia non volle che l’Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo giungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra
(Rumore); […]”

Giuseppe Ferrari rimase una voce radicale isolata a denunciare gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi. Continuò solitario ad avversare le profonde sperequazioni sociali all’interno dell’Italia unitaria, accusando l’annessione incondizionata per l’alimentata piaga del brigantaggio.

L’obelisco della rinascita del Mezzogiorno

Angelo Forgione Il 25 maggio 1734 veniva combattuta la battaglia di Bitonto, cittadina pugliese in cui svetta da quasi tre secoli un obelisco di Giovanni Antonio Medrano, architetto tra l’altro della Reggia di Capodimonte. Il monumento celebra la vittoria dell’esercito di Carlo di Borbone sulle truppe austriache con cui il Vicereame viennese di Napoli tornò ad essere Regno indipendente e poté incamminarsi in un clima di rinascita e rinnovamento di respiro internazionale.
Senza quella vittoria non ci sarebbe stato il grande Settecento napoletano. Non ci sarebbe stato il Real teatro di San Carlo, non gli scavi di Ercolano, Pompei e via discorrendo, non la Collezione Farnese, non la Reggia di Caserta e gli altri palazzi reali, non l’arte presepiale. E forse neanche il pomodoro lungo, il re delle nostre tavole, esisterebbe al Sud, visto che l’interessante storia del frutto rosso dalla forma oblunga parte proprio dalla battaglia di Bitonto, ed è ampiamente documentata nel mio Il Re di Napoli. Non ci sarebbero state tante eccellenze napoletane ma anche meridionali, e il Sud non avrebbe conosciuto la rinascita culturale che lo condusse nel mondo moderno. Il giovane e brillante economista abruzzese Ferdinando Galiani, a metà del secolo, immortalò con la scrittura l’energia del rinascente territorio meridionale:

“Sono dolente e afflitto che mentre i Regni di #Napoli e di #Sicilia stanno risorgendo nuovamente, il resto d’Italia va scomparendo giorno per giorno e declina visibilmente”

Una risorgenza di cui il Mezzogiorno necessiterebbe tanto, oggi.

A Tg2 Dossier l’apologia del Risorgimento

Angelo Forgione TG2 Dossier del 13 marzo ha proposto una puntata celebrativa del Risorgimento e dell’unità d’Italia, ma a senso unico, in direzione netta dell’esaltazione dell’epopea e dei protagonisti. Lo ha fatto con l’ausilio di testimonial “genealogici”, come li ha definiti il comunicato del Tg2, quali Costanza Ravizza Garibaldi, Giuseppe Garibaldi jr e Francesco Garibaldi Hibbert, discendenti di Giuseppe e Anita Garibaldi; Nicolò San Martino d’Agliè di San Germano, parente ed erede di Camillo Benso di Cavour; Aimone di Savoia-Aosta, discendente di Re Vittorio Emanuele II; Anna Maria Menotti, pronipote del patriota Ciro Menotti; Guido Palamenghi Crispi, discendente di Francesco Crispi; Ernesto Pisacane, pronipote di Carlo Pisacane.
Un “dossier” per nulla attendibile, quanto meno di parte. L’idea di dar voce agli eredi lontani in una vicenda storica così complicata non garantisce affatto la qualità delle testimonianze. Cosa potevano mai dire coloro che portano i cognomi dei padri della patria italiana? Che erano invece ladri della patria napolitana? Certo che no. Dunque, scontato sentire riflessioni lontane dalla realtà, una su tutte quella al principio del programma di Francesco Garibaldi Hibbert, per il quale l’antenato Giuseppe “fu un grande uomo perché non aveva interessi personali”, e tanto sarebbe bastato per cambiare immediatamente canale.
Non una voce degli sconfitti, quantunque si sia trattato di un lungo processo culminato con una guerra illegittima mossa da italiani del nord a italiani del sud. Almeno questo sarebbe stato opportuno, e chissà se sarà d’accordo il napoletano Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, testata giornalistica della tivù di Stato e di tutti gli italiani.
Ascoltati anche alcuni storici in un’insalata mista di temi vari, con il risultato di un approfondimento storico non solo agiografico ma anche poco profondo. La redazione a cura di Adriano Monti Buzzetti ha però avuto il merito di evitare i soliti noti che avrebbero aumentato il tasso di superficialità, a partire dall’onnipresente Alessandro Barbero (vale anche per Emanuele Filiberto di Savoia).
Chiusura del “dossier” degna dell’intero “dossier”, con la classica retorica sugli italiani mai nati, costruita sulla manipolazione della frase di Massimo d’Azeglio: “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Frase mai scritta, bensì così posta dall’autore: “purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani”. E precisamente:

Il primo bisogno d’Italia è che si formino italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’italiani.

Quella di d’Azeglio non fu affatto un’esortazione alla fratellanza, e figuriamoci; per lui unirsi con i Napolitani era “mettersi a letto con un vaiuoloso”. La sua fu una constatazione, dopo aver capito che gli italiani erano legati al Papa, comunque cattolici, quindi impossibilitati ad alti e forti caratteri, e non sarebbe stato possibile cacciare del tutto il Pontefice per sostituire la dottrina cattolica con la dottrina massonica. La sua. Appunto, nel “dossier” nessun accenno alla vera regia del Risorgimento: la Massoneria.

L’antipasto della tivù di Stato in vista del 160esimo anniversario dall’autoproclamazione di Vittorio Emanuele II quale re d’Italia è ben servito. Appuntamento al 17 marzo con la solita “storia”.

Clicca qui per il podcast di Tg2 Dossier del 13 marzo

160 anni fa il Piemonte conquistava il Sud

Angelo Forgione Il 13 febbraio 1861, 160 anni fa, Francesco II di Borbone si arrendeva all’esercito di Vittorio Emanuele II di Savoia in quel di Gaeta. Il Sud veniva così conquistato dal Regno di Sardegna.
La capitolazione chiuse tre drammatici mesi di assedio alla piazzaforte napoletana, con le truppe del generale Cialdini a cannoneggiare violentemente da Castellone di Mola, la collina dell’attuale Formia.
Una guerra mossa con cupidigia e ferocia dai piemontesi e dai lombardi ai Napolitani. Una guerra che solo in quell’ultimo atto, e senza considerare la decennale repressione del brigantaggio che ne seguì, significò più di 3.000 vittime civili gaetani e 846 soldati meridionali caduti, oltre a 46 tra gli aggressori settentrionali.
Seguirono massimi onori e promozioni per i militari delle truppe del Regno di Sardegna. 5 medaglie d’oro al valore militare e 2098 d’argento, oltre a 98 onorificenze. Al generale Cialdini, che pure a tre ore dell’imminente firma della resa borbonica, per dimostrare la sua superiorità d’armi, aveva fatto cannoneggiare all’indirizzo dei Napolitani stremati dalle distruzioni e dal tifo petecchiale, Vittorio Emanuele II concesse il titolo di Duca di Gaeta, cioè della città letteralmente raso al suolo.

A 160 anni dagli eventi, l’Europa assegna all’Italia la quota maggiore del Recovery Fund perché c’è da ridurre un divario tra Nord e Sud, nato nel 1861, e il nuovo capo del Governo affida due ministeri tra i più strategici (sviluppo economico e turismo) a due uomini della Lega Nord.

Per non dimenticare come è stata fatta l’Italia senza italiani.

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Bombardamenti su Gaeta – Pasquale De Luca

Gaffe della RAI sulla storia d’Italia

Angelo Forgione – Un po’ di relax natalizio davanti la tivù e al quiz L’Eredità spunta la domanda di storia d’Italia: “Nel 1869, con quale frase Cavour avvertì l’ambasciatore piemontese che Garibaldi era entrato a Napoli?”

Salto dal sofà. Doppia gaffe in un sol colpo!

La prima, grave… Nel 1869? La spedizione dei Mille di Garibaldi collocata ben otto anni dopo l’unità d’Italia? L’invasione del Regno delle Due Sicilie prima della proclamazione del Regno d’Italia? E Cavour ancora in vita nel 1869, allorché era già defunto, anch’egli come il Regno delle Due Sicilie, da otto anni?

La seconda… Cavour non scrisse a un non meglio identificato “ambasciatore piemontese” ma a Costantino Nigra, che non era ambasciatore ufficiale ma, da buon massone anch’egli, un inviato in missione segretissima a Parigi per condurre l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II contro gli austriaci, trama rivelata dalla lettura dei riservati carteggi tra gli stessi Cavour e Nigra. In Francia, l’inviato era in veste ufficiale di “ministro residente” e solo dopo il 1861 fu nominato ufficialmente ambasciatore italiano (non piemontese) a Parigi.

Dunque, gli autori del quiz della rete ammiraglia della Rai inciampano sulla storia d’Italia, e pure il conduttore Flavio Insinna non corregge l’anno della clamorosa doppia gaffe. Ma questi lo salviamo per l’ironia mostrata aggiungendo innocentemente «buon appetito, li mangeremo (i Napolitani)», perché proprio queste erano le intenzioni per nulla pacifiche di Cavour e la sua “intelligence”. Il 26 giugno 1860, infatti, dopo la conquista di Palermo, Cavour scrisse a Nigra: “I maccheroni non sono ancora cotti, ma le arance sono già sulla nostra tavola e noi siamo ben decisi a mangiarle”. Lo statista piemontese parlava bellicosamente di arance e maccheroni per riferirsi metaforicamente alla Sicilia, già presa da Garibaldi e i suoi, e al regno peninsulare di Napoli, ancora da prendere. Dopo che la capitale delle Due Sicilie fu presa, in data 7 settembre, l’avviso a Nigra fu: “I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo”. E ancor si mangia… a Mezzogiorno.

Beato Franceschiello

Angelo Forgione E se Vittorio Emanuele II detiene il record di scomuniche, ben tre (1855, 1860 e 1870) ricevute da Pio IX, di cui l’ultima estesa ai suoi successori e ritirata in punto di morte semplicemente perché il primo sovrano d’Italia, uno stato comunque cattolico, non poteva e non doveva morire senza sacramenti, il cugino Francesco II di Borbone, ultimo Re delle Due Sicilie, è in procinto di essere beatificato. L’ annuncio è stato dato dal Cardinale uscente di Napoli Crescenzio Sepe nella sessione pubblica del Tribunale diocesano per le Cause dei Santi.
Il Signor Fabiani, come si fece chiamare durante il suo esilio per non rivelare che fosse il deposto Re di Napoli, fu uomo di profonda carità e amore verso il suo popolo. Quantunque la durata del suo trono fu breve, fece costruire e ampliare ospedali, si preoccupò dell’assistenza dei poveri e si adoperò per le opere caritative ed educative della Chiesa. Morì lontano dalla sua Napoli, ad Arco di Trento, in povertà, perché anche i beni privati di famiglia gli furono requisiti da garibaldini e piemontesi al momento della conquista del Sud, ma con gran decoro e altissima dignità.Nel suo testamento scrisse: “Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”.

Napoli, il regno dei vaccini nell’Europa no-vax

Angelo Forgione Se oggi è il SARS-CoV-2, causa del Covid-19, a mettere in ginocchio il mondo, nel Settecento il flagello endemico era il variola, causa del vaiolo, la malattia infettiva più diffusa e più grave nell’Europa di quel tempo. Spaventava tutti, dacché colpiva giovani e bambini, e una persona malata su sei moriva, mentre chi non lo contraeva in forma maligna e letale facilmente restava cieco o deforme. Alla metà del secolo si contavano 60 milioni di morti, soprattutto bambini, e solo negli stati italiani ne risultavano colpiti sei giovani su dieci.

Anche Filippo di Borbone, primogenito di Carlo III di Spagna, morì a 30 anni, nel settembre del 1777, affetto dalla malattia. Il fratello Ferdinando, re di Napoli e Sicilia, scosso dal lutto, seguì l’esempio della suocera Maria Teresa d’Asburgo, illuminata imperatrice che, nel 1768, aveva fatto introdurre a sue spese, provandola innanzitutto su stessa e poi sui figli, l’immunizzazione attraverso la “variolizzazione”, un metodo di prevenzione sperimentato in terra ottomana mediante inoculazione di materiale pustoloso prelevato da lesioni vaiolose o dalle croste di pazienti non gravi e in via di guarigione. La pratica era ostacolata dalla superstizione di certi ambienti religiosi, per i quali infettarsi da persona sana significava andare contro la volontà di Dio, ed era anche di difficile accettazione visto che non era immune da rischi: le persone inoculate, oltre a divenire veicolo di contagio, potevano contrarre la malattia in forma grave e morire. Tra i primissimi a validare l’inoculazione era stato il medico pugliese Domenico Cotugno, che a Napoli, nel 1769, aveva pubblicato il De sedibus variolarum syntagma, in cui aveva sostenuto l’ancora delicata pratica.
Ferdinando, con grandissimo coraggio e sfidando le paure diffuse, incaricò il medico pisano Angelo Maria Gatti, esperto della pratica, di “variolizzazarlo”, suscitando da Madrid la contrarietà di suo padre, il cattolicissimo Carlo III. Cattolico era pure Ferdinando, ma aveva sposato una figlia di Maria Teresa d’Asburgo, la giovane Maria Carolina, persona assai colta e ben disposta ai progressi della scienza, colei che aveva fatto venire il medico Gatti dal Gran Ducato di Toscana dopo l’inoculazione del virus al fratello, il granduca Pietro Leopoldo; e così, nel marzo del 1778, a 26 anni, il Re si fece variolizzare, al pari della quasi coetanea consorte, scrivendo poi al padre che, dopo un bel po’ di pustole comparse sul viso e sul corpo, le cose procedevano bene e si sentiva più tranquillo.

Le inoculazioni del virus del vaiolo divennero sempre più una priorità per Ferdinando e Maria Carolina dopo l’ancor più dolorosa morte dell’amato primogenito, il piccolo Carlo Tito, scomparso per la terribile malattia nove mesi dopo, a soli tre anni. E dunque la coppia reale fece variolizzare il piccolo Francesco, nuovo erede al trono di un anno di età, e le sorelle maggiori Maria Teresa e Maria Luisa, per poi ordinare l’inoculazione obbligatoria per i ragazzi dell’appena costituita Real colonia delle Seterie di San Leucio, dove esisteva una vaccheria per l’allevamento delle vacche sarde. Il virus infettava non solo gli uomini ma anche i bovini, i quali la trasmettevano alle mungitrici, in forma più blanda e con lesioni limitate alle mani.
Nel paragrafo XV, capitolo II, del Codice delle Leggi Leuciane del 1789, interamente dedicato al vaccino contro il vaiolo, si leggeva:
“Vi sarà perciò una Casa separata totalmente dall’altre in luogo di aria buona, e ventilata, chiamata degl’infermi. In questa ne’ debiti tempi di autunno, e primavera d’ogni anno si farà a tutti i fanciulli e le fanciulle della Società l’inoculazione del vajuolo”.

Nella primavera del 1801, durante un’epidemia di vaiolo a Palermo che mieteva migliaia di vittime, e su richiesta di Maria Carolina che aveva perso una sorella sempre per la malattia, l’impavido Ferdinando sfidò lo scetticismo generale e si avvalse di due medici inglesi, Joseph Marshall e John Walker, recatisi in Sicilia per immunizzare i marinai britannici di stanza sull’Isola, e avviò quello che è da considerarsi il primo programma di vaccinazione su larga scala dei territori italiani. Dopo aver fatto variolizzare i suoi figli, ordinò ai medici delle province di fare lo stesso con le centinaia di migliaia di orfanelli e trovatelli delle loro giurisdizioni. Furono coinvolti oltre diecimila bambini in meno di un anno.

Nell’agosto del 1802, il Re istituì un apposito organismo sanitario, la Direzione Vaccinica, con sede nel Real Albergo dei Poveri di Napoli e succursali nelle altre province del regno.

Tra il 1803 e il 1810, il giovane medico napoletano Gennaro Galbiati, chirurgo ostetrico dell’Ospedale degli Incurabili e allievo di Domenico Cotugno, perfezionò l’inoculazione, rendendola più sicura ed efficace. Il suo metodo si rifaceva alla scoperta dal medico inglese Edward Jenner, il quale aveva intuito che inoculando il più blando vaiolo degli animali anziché quello umano si sarebbe ottenuta ugualmente l’immunità, e aveva iniziato a sperimentare la scoperta, deducendo che da tale immunizzazione il virus si presentava nella forma bovina, quindi senza gravi conseguenze, e non in quella umana più pericolosa. Il metodo, definitivamente verificato nel 1796 e conosciuto come “inoculazione jenneriana”, utilizzava il virus vaccinico come agente virale, ed era di fatto il primo “vaccino”, nome derivante appunto dall’aggettivo latino “vaccinus”, derivato di vacca. Domenico Cotugno, ne era divenuto convinto sostenitore.

Cosa fece di innovativo Galbiati? Con il metodo Jenner, il materiale infetto dei bovini veniva trasferito da animali infetti a uomini sani, come nella variolizzazione, e ciò aveva lo svantaggio di poter trasmettere, nel successivo trasferimento da uomo a uomo, altre patologie infettive umane, soprattutto la sifilide. Galbiati introdusse il trasferimento del materiale infetto in vacche giovani e sane, e da queste ritrasferito all’uomo. Inoltre eliminò il trasferimento da uomo infetto a uomo sano ed introdusse il passaggio attraverso un bovino, che aveva anche il vantaggio di produrre quantità maggiori e standardizzate di materiale da trasferire ai bambini da vaccinare.

La vaccinazione animale ideata da Jenner e perfezionata da Galbiati venne avversata dagli ambienti più conservatori perché considerato un insulto alla natura, data la commistione tra animale e uomo. L’opposizione venne soprattutto dalla Commessione Centrale di Vaccinazione, il nuovo nome dato nel 1807 da Giuseppe Bonaparte alla Direzione Vaccinica dopo l’invasione francese a Napoli. L’istituto, tra il 1808 e il 1819, nonostante gli scetticismi e le paure della popolazione, registrò 280.000 immunizzazioni, la maggior parte eseguite utilizzando il vaccino di derivazione umana.

Fu poi con il Decreto n. 141 del 6 novembre 1821 “riguardante la inoculazione del vaccino vajuolo” che lo stesso Ferdinando di Borbone, una volta recuperato il trono di Napoli, rese obbligatoria con severe norme la vaccinazione dei bambini del regno, per la prima volta negli stati d’Italia. Il sovrano operò per scoraggiare il fronte antivaccino e per persuadere gli scettici proprio con l’arma della fede e con l’incentivo di una lotteria nazionale. I parroci, tenuti a mantenere aggiornati i loro registri dei vaccinati, avrebbero dovuto “minacciare” di disgrazie i più riluttanti e ogni anno avrebbero messo tutti i nomi dei vaccinati in un’urna, da cui sarebbe stato estratto il nome di un fortunato vincitore di un cospicuo premio in denaro.

Con i Regolamenti emanati il 10 settembre 1822, commutando la Commessione Centrale di Vaccinazione in Istituto Centrale Vaccinico, fu definita dettagliatamente l’organizzazione dei diversi livelli amministrativi insediati nelle province.

Nel 1843, l’istituzione vaccinica di Napoli fu insignita di un prestigioso riconoscimento dall’Accademia Reale delle Scienze di Francia per il lavoro compiuto in quarant’anni di proficua attività, tra organizzazione e diffusione dei regi decreti, a testimonianza di quanto fosse stato esemplare in tutt’Europa per la prevenzione e la lotta contro il vaiolo.

In prossimità dell’unificazione politica d’Italia, il torinese Massimo d’Azeglio, governatore della provincia di Milano, scrisse al patriota Diomede Pantaleoni: “Ma in tutti i modi la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”. Faceva davvero paura quella malattia, anche a chi dai napoletani otteneva la soluzione, visto che nel frattempo la retrovaccinazione con l’utilizzo di bovini ideata da Galbiati iniziava ad affermarsi. Nel 1864, durante un convegno medico a Lione, un brillante allievo di Gennaro Galbiati, Ferdinando Palasciano, rese nota in ambito internazionale l’ormai sessantennale esperienza napoletana, invitando a Napoli chiunque volesse visitare gli stabilimenti sorti per produrre il vaccino industriale di derivazione animale messo a punto dal suo maestro, quello che fu poi adottato dall’intera comunità scientifica mondiale mentre la ‫variolizzazione‬ finiva per essere vietata.

L’ultimo caso conosciuto di vaiolo nel mondo è stato diagnosticato nel 1977 in Somalia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato ufficialmente eradicata questa malattia nel 1980. Un risultato straordinario reso possibile dal prezioso contributo della medicina napoletana, un vero modello nella storia dei vaccini che andrebbe studiato da chi oggi, in tempo di Covid-19, pur essendo napoletano, si dice stupito che l’eccellenza delle cure arrivi incredibilmente da Napoli e da quell’ospedale che porta il nome di Domenico Cotugno, il medico che fu tra i primi ad appoggiare l’inoculazione jenneriana, aprendo la strada del perfezionamento al suo allievo Gennaro Galbiati.

Il giorno della memoria

Gaeta_fineChi diede il diritto a degli italiani di assediare altri italiani? Di puntargli contro odio, fucili e cannoni?

Quali gli ideali, se non quello di conquista di ricchezza che muove chiunque faccia guerra?

Poteva farla Napoli l’Italia, da Sud a Nord, e senza spargimento di sangue. E sarebbe stato un altro paese.

Il 13 febbraio 1861, dopo aver ferocemente resa al suolo “la fedelissima” Gaeta, a conclusione di una guerra di occupazione che chiamano “unificazione”, l’invasore piemontese conquistava la fu Magna Grecia, e ne faceva colonia.

Oggi, 13 febbraio 2020, l’Eurispes certifica che dal 2000 al 2017 il Centro-Nord ha sottratto 840 miliardi di sola spesa pubblica al Sud. Senza contare tutto quello che il Sud passa al resto del Paese in termini di acquisti di beni e servizi (70 miliardi/anno), di formazione scolastica e universitaria dei propri ragazzi che emigrano (20 miliardi/anno), di emigrazione sanitaria (2 miliardi/anno) e di raccolta dei risparmi negli sportelli bancari (700 miliardi/anno) che finiscono per finanziare le aziende settentrionali. Dal 2000 al 2017. E dal 1861 al 1999?

La vera Amatriciana (abruzzese napolitana) verso il marchio STG

spaghettiamatriciana

Angelo Forgione – Ormai ci siamo quasi: tre mesi e la ricetta originale degli spaghetti all’Amatriciana di Amatrice, quella abruzzese di contaminazione napoletana, sarà riconosciuta dalla UE e tutelata da falsi e imitazioni.
La Commissione europea ha infatti pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue, la domanda di registrazione della vera “Amatriciana Tradizionale”, che sarà presto riconosciuta ufficialmente col marchio STG (Specialità Tradizionale Garantita) e protetta contro coloro che hanno declinato il piatto alla romana o a modo proprio.

Nella domanda presentata dal Comune di Amatrice, al punto 4.3., si chiarisce espressamente l’appartenenza della ricetta alla cucina montanara abruzzese e l’influenza napoletana:

Rielaborando ed arricchendo questa elementare preparazione pastorale [la gricia abruzzese] e con l’introduzione del pomodoro intervenuta all’inizio dell’800, la popolazione di Amatrice ha dato vita ad uno dei piatti più conosciuti della tradizione italiana.
Infatti, quando alla fine del 1700 i Napoletani, tra i primi in Europa, riconobbero i grandi pregi organolettici del pomodoro, anche gli Amatriciani, che ricadevano nella giurisdizione del Regno di Napoli fin dal XIII secolo, ebbero modo di apprezzarlo e con felice intuizione l’aggiunsero al guanciale stagionato che ha reso così succulenta una salsa per la pasta la cui fama ha varcato i confini nazionali per affermarsi anche nella cucina internazionale.

Erroneamente un po’ tutti attribuiscono l’Amatriciana alla cucina romana, ignorando che furono invece i pastori abruzzesi, con gli spostamenti stagionali della transumanza verso le campagne laziali, a far conoscere questa ricetta a Roma e dintorni.
La storicamente abruzzese Amatrice è oggi provincia della laziale Rieti per riorganizzazione geografica del fascismo, ma territorio appartenuto alla provincia de L’Aquila fino al 1927 e al Regno delle Due Sicilie fino ai plebisciti d’annessione del 1860, e dunque l’Amatriciana originale non ha nulla a che fare con Roma e l’antico Stato Pontificio, come ho spiegato a Radio Rai mesi fa.

Anni fa, quando iniziai a divulgare questa verità, gli ignoranti mi insultavano e deridevano. Oggi possono approfondire la storia dell’Amatriciana sul mio Il Re di Napoli (Magenes, 2019), dove ho definito questa prelibatezza “salsa nuziale del Regno di Napoli, felice matrimonio tra l’Appennino e la costa”.