Napoli capitale in Piemonte

Angelo Forgione Non sono certo una novità le parole anti-risorgimentali di Aurelio De Laurentiis pronunciate al Passepartout Festival 2021 di Asti, anzi, e sarebbe banale sottolinearle ancora se non fosse che certe chiacchiere, stavolta, sono state fatte ad Asti, davanti ad una platea piemontese.
Beppe Rovera, redattore cuneese della Rai TgR Piemonte, ha snocciolato le parole del filosofo e politico milanese Giuseppe Ferrari, grande conoscitore della cultura umanistica di Napoli, di cui ho scritto in Napoli Capitale Morale. Parole pronunciate in una seduta del parlamento del Regno di Sardegna l’8 ottobre 1860, due settimane prima della falsa consultazione plebiscitaria per l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, durante la quale il deputato lombardo si espresse contro la colonizzazione della città più importante e popolosa d’Italia, rimproverando Cavour di perseguire un piano opportunistico e per niente democratico.
Il milanese Giuseppe Ferrari, da solo, denunciava gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi e si batteva politicamente per Napoli, città in cui lui era stato con gran curiosità. Non c’erano mai stati i torinesi Cavour e Massimo D’Azeglio, quest’ultimo governatore della provincia di Milano, che nove giorni dopo quella discussione parlamentare scrisse: “la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”.

Napoli Capitale Morale si apre appunto con un passaggio dell’intervento di Giuseppe Ferrari, filosofo e deputato milanese, al Parlamento di Torino durante la discussione sull’annessione delle province meridionali al Piemonte, a due settimane dai plebisciti dell’ottobre 1860:

“Ho visto una città colossale, ricca, potente […]. Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nel agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle Nazioni.”

Ferrari, estraneo a consorterie e a gruppi politici, di ritorno in Italia dopo un ventennio trascorso in Francia, sosteneva una confederazione degli stati italiani ed era contrario all’annessione al Piemonte delle province meridionali. L’unico parlamentare che vedeva l’Italia unita alla maniera giusta. Un idealista destinato ad essere isolato. Un milanese che studiò la cultura di Napoli, e visitò la città, cosa che non fece mai Cavour, e che Vittorio Emanuele II fece solo per andarsela a prendere. Ecco alcuni passaggi interessanti del lungo discorso del milanese.

“[…] Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che sia data a voi, che si dia a Torino. Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico lo vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalle volontà individuali, il vostro principio conduce alla confisca immediata e incondizionata della più grande delle città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di Napoli. (Mormorio)
[…]
La dedizione incondizionata (di Napoli) significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi tutte le leggi piemontesi…
(mormorio prolungato)
[…]
La parola incondizionata implica che il regno napoletano si troverà in balia di un Re o di un Senato piemontesi.
[…]
Le leggi delle Due Sicilie sono ottime, paragonate con quelle delle altre nazioni incivilite; esse sono da preferirsi a tutte; in una parola i codici francesi sono vigenti nella bassa Italia, e voi volete che Napoli si sottometta incondizionatamente e subito ad occhi chiusi a un regno i cui codici sono nel dubbio della discussione, le cui finanze ondeggiano nell’urto delle autonomie, e il cui ordinamento geografico è un mistero per i membri stessi del Gabinetto piemontese?
[…]
Del resto, voi lo sapete meglio di me, non ispetterebbe a me il dirlo, le Due Sicilie sono regolate col miglior governo che si possa in quest’istante immaginare.
(Ilarità)
[…]
Or bene, s’io avessi l’onore d’essere nato nella patria di Vico, e se l’alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci
. (Segni di disapprovazione)
E diffatti, giacché la storia non volle che l’Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo giungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra
(Rumore); […]”

Giuseppe Ferrari rimase una voce radicale isolata a denunciare gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi. Continuò solitario ad avversare le profonde sperequazioni sociali all’interno dell’Italia unitaria, accusando l’annessione incondizionata per l’alimentata piaga del brigantaggio.

Addio al piccolo molo borbonico

È finita. L’antico molo dei pescatori di via Partenope è collassato definitivamente. È la cronaca di una fine annunciata.
Grazie infinite all’Autorità Portuale, alla Città Metropolitana, alla Sovrintendenza e a tutti coloro che, sostanzialmente, nulla hanno fatto per salvare una piccola testimonianza del passato; anzi, hanno atteso che questo giorno arrivasse.

Oggi che il molo è crollato, fa ancora più male riascoltare (qui a 11:03) il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale Pietro Spirito, la scorsa primavera, alla richiesta mia e di Gianni Simioli di maggiore sensibilità per risolvere il problema. Era solo l’ultimo appello tra i tanti lanciati negli anni.

Apocalisse sul lungomare di Napoli

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ph: Riccardo Siano

Angelo Forgione – Piove sul bagnato! Notte di devastazione sul lungomare di Napoli, colpito fortemente sul gomito di via Partenope da una mareggiata straordinaria, se straordinari possono dirsi certi eventi climatici ormai frequenti. Con il cambiamento climatico in corso e la tropicalizzazione del clima mediterraneo, si tratta ormai solo di quantificare la forza delle mareggiate, delle tempeste di vento e delle bombe d’acqua, sempre più violente ogni anno che passa (ma anche caldo e interminabili periodi di siccità). Inutile girare intorno alla casistica del passato: non sono più eventi sporadici ed eccezionali ma la normalità alla quale bisogna abituarsi, diretta conseguenza dell’innalzamento della temperatura terrestre e della perdita di biodiversità. La situazione in Italia è particolarmente grave per il fatto che la temperatura si sta innalzando a una velocità doppia rispetto alla media globale. Il problema è che le nostre città e le nostre coste, già destinate a un’incuria perniciosa, non sono pronte ad affrontare certe calamità ripetute, e allora non resta che contare i danni, ogni anno, qua e là.
Stavolta è toccato a Napoli. Il mare, ingrossato dall’alta marea, dal fortissimo vento e dalla bassa pressione atmosferica, ha invaso letteralmente la sede stradale. Lì, sulla curva di via Partenope, ha divelto muretti e ringhiere di recinzione, devastando decine di ristoranti e attività commerciali già in ginocchio per l’emergenza sanitaria. Calpestio pedonale fratturato e ormai compromesso (come si evince anche dalle immagini filmate sul posto) e necessità ormai sempre più evidente di risistemare l’intero waterfront, da riqualificare certamente – e se ne dibatte da qualche anno senza risultati tangibili – ma forse proprio da ripensare con una più ampia scogliera al largo, più idonea alle nuove evidenze climatiche, e magari coinvolgendo il Governo per il ripristino della spiaggia di ottocentesca memoria, utile allo sviluppo turistico della città e pure alla sicurezza del lungomare.
Più in la, in direzione di piazza Vittoria, quel che rimane del piccolo molo dei pescatori, testimonianza del lungomare d’epoca borbonica, è rimasto in piedi grazie ai tubi innocenti di sostegno montati qualche mese fa, dopo l’allarme lanciato alla vista del pericolo di crollo.

la devastazione del gomito di via Partenope
i danni alle attività commerciali
le condizioni del molo borbonico

SOS lungomare di Napoli

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Angelo Forgione – L’antico molo borbonico sul lungomare di Napoli rischia di collassare. Una testimonianza del passato, sopravvissuta al nuovo lungomare tardo-ottocentesco, che per puro caso non è crollata con la violenta mareggiata dello scorso ottobre. Da allora solo un lembo di pietra lo sostiene “in vita”, ma in otto mesi non è scattato alcun intervento di ripristino.
Al di là del suo valore storico, è anche una questione di interesse turistico, trattandosi di uno scorcio molto suggestivo, scelto dai turisti per fotografare il Castel dell’Ovo sullo sfondo.
La sensazione è che un altro colpo di mare butterebbe giù tutto, e il prossimo autunno non è lontano. Lo stiamo forse aspettando per poi piangere un altro scorcio di Napoli che fu?
Critiche, fatiscenti e pericolose sono anche le condizioni in cui versa da tempo il vicino molo della “colonna spezzata”, pure bisognoso di intervento.

Il lungomare di Napoli, privato della sua spiaggia a fine Ottocento, necessita di una seria riqualificazione che vada oltre la pur positiva pedonalizzazione.
Con Antonio Folle de Il Mattino, sono stato sul posto, ancora una volta, per sollecitare interventi. I finanziamenti pare che ci siano. È ora di operare.

Clicca qui per leggere l’articolo di Antonio Folle per Il Mattino

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L’emozionante varo che rinnova la tradizione cantieristica stabiese

Angelo Forgione – Emozionante varo ai cantieri navali di Castellammare di Stabia della più grande unità navale mai costruita in Italia, la supernave ‘Trieste’.
Si rinnovano 233 anni di tradizione stabiese, dal Regio Arsenale borbonico, inaugurato nel 1783, all’odierna Fincantieri.

Nel 1786 il primo varo, quello della ‘Partenope’.

Nel 1831 il primo piroscafo da crociera al mondo, il ‘Francesco I’, straordinariamente veloce rispetto alle navi dell’epoca grazie ai 120 cavalli motore, contro il massimo degli 80 francesi.

Nel 1847 la prima nave con propulsione a elica, il ‘Giglio delle onde’.

Nel 1850 il veliero a motore ‘Monarca’, l’ammiraglia della Real Marina delle Due Sicilie.

Nel 1931 la più ammirata imbarcazione al mondo e vanto della Marina Militare italiana, la nave-scuola ‘Amerigo Vespucci’, un’imbarcazione gemella del ‘Monarca’, ricavata dai disegni dell’ammiraglia borbonica.

Oggi l’emozionante varo della ‘Trieste’.

I cantieri-arsenali di Castellammare di Stabia furono tra i migliori al mondo nella prima metà dell’Ottocento, costantemente aggiornati con ampi piani industriali che ne fecero un’eccellenza del Regno di Napoli.
Quella borbonica si consacrò come la terza Marina europea per tonnellaggio complessivo, a tal punto da spaventare la Marina britannica in vista del taglio dell’Istmo di Suez, più prossimo alle Due Sicilie.
Guglielmo Ludolf, ambasciatore del Regno delle Due Sicilie presso Istanbul, scrisse nel 1856 la relazione ‘Del perforamento dell’Istmo di Suez in quanto principalmente influirà sull’odierno commercio d’Italia’, un trattato in cui preconizzò il notevolissimo sviluppo economico che l’apertura del gran naviglio egiziano avrebbe generato per le Due Sicilie, rendendo Napoli e le città del sud d’Italia “stazioni della strada delle Indie”.
E qui chi ha curiosità trova lo spunto per comprendere le “volontà” internazionali, non solo piemontesi, che condussero alla fine del Regno delle Due Sicilie (per approfondimenti: Napoli Capitale Morale).

SOS molo borbonico di via Partenope

Angelo Forgione – L’antico molo borbonico sul lungomare di Napoli rischia di collassare. Una testimonianza del passato, sopravvissuta al nuovo lungomare tardo-ottocentesco, che per puro caso non è crollata con la violenta mareggiata dello scorso novembre. Da allora solo un lembo di pietra lo sostiene “in vita”, ma in quattro mesi non è scattato l’urgente intervento di ripristino.
Al di là del suo valore storico, è anche una questione di interesse turistico, trattandosi di uno scorcio molto suggestivo, scelto dai turisti per fotografare il Castel dell’Ovo sullo sfondo.
Pare che i fondi per intervenire siano disponibili. Eppure la sensazione è che un altro colpo di mare butterebbe giù tutto. Lo stiamo forse aspettando per poi piangere un altro scorcio di Napoli che fu?
Critiche e fatiscenti anche le condizioni in cui versa da tempo il vicino molo della “colonna spezzata”, pure bisognoso di intervento.

viapartenope

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Tra Andria e Pioltello, “il più grande piano infrastrutturale d’Europa” di Renzi e Delrio

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Angelo Forgione
 – Era il 22 novembre 2017, solo due mesi fa, quando Matteo Renzi e il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio si ritraevano in un video con lo smartphone dal Ponte borbonico sospeso sul Garigliano, in località Minturno, strumentalizzando l’avanguardia ingegneristica borbonica preunitaria di Luigi Giura per comunicare sui social che l’Italia stava conducendo il più grande piano infrastrutturale d’Europa. Del resto vi era poco di spontaneo in quel video, visto che poche ore prima i due erano partiti dalla stazione di Roma Ostiense, pianificando nei dettagli la performance in un luogo non propriamente scelto per il suo incredibile significato: «Ci hanno fatto due palle come un cestello sull’idea di vedere questo ponte», disse Renzi a Delrio nel breafing alla stazione romana.
Alla luce del triste evento ferroviario nei pressi di Milano, la cosa più interessante è che il Ministro, in quell’occasione, decantò la grandezza del piano infrastrutturale in fieri, dimenticandosi però di aggiornarci circa gli investiventi sulle ferrovie regionali, cosa non trascurabile visto che solo nell’estate 2016 il Paese aveva fatto parlare di sé al mondo intero per la sciagura ferroviaria del treno regionale tra Andria e Corato, ben 23 vittime di bilancio. E puntualmente ci ritroviamo a parlare di disatri ferroviari annunciati, perché quello di Pioltello, che ha causato 3 morti, segue quattro deragliamenti in sei mesi sulla stessa tratta. Stiamo parlando della Lombardia, il faro della modernizzazione italiana, la regione in cui, secondo la ricerca Pendolaria 2017 di Legambiente, vi sono più treni che in tutto il Mezzogiorno.
Siamo evidentemente tutti in pericolo, chi più e chi meno, in una nazione che fatica a rimettersi in piedi.

Daverio: «Napoli unico regno funzionante del Mediterraneo, ma poi…»

Tratto dalla trasmissione Rai Quante Storie, condotta da Corrado Augias.

Come Napoli divenne culla dell’archeologia moderna e del Neoclassicismo

Angelo Forgione Interessante puntata di Petrolio (Rai Uno) quella intitolata #petroliosulgolfo del 28/7/17. Tra bellezza portata alla luce e creata nel Settecento e brutture del Novecento (a buon intenditor poche parole; ndr), la trasmissione si è resa davvero istruttiva per chi non è conoscenza di un’incredibile ricchezza archeologica della terra napoletana, non a caso la culla dell’archeologia moderna, che ha davvero tutte le carte in regola per tornare ad essere capitale mondiale del turismo. Qualche precisazione però va fatta, a partire dalla distinzione proposta tra gli scavi borbonici in sotterranea e quelli moderni, con la voce fuori campo che ha così narrato: «più ci addentriamo nel tunnel, più si fa chiaro l’intento degli scavi borbonici, ben diversi dall’archeologia moderna». A seguire, la dichiarazione dello speleologo romano Marco Placidi: «questi andavano semplicemente alla ricerca di oggetti, di statue, che servivano semplicemente per essere o rivendute o regalate agli amici dei Borbone». Detta così, passa per qualcuno il messaggio di un’autorizzata attività esclusivamente predatoria, che non fu. Bisogna dunque chiarire il processo di nascita degli scavi per chiarire che i Borbone non persero nulla di veramente prezioso, e anzi arricchirono Napoli, ma furono semmai francesi e inglesi a derubare la città, saccheggiando in particolar modo le antiche statue greche e romane. William Hamilton, ambasciatore di Gran Bretagna presso i Borbone di Napoli dal 1764 al 1800, rifornì il British Museum di classicità pompeiane, e nei sotterranei della sua casa napoletana il Goethe, che gli fece visita nel 1787, scoprì una vasta e disordinata collezione di reperti archeologici, invitato a tacere e a non indagare oltre sulla loro provenienza dall’amico Jakob Philipp Hackert, pittore di corte. Nel 1799, il generale francese Championnet scrisse da Napoli al ministro dell’Interno del Direttorio di Parigi che alcune preziose statue in marmo e bronzo di Ercolano stavano per partire per Parigi. I francesi, prima di essere cacciati, non riuscirono a far partire in tempo il già imballato Ercole Farnese del Real Museo Borbonico, che restò anche il grande cruccio di Napoleone, il quale, nel 1810 ricevette Antonio Canova a Parigi e gli disse che gli mancava solo la statua napoletana e che stava per portarsela a Parigi. Anche lui non fece in tempo.

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Facciamo un po’ di chiarezza, riportando cronologicamente come la corte borbonica di Napoli cambiò il gusto del mondo.

  • 1738: l’ingegnere militare Rocque Joaquín de Alcubierre, archeologo del Genio Borbonico, sapendo di trovarsi in una plaga vulcanica colpita da violente eruzioni, chiede e ottiene dal re Carlo di Borbone l’autorizzazione per avviare degli scavi a Resina (l’attuale Ercolano). Partono i primi sondaggi, per i quali ci si affida agli artiglieri dell’esercito borbonico (tra cui Raimondo de’ Sangro, principe di San Severo), i quali sviluppano l’ingegneria mineraria, con cui si realizzano impressionanti sistemi di gallerie a grandissima profondità con impiego di esplosivi. Le cognizioni archeologiche non sono certamente adeguate al delicato compito, ci si trova di fronte a una scienza nuova tutta da indagare e codificare, e allora il difficile e approssimativo metodo di lavoro procede con sondaggi verticali fino al punto in cui si rinvengono tracce di edifici, avanzando poi in orizzontale con la realizzazione di stretti cunicoli durante la cui lavorazione è facile procurare danni spesso irreparabili ai preziosi reperti. Si cercano tesori sepolti, e non c’è ancora l’idea di riportare alla luce le antiche città distrutte dal Vesuvio. Comincia ad affiorare un inestimabile tesoro sotterrato da circa diciassette secoli, e ogni reperto viene trasferito alla Reggia di Portici, da poco edificata come residenza estiva della corte. Tutto deve essere consegnato a Carlo di Borbone (diversamente da quanto dice lo speleologo Placidi a Petrolio), il quale ha già trasferito da Parma e Piacenza la parte emiliana della preziosa Collezione Farnesiana, ereditata dalla madre Elisabetta Farnese.
  • 1745: due eruditi napoletani, l’abate Giacomo Martorelli e il canonico Alessio Mazzocchi, convincono Carlo di Borbone a dirottare gli artiglieri sulla collina di Civita, convinti che lì sotto ci sia l’antica città di Pompeii. Il primo scavo frutta, dopo cinque giorni, una parete affrescata e, dopo altri tredici, il primo scheletro.
  • 1748: riemerge Oplontis; un anno più tardi Stabiae; e poi Cuma, Puteoli e gli antichi resti di Capri.
  • 1750: Gli scavi cambiano scopo dopo che si comprende che a Resina si sta scavando nella Villa dei Papiri di Herculaneum. Il Re capisce che quelle antiche città, se esumate, possono diventare musei a cielo aperto capaci di attirare i viaggiatori del Grand Tour che difficilmente si spingono più a sud di Roma, una fonte di arricchimento non solo culturale per il Regno di Napoli. Cresce così l’impulso dato agli scavi e cospicui diventano i finanziamenti per ampliare le aree di lavoro. Vengono disegnate numerose piante di edifici e i reperti, inizialmente considerati di proprietà della famiglia reale, vengono dichiarati proprietà dello Stato.
  • 1752: Carlo di Borbone apre la strada per le Calabrie, che fornisce altri spunti col rinvenimento dei templi greci di Paestum. La riscoperta del classico fa così un ulteriore passo indietro nel tempo, dai Romani ai Greci. Altri finanziamenti vengono dirottati sul sito.
  • 1755: il Re istituisce la Reale Accademia Ercolanense, con la funzione di esaminare i reperti e fornire fondamenti scientifici all’archeologia, in modo da attrarre i maggiori studiosi del Vecchio Continente. Napoli diviene sempre più meta privilegiata di politica, cultura e scienza. L’Accademia produce volumi ricchi di informazioni e incisioni raffiguranti le preziosità portate alla luce, che fanno il giro delle corti, dei collezionisti e delle università dell’intera Europa. I modelli ercolanensi e pompeiani ispirano Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga, che ne recuperano pian piano gli elementi architettonici, riformulandoli nell’architettura della Reggia di Caserta e nel Real Albergo dei Poveri di Napoli.
  • 1758: Carlo di Borbone istituisce il Real Museo Ercolanense, unico in tutta Europa non solo per la quantità e la qualità dei reperti riuniti, ma anche per i laboratori sperimentali e l’insieme delle attività di studio e di restauro che vi si svolgono, tra le quali spiccano gli ingegnosi metodi via via tentati per srotolare i papiri carbonizzati e recuperati a Ercolano. Il Museo diviene ben presto meta obbligata di studiosi, intellettuali e amanti dell’arte. Alla Reggia di Portici, in quell’anno, giunge in visita il maggiore studioso dell’epoca, il bibliotecario tedesco Johann Joachim Winckelmann, che sfrutta il suo soggiorno alle falde del Vesuvio per codificare le intere strutture e i tessuti urbani dissotterrati.
  • 1759: Carlo di Borbone è costretto a lasciare Napoli per trattato stupilato con Vienna. Tocca a lui ereditare il trono di Madrid. Al porto di Napoli, prima di imbarcarsi per Barcellona, si sfila dal dito un anello rinvenuto durante gli scavi e lo consegna ai funzionari del primo ministro Bernardo Tanucci, affermando «non è roba mia, appartiene allo Stato di Napoli». Ormai gli scavi procedono in superficie e i primi tunnel sotterranei vengono chiusi.
  • 1764: Sulla scorta di quanto visto a Napoli, Winckelmann pubblica la Storia delle arti del disegno presso gli antichi, in cui proclama l’arte classica come ideale di perfezione. L’opera diffonde in tutt’Europa le notizie di quei rinvenimenti e contribuisce in maniera fondamentale a rendere le città-ruderi del Vesuviano una vera e propria moda continentale. Winckelmann codifica così l’archeologia moderna, nuova scienza di cui Napoli diviene ufficialmente culla. Nasce ufficialmente il Neoclassicismo, nuovo stile e passione illuministica che si diffonde velocemente, travolgendo e spazzando via il Barocco e tutte le correnti precedenti. La capitale del Regno diviene l’epicentro di un nuova moda delle arti che si propaga in Europa e poi nel mondo.
  • 1777: Ferdinando di Borbone, erede al trono di Napoli, toglie la proprietà privata a tutte le collezioni di famiglia appartenenti al suo ramo borbonico per renderle pubbliche e donarle alla città. Affida quindi a Ferdinando Fuga il compito di sistemare un edificio integralmente destinato alla cultura e alle arti universali, il primissimo dell’Europa continentale e il primo al mondo del genere. Nasce il Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico Nazionale di Napoli, la prima esposizione classica del pianeta, dove viene trasferita la parte archeologica romana della Collezione Farnesiana fin lì situata nelle terrene di Caracalla di Roma.
  • 1778: L’architetto e incisore Giovan Battista Piranesi diffonde in tutt’Europa l’immagine del Tempio di Era a Paestum, capace di condizionare tutti i teorici dell’architettura del continente, soprattutto quelli d’avanguardia. Milano, Parigi, San Pietroburgo e la stessa Napoli si fanno capitali della nuova edilizia neoclassica.
  • 1787: A Napoli arriva il tedesco Johann Wolfgang Goethe, e visita scavi e Museo Ercolanense, definendolo “l’alfa e l’omega di tutte le raccolte di antichità”. I suoi racconti contribuiranno a divulgare le bellezze di Napoli in tutto il Continente.
    Il processo è ormai compiuto. Napoli è la riconosciuta capitale della cultura classica, che impera in Europa. Da lì in poi inglesi e francesi si riversano sulle antichità vesuviane di Napoli per arricchire Londra e Parigi. In seguito alla confusione generata della rivoluzione del 1799 la maggior parte della raccolta del Museo Ercolanense viene trasferita nel Real Museo Borbonico di Napoli.

Un caso di “unione civile” di inizio ‘900 al Cimitero (da salvare) delle 366 Fosse?

cimitero_2uominiAngelo Forgione Il Cimitero delle 366 fosse di Napoli è un formidabile esempio di architettura sociale voluto nel 1762 dal governo borbonico per dare sepoltura ai poveri della Capitale e pensato dall’architetto toscano Ferdinando Fuga. Una pianta quadrata, interamente recintata, e lastricata di pietra lavica, all’interno della quale si trovano 366 botole numerate che coprono altrettante fosse di 4,20 metri per lato e profonde 8 metri, adibite alla conservazione dei corpi di chi moriva nel giorno dell’anno corrispondente al numero riportato sulla lastra di chiusura. Un sistema innovativo che seguiva un rigido ordine numerico e cronologico: ogni giorno una fossa veniva scoperchiata e richiusa la sera, per poi essere riaperta 365 giorni dopo. Il Cimitero è ancora adibito alla tumulazione, nelle pareti di recinzione, ma necessita di interventi urgenti di recupero per conservare la memoria di uno dei luoghi simbolici della Napoli dei Lumi.
Proprio nell’atrio di ingresso, nel corso del Ventennio fascista, sono stati inseriti dei monumenti funebri. In uno di questi giacciono due persone di sesso maschile. Parenti lontani o amanti del periodo tra l’Ottocento e il Novecento?