Addio al piccolo molo borbonico

È finita. L’antico molo dei pescatori di via Partenope è collassato definitivamente. È la cronaca di una fine annunciata.
Grazie infinite all’Autorità Portuale, alla Città Metropolitana, alla Sovrintendenza e a tutti coloro che, sostanzialmente, nulla hanno fatto per salvare una piccola testimonianza del passato; anzi, hanno atteso che questo giorno arrivasse.

Oggi che il molo è crollato, fa ancora più male riascoltare (qui a 11:03) il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale Pietro Spirito, la scorsa primavera, alla richiesta mia e di Gianni Simioli di maggiore sensibilità per risolvere il problema. Era solo l’ultimo appello tra i tanti lanciati negli anni.

Apocalisse sul lungomare di Napoli

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ph: Riccardo Siano

Angelo Forgione – Piove sul bagnato! Notte di devastazione sul lungomare di Napoli, colpito fortemente sul gomito di via Partenope da una mareggiata straordinaria, se straordinari possono dirsi certi eventi climatici ormai frequenti. Con il cambiamento climatico in corso e la tropicalizzazione del clima mediterraneo, si tratta ormai solo di quantificare la forza delle mareggiate, delle tempeste di vento e delle bombe d’acqua, sempre più violente ogni anno che passa (ma anche caldo e interminabili periodi di siccità). Inutile girare intorno alla casistica del passato: non sono più eventi sporadici ed eccezionali ma la normalità alla quale bisogna abituarsi, diretta conseguenza dell’innalzamento della temperatura terrestre e della perdita di biodiversità. La situazione in Italia è particolarmente grave per il fatto che la temperatura si sta innalzando a una velocità doppia rispetto alla media globale. Il problema è che le nostre città e le nostre coste, già destinate a un’incuria perniciosa, non sono pronte ad affrontare certe calamità ripetute, e allora non resta che contare i danni, ogni anno, qua e là.
Stavolta è toccato a Napoli. Il mare, ingrossato dall’alta marea, dal fortissimo vento e dalla bassa pressione atmosferica, ha invaso letteralmente la sede stradale. Lì, sulla curva di via Partenope, ha divelto muretti e ringhiere di recinzione, devastando decine di ristoranti e attività commerciali già in ginocchio per l’emergenza sanitaria. Calpestio pedonale fratturato e ormai compromesso (come si evince anche dalle immagini filmate sul posto) e necessità ormai sempre più evidente di risistemare l’intero waterfront, da riqualificare certamente – e se ne dibatte da qualche anno senza risultati tangibili – ma forse proprio da ripensare con una più ampia scogliera al largo, più idonea alle nuove evidenze climatiche, e magari coinvolgendo il Governo per il ripristino della spiaggia di ottocentesca memoria, utile allo sviluppo turistico della città e pure alla sicurezza del lungomare.
Più in la, in direzione di piazza Vittoria, quel che rimane del piccolo molo dei pescatori, testimonianza del lungomare d’epoca borbonica, è rimasto in piedi grazie ai tubi innocenti di sostegno montati qualche mese fa, dopo l’allarme lanciato alla vista del pericolo di crollo.

la devastazione del gomito di via Partenope
i danni alle attività commerciali
le condizioni del molo borbonico

SOS lungomare di Napoli

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Angelo Forgione – L’antico molo borbonico sul lungomare di Napoli rischia di collassare. Una testimonianza del passato, sopravvissuta al nuovo lungomare tardo-ottocentesco, che per puro caso non è crollata con la violenta mareggiata dello scorso ottobre. Da allora solo un lembo di pietra lo sostiene “in vita”, ma in otto mesi non è scattato alcun intervento di ripristino.
Al di là del suo valore storico, è anche una questione di interesse turistico, trattandosi di uno scorcio molto suggestivo, scelto dai turisti per fotografare il Castel dell’Ovo sullo sfondo.
La sensazione è che un altro colpo di mare butterebbe giù tutto, e il prossimo autunno non è lontano. Lo stiamo forse aspettando per poi piangere un altro scorcio di Napoli che fu?
Critiche, fatiscenti e pericolose sono anche le condizioni in cui versa da tempo il vicino molo della “colonna spezzata”, pure bisognoso di intervento.

Il lungomare di Napoli, privato della sua spiaggia a fine Ottocento, necessita di una seria riqualificazione che vada oltre la pur positiva pedonalizzazione.
Con Antonio Folle de Il Mattino, sono stato sul posto, ancora una volta, per sollecitare interventi. I finanziamenti pare che ci siano. È ora di operare.

Clicca qui per leggere l’articolo di Antonio Folle per Il Mattino

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SOS molo borbonico di via Partenope

Angelo Forgione – L’antico molo borbonico sul lungomare di Napoli rischia di collassare. Una testimonianza del passato, sopravvissuta al nuovo lungomare tardo-ottocentesco, che per puro caso non è crollata con la violenta mareggiata dello scorso novembre. Da allora solo un lembo di pietra lo sostiene “in vita”, ma in quattro mesi non è scattato l’urgente intervento di ripristino.
Al di là del suo valore storico, è anche una questione di interesse turistico, trattandosi di uno scorcio molto suggestivo, scelto dai turisti per fotografare il Castel dell’Ovo sullo sfondo.
Pare che i fondi per intervenire siano disponibili. Eppure la sensazione è che un altro colpo di mare butterebbe giù tutto. Lo stiamo forse aspettando per poi piangere un altro scorcio di Napoli che fu?
Critiche e fatiscenti anche le condizioni in cui versa da tempo il vicino molo della “colonna spezzata”, pure bisognoso di intervento.

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Il “Maschio Angioino”? È aragonese!

Angelo Forgione È uno dei monumenti simbolo di Napoli. È una delle testimonianze del Rinascimento italiano. È il Castel Nuovo, noto come “Maschio Angioino”, quantunque di angioino abbia davvero poco se non l’origine e qualche testimonianza architettonica, soprattutto interna. La prima edificazione è effettivamente dovuta a Carlo I d’Angiò, che nel 1266, sconfitti gli Svevi, si prese il trono di Sicilia e trasferì la capitale da Palermo a Napoli, all’epoca principale centro della Terra di Lavoro. La residenza della corte cittadina, a quel momento, era il normanno Castel Capuano, giudicato inadeguato alla funzione di corte di una capitale, e il Re decise di edificare un nuovo castello in prossimità del mare. Il Castrum Novum fu innalzato tra il 1279 e il 1282, ma Carlo I non riuscì a insediarvisi, cacciato da Pietro III d’Aragona in seguito alla rivolta dei Vespri Siciliani.
Le forme attuali si devono invece ad Alfonso V d’Aragona, che nel 1442 piegò la resistenza di Renato d’Angiò e trasferì immediatamente la capitale mediterranea dell’impero catalano-aragonese da Barcellona a Napoli. L’iberico si disinteressò della Catalogna e dell’Aragona, assegnate alle cure del fratello Giovanni, e si dedicò completamente al Regno di Napoli per farne un centro culturale di primaria rilevanza in Europa. Il Sovrano, uomo interessato alle lettere e alle arti, e perciò detto “il Magnanimo”, riversò sulla città partenopea fiumi di denaro per realizzare le necessarie opere pubbliche e suggellò il suo impulso urbanistico con il rifacimento dell’antica roccaforte capetingia, irrobustita dagli artisti catalani, guidati dall’architetto Guillem Sagrera. Gli iberici realizzarono cinque resistenti torri cilindriche, quattro in piperno e una in tufo, curiosamente somiglianti a quelle del forte provenzale di Saint-André a Villeneuve-lès-Avignon, al posto delle precedenti quattro squadrate. Furono invece dei maestri italiani della scultura ad impreziosire la facciata con un insigne arco trionfale di celebrazione del nuovo regno, esempio fondamentale della storia dell’arte rinascimentale italiana, ispirato alle antiche architetture romane. Per la realizzazione del portale marmoreo d’ingresso, re Alfonso avrebbe voluto Donatello a Napoli, ma il celebre fiorentino, impegnato a Padova nella fattura del monumento equestre al Gattamelata, dovette rifiutare l’incarico. La direzione dei complessi lavori fu quindi trasferita al milanese Pietro di Martino, che produsse un singolare arco doppio, uno sull’altro. In quello superiore avrebbe dovuto trovare posto un monumento equestre in bronzo dedicato a re Alfonso, sul modello di quello per il Gattamelata, iniziato da Donatello lontano da Napoli, ma limitato alla testa del cavallo per la morte dell’artista. Il fornice alto dell’arco rimase quindi vuoto, come lo si vede da sempre. La testa equina, in seguito, fu donata a Diomede Carafa, principale rappresentante della corte napoletana e amico di Lorenzo de’ Medici, che la installò nel cortile del suo palazzo di famiglia a San Biagio de’ Librai, dove restò fino al 1806, quando fu ri-donata al Real Museo (oggi Museo Archeologico Nazionale) e sostituita con una copia.
Il Castel Nuovo ospitò da subito una foltissima corte, tale da competere con quella fiorentina e degna dell’immagine che Alfonso voleva dar di sé in quanto Re di Napoli. Frequentarono la roccaforte reale i migliori uomini di cultura filosofica e letteraria del tempo, accolti da un sovrano che vi allestì una ricca biblioteca con opere di grande interesse e che diede vita, nel 1447, all’Accademia Alfonsina, la più antica delle accademie italiane. Per decreto, il Re sostituì il latino nei documenti e nelle assemblee con l’idioma napoletano antico, elevato a rango di lingua ufficiale del Regno, mentre lo contaminavano diversi termini catalani e castigliani pronunciati dai tanti iberici al seguito. Grazie a “Il Magnanimo” era nata la grande Cultura universale di Napoli, era nato l’Umanesimo e Rinascimento napoletano, diverso da quello fiorentino nei suoi aspetti, ma ugualmente fondamentale. Non celebrato sui libri di storia italiana di oggi perché stimolato da un sovrano di origine spagnola, la cui volontà di sentirsi napoletano è stata celata dietro l’italianità dei Medici di Firenze.
Il Castel Nuovo, bombardato dagli Alleati durante la Seconda guerra mondiale e ricomposto filologicamente nelle forme del Quattrocento, lo si continuerà pure a chiamare comunemente (e impropriamente) “Maschio Angioino”, ma fa bene all’identità napoletana sapere che in realtà, per come si mostra a noi, è un Maschio Aragonese.

Fiume di gente ad Aversa contro Campania avvelenata

aversaFranco Spinelli per LivioTV “Quando poi tratta di scegliere e di andare…te la ritrovi tutta con gli occhi aperti chè sanno benissimo cosa fare”, mai parole furono più appropriate, perché è in momenti come questi che la gente fa la “storia” come cantava De Gregori nella famosa canzone.
Un’autentica marea umana si è riversata nelle strade di Aversa per partecipare al grido di dolore lanciato nei giorni scorsi dal social network facebook: “la mia terra è avvelenata!”. All’appello hanno risposto migliaia di cittadini, molti i giovanissimi, provenienti da tutta la provincia di Caserta e da quella di Napoli. Nessuna sigla coinvolta nell’organizzazione dell’evento, nè partiti nè associazioni, un esempio lampante della capacità di “autorganizzazione dal basso” della nostra gente che troppo spesso, e incautamente, viene definita come sciatta e dedita ad atteggiamenti omertosi. L’indignazione è stata espressa con un lungo silenzio lungo tutto il percorso, dal Parco Pozzi all’Arco dell’Annunziata (Porta Napoli). Indignati per le emergenze ambientali e sanitarie che interessano gran parte del territorio campano – e che le istituzioni dimostrano di non voler prendere seriamente in considerazione – i cittadini di questa sventurata porzione di Terra di Lavoro hanno finalmente deciso di lanciare un messaggio forte alla camorra e alle istituzioni. Da tutte le parti un coro unanime: subito le bonifiche! Ovvio che non basta una, seppur straordinaria, manifestazione a risolvere il problema. E’ un passo importante, ora tocca a tutti essere costanti nel discutere e portare a conoscenza del problema ambientale una sempre più vasta fetta di popolazione. Siamo sulla buona strada. Non demordiamo!

Pulcinella e l’identità da ritrovare

Pulcinella si riprende la scena e lo fa a vico fico Purgatorio ad Arco, angolo di via Tribunali, con una scultura in bronzo che lo raffigura alta 2 metri e 30 centimetri, forgiata e regalata da Lello Esposito al Comune di Napoli. All’inaugurazione presenti, oltre allo scultore, l’intellettuale Jean Noël Schifano, il filosofo Aldo Masullo, il sindaco Luigi de Magistris, l’assessore all’Urbanistica Luigi De Falco e il regista teatrale Michele Del Grosso, promotore dell’iniziativa. Un’occasione per restituire finalmente alla maschera napoletana la sua vera identità che è filosofica, antropologica, esoterica, poetica e teatrale e non semplicemente folcloristica come quella che le è stata ricucita addosso, anche a causa di clamorosi errori di mostri sacri del teatro napoletano. «Pulcinella essere ermafrodito, Horus del popolo, figura esemplare del barocco esistenziale. Più si è napoletani e più si è universali… e sono molto felice di lasciare la torre Eiffel per una cosa autentica, vera e di filosofia che è Pulcinella», sottolinea il solito impeccabile Schifano. Gli fa eco il filosofo Aldo Masullo: «In nome della maschera di Pulcinella, togliamoci la maschera». Come dire, recuperiamo la nostra vera identità. E Pulcinella racchiude tutta la metafora.