S.O.S Galleria Umberto I

La Galleria Umberto I di Napoli, capolavoro della Belle Époque umiliato da 130 di sciatta e scellerata gestione. L’ho messa a confronto con la Vittorio Emanuele II di Milano, evidenziandone tutti i problemi. Su IL MATTINO, con Francesco Borrelli (Verdi) e Gianni Simioli, proseguiamo la battaglia per dare dignità al fu salotto di Napoli, proponendo interventi fattibili e certamente migliorativi.

Clicca qui per guardare il video.

La vera Amatriciana (abruzzese napolitana) verso il marchio STG

spaghettiamatriciana

Angelo Forgione – Ormai ci siamo quasi: tre mesi e la ricetta originale degli spaghetti all’Amatriciana di Amatrice, quella abruzzese di contaminazione napoletana, sarà riconosciuta dalla UE e tutelata da falsi e imitazioni.
La Commissione europea ha infatti pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue, la domanda di registrazione della vera “Amatriciana Tradizionale”, che sarà presto riconosciuta ufficialmente col marchio STG (Specialità Tradizionale Garantita) e protetta contro coloro che hanno declinato il piatto alla romana o a modo proprio.

Nella domanda presentata dal Comune di Amatrice, al punto 4.3., si chiarisce espressamente l’appartenenza della ricetta alla cucina montanara abruzzese e l’influenza napoletana:

Rielaborando ed arricchendo questa elementare preparazione pastorale [la gricia abruzzese] e con l’introduzione del pomodoro intervenuta all’inizio dell’800, la popolazione di Amatrice ha dato vita ad uno dei piatti più conosciuti della tradizione italiana.
Infatti, quando alla fine del 1700 i Napoletani, tra i primi in Europa, riconobbero i grandi pregi organolettici del pomodoro, anche gli Amatriciani, che ricadevano nella giurisdizione del Regno di Napoli fin dal XIII secolo, ebbero modo di apprezzarlo e con felice intuizione l’aggiunsero al guanciale stagionato che ha reso così succulenta una salsa per la pasta la cui fama ha varcato i confini nazionali per affermarsi anche nella cucina internazionale.

Erroneamente un po’ tutti attribuiscono l’Amatriciana alla cucina romana, ignorando che furono invece i pastori abruzzesi, con gli spostamenti stagionali della transumanza verso le campagne laziali, a far conoscere questa ricetta a Roma e dintorni.
La storicamente abruzzese Amatrice è oggi provincia della laziale Rieti per riorganizzazione geografica del fascismo, ma territorio appartenuto alla provincia de L’Aquila fino al 1927 e al Regno delle Due Sicilie fino ai plebisciti d’annessione del 1860, e dunque l’Amatriciana originale non ha nulla a che fare con Roma e l’antico Stato Pontificio, come ho spiegato a Radio Rai mesi fa.

Anni fa, quando iniziai a divulgare questa verità, gli ignoranti mi insultavano e deridevano. Oggi possono approfondire la storia dell’Amatriciana sul mio Il Re di Napoli (Magenes, 2019), dove ho definito questa prelibatezza “salsa nuziale del Regno di Napoli, felice matrimonio tra l’Appennino e la costa”.

 

Universiade Napoli2019, vince solo la Campania

universiade_napoli2019

Angelo Forgione – Tutto pronto per l’edizione numero 30 delle Universiadi nella città della prima università pubblica al mondo.
Niente giri di parole, però: i Giochi olimpici dello sport universitario che stanno per aprirsi a Napoli non sono una scommessa vinta dell’Italia ma esclusivamente della Campania.
La storia della preparazione all’evento è paradigmatica di una certa vicenda politica che è il caso di ricordare a tutti.

Non doveva essere Napoli la sede dei Giochi universitari 2019 bensì Brasilia, la capitale di un enorme stato sudamericano, che nel novembre del 2013 vinse la concorrenza dell’azera Baku e dell’ungherese Budapest. Dopo solo un anno, però, la città brasiliana rinunciò per problemi finanziari, costringendo la Federazione Internazionale Sport Universitari a trovare una nuova sede.
Ci vollero due anni perché si facesse avanti una sola città, Napoli, per raccogliere la rinuncia brasiliana.
La Regione Campania lavorò per ottenere l’investitura che, dopo le opportune verifiche sul posto da parte degli ispettori FISU e l’illustrazione della candidatura alla Presidenza del Consiglio dei ministri, fu ufficializzata a marzo 2016, con soli tre anni di tempo utile per organizzare l’evento e, soprattutto, per rimettere in sesto un disastro impiantistico epocale della Campania.

Le istituzioni locali contavano sull’appoggio del CONI e del Governo, ma capirono che avrebbero dovuto fare da sole quando da Palazzo Chigi avanzarono l’ipotesi di uno slittamento dell’evento. A Roma, fiutate le divergenze tra il governatore campano De Luca e il sindaco De Magistris, nessuno credeva che Napoli ce l’avrebbe fatta e la rottura si completò quando Regione Campania e Comune di Napoli comunicarono di voler tenere ferma la data del 2019. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti, giusto un anno fa, annunciò la decisione di restituire al territorio la gestione dell’evento, cioè di disinteressarsi all’organizzazione.

Oggi sembra un miracolo farsi trovare pronti senza aver fatto miracoli. 270 milioni di fondi pubblici stanziati dalla Regione Campania per la riqualificazione di impianti sportivi sul territorio regionale. Punta di diamante, il restyling del San Paolo, non più lo stadio della vergogna che è stato dal 1990 a qui, ma un impianto abbellito, più accogliente e arricchito di tecnologia moderna, quantunque sempre limitato strutturalmente.

Napoli ha fatto a tempo di record quello che non è riuscito a Brasilia, e quello che Roma non credeva riuscisse. Colta un’occasione unica anche per lasciare un’eredità e per la crescita della cultura sportiva in Campania, a patto che i rinnovati impianti siano curati come non in passato.

Il presidente del CONI Malagò, alla vigilia dell’apertura dei Giochi universitari, è onesto nel dire che «la Regione Campania ha avuto ragione a sostenere con forza e energia queste Universiadi». Idem Giorgetti: «la sfida è stata raccolta e vinta da altri, in particolare dalla Regione Campania».
Perché Napoli ha fatto sostanzialmente da sola, e lo rivendica, anche se concederà al Tricolore d’Italia le luci della ribalta nazionale, quelle della cerimonia d’inaugurazione pronte ad ammantare di bianco, rosso e verde i nuovi spalti orgogliosamente azzurri del San Paolo. Più per protocollo che per deferenza. Noblesse oblige.

Il Mezzogiorno sempre più Europa dei poveri

Angelo Forgione“Scurdammoce ‘o ppassato”, dice un’ecumenica canzone napoletana che richiamava il popolo del dopoguerra alla rinascita e alla riscoperta delle cose belle della vita. Utile esortazione all’oblio quando c’è da mettersi alle spalle un doloroso trascorso, se c’è un presente migliore da potersi godere. Ma il passato proprio non si può dimenticare quando è una ferita aperta. Il passato, quando è presente, preannuncia il futuro prossimo e quello remoto, e allora hai voglia a chiedere a un meridionale di dimenticarlo quando la “Questione meridionale” resta sempre aperta e si aggrava. Può semmai essere solo una battuta in una trasmissione comica della tivù nazionale per distendere il pensiero dopo un intervento di riflessione meridionalista, e va bene così.
Nessuna disputa regionale all’interno dei singoli Stati europei ha mai prodotto qualcosa che si avvicini, per ampiezza di territorio interessato e persistenza nel tempo, alla “Questione meridionale” italiana. Il fatto è che il dualismo d’Italia non ha eguali in Europa, per dimensioni e continuità di sedimentazione, e si fa più drammatica nel presente che sembra eternità.
A dirci quanto i meridionali non debbano dimenticare il passato ci pensa il prossimo bilancio a lungo termine dell’Unione europea, quello dei fondi 2021-2027, programmato sulla scorta delle statistiche Eurostat circa il PIL pro-capite delle regioni europee, che indicano ancora che Calabria, Sicilia, Puglia, Campania, Molise, Sardegna e Basilicata sono le più povere d’Italia, ma anche tra le ultime d’Europa, quelle con reddito pro-capite inferiore al 75% della media europea, messe meglio solo di qualche colonia francese d’oltremare e di alcune aree dell’est.
La situazione continua a peggiorare, poiché Sardegna e Molise, che nella scorsa programmazione erano un gradino più sù, tra le regioni “in transizione”, cioè tra il 75% e il 100% della media europea, retrocedono tra quelle “meno sviluppate”. E le cose non vanno meglio al Centro con il declassamento di Umbria e Marche.
Le regioni del Nord, invece, continuano a viaggiano a un PIL pressoché doppio, con Trentino-Alto Adige, Lombardia, Valle d’Aosta ed Emilia Romagna in testa a una situazione complessiva di relativo benessere.

pil_procapite_2018

Il Mezzogiorno è sempre più povero, aggravandosi la condizione di una delle macroaree più arretrate nell’ambito dell’Eurozona, la meno cresciuta nei primi venti anni del XXI secolo. Eppure oggi in Calabria, Sicilia, Puglia e Basilicata si estraggono e si raffinano buone percentuali del fabbisogno nazionale di petrolio, benzina, gasolio e gas. La Basilicata, ad esempio, è la regione più ricca di petrolio in Europa, ma la più spopolata d’Italia. Le royalties, le quote percentuali per lo sfruttamento dei pozzi che le compagnie petrolifere “concedono” alle casse regionali del territorio di estrazione, sono tra le più basse del pianeta, veramente inique rispetto al ritorno economico, non utili a una sensibile ricaduta virtuosa sul territorio di sfruttamento.
È evidente che qualcosa non torna in un Meridione che è sempre più una colonia energetica e commerciale da sfruttare, e sono i soldi. Il termometro di questa condizione di colonialismo interno è fornito dalla Sardegna, ora retrocessa, ma mai stata più solida delle altre regioni meridionali che ha raggiunto in fondo. Non lo era neanche nel 
2006, quando quelli dell’Unione Europea la pensarono diversamente e, conclusa la prima programmazione comunitaria del 2000, la esclusero dall’Obiettivo 1, il livello massimo di fondi strutturali destinati al recupero delle regioni europee meno sviluppate, per promuoverla tra quelle “in transizione”. I livelli di reddito e PIL pro-capite sardi erano leggermente più alti delle altre regioni del Sud solo per l’incidenza della Saras (Società Raffinerie Sarde) sulla percentuale di ricchezza prodotta nell’isola. La realtà è che, allora come oggi, la Saras Spa, alla quale va aggiunta la controllata Sarlux Srl, è nettamente e per distacco la prima azienda regionale per fatturato. I proventi delle attività della famiglia milanese Moratti vanno in Lombardia e tornano in Sardegna solo per quanto consumato sul territorio di produzione, ovvero un quarto della raffinazione complessiva. In un periodo di bilanci floridi, la Saras fece lievitare l’indice del prodotto interno lordo isolano senza alcun beneficio diretto sul posto, e privò di fatto la Sardegna dei fondi comunitari nelle programmazioni 2007-2013 e 2014-2020. E intanto la grande Isola restava molto più distante dal continente di quanto non dicano i circa 450 chilometri di Mar Tirreno da compiere per andare da Cagliari a Civitavecchia. La Sardegna è ancora l’unica regione d’Italia in cui non ci sono autostrade, ma solo strade a scorrimento veloce. Solo per il 2021, salvo ulteriori ritardi, è preannunciata la fine dei lavori della Strada Statale a scorrimento veloce Sassari-Olbia, prima autostrada che possa dirsi tale.
L’Unione europea, leggendo gli ultimi indici del PIL pro-capite, si è dunque accorta che la anche la Sardegna è sostanzialmente un territorio nel baratro, e l’ha automaticamente e giustamente declassata ad area “meno sviluppata” (insieme al Molise), assegnandole una fetta di fondi più cospicua, cosa che avrebbe meritato anche negli ultimi quindici anni. Retrocessione causata da una lunga serie di bilanci in rosso della Saras dal 2009 al 2015, motivo anche di cessione del pacchetto di maggioranza dell’Inter FC da parte di Massimo Moratti nel 2013, dopo aver indebitato il club pur di vincere e far morire di collera juventini e milanisti, e fine della storia nerazzurra della famiglia, che negli anni Sessanta, proprio mentre si realizzava la Saras a Sarroch, aveva già lasciato i colori milanesi per sposare quelli rossoblu del Cagliari Calcio, e consentire alla squadra dell’Isola di vincere lo storico scudetto. Un tricolore utile all’industria lombarda e alla politica democristiana per propagandare il “Piano per la Rinascita della Sardegna”, un processo di industrializzazione, programmato e pilotato dal Governo di Roma, col quale pezzi di un paradiso terrestre furono consegnati all’industria altamente inquinante, quella petrolchimica, che tuttora continua a produrre i suoi danni ambientali.
Oggi il Cagliari è in mano a Tommaso Giulini, ex consigliere d’amministrazione dell’Inter e altro milanese dell’industria chimica, la Floursid di Macchiareddu, che produce fluoroderivati inorganici a Macchiareddu con lo sfruttamento di una materia prima sarda, la fluorite del giacimento di Silius.
Il popolo sardo è evidentemente dipendente da fattori esterni, che falsano l’economia del territorio. La Saras, dopo la sequela di bilanci in rosso, ben sette, è tornata a far segnare il saldo positivo. Un bene, sì, ma soprattutto per la Lombardia, la regione del Comune di Milano e quello di Brescia, detentori congiuntamente del 50% del capitale di A2A, la Società per azioni che gestisce l’inceneritore di Acerra, nel Napoletano. Il che significa che parte degli utili dallo smaltimento dei rifiuti campani finiscono direttamente ai due municipi lombardi, che possono metterli a bilancio e reinvestirli sui loro territori. Così, grosso modo, va l’Italia, e vedimmo e nun c’ô scurda’.

La strage dei pini di Napoli

pini_posillipo

Angelo Forgione Circa duecento pini mediterranei sono stati abbattuti nella zona intorno al parco Virgiliano di Posillipo, tra viale Virgilio e via Tito Lucrezio Caro, e non solo, dopo il tempestoso vento che il mese scorso è costato la vita a uno studente universitario a Fuorigrotta.
Spariti interi filari stradali di alberi malati di un parassita, comparso a Napoli nel 2015 e ora avvistato anche a Roma. È la cocciniglia-tartaruga, originaria della zona sud-orientale del Nord America, che succhia la linfa e riempie le cortecce di funghi, portando alla morte di tronchi e radici. Radici, quelle dei pini, che sono comunque molto superficiali, orizzontali, e non adatte a resistere a forti venti come quelli che ormai interessano anche le nostre latitudini. Si chiamano appunto “mediterranei” questi pini, ma ormai il clima è diventato tropicale, porta parassiti lontani e i venti spirano a oltre 150 km/ora. Bisogna farci i conti.
Talmente superficiali le radici dei pini che ormai da anni hanno sollevato le strade della panoramica e unica Posillipo, in condizioni belliche. Non solo manto stradale dissestato ma anche marciapiedi divelti. Una volta, qui, vi correvano i bolidi della Formula 1. Il circuito di Posillipo si disputò tra il 1933 ed il 1962, ma poi le condizioni della superficie stradale divennero impraticabili, e lo spettacolo finì.
1100 pini piantati nel 1930, in pieno Ventennio fascista. Ora ne sono rimasti 600, quasi la metà, di cui 200 secchi e altri 200 destinati a morire tra un paio di anni, dicono gli agronomi. Ne restano altri 200, quelli in migliore condizioni nella parte alta di via Manzoni.
Alberi in ogni caso non adatti alle strade di città, sì, anche perché in ambito urbano un pino difficilmente raggiunge i 100 anni, e questi ne hanno già 80. Ma mettiamoci pure decenni di incuria, di mancate potature e opportune cure fitosanitarie del patrimonio arboreo per prevenire la proliferazione del parassita. Era già successo con le palme. Ora la strage è dei pini. Strage necessaria, a questo punto, ed è inutile gridare allo scandalo, perché erano in condizioni di salute gravi e l’intervento era di sicurezza, prima che ci rimettesse la vita qualcun altro e al comune toccassero grane e risarcimenti onerosi.
Il vero problema, ora, sono le prospettive. Andrebbero rimosse le ceppaie, eliminate le radici morte, e si dovrebbe rifare l’asfalto. Andrebbe ri-progettato il paesaggio con un intervento come quello del Ventennio, forse con specie di alberi dalle radici meno superficiali, per non ripetere l’errore. Ma in una città in grave dissesto di finanze non vi può essere riqualifica urbana così importante, non vi può essere quel necessario lavoro di concertazione con paesaggisti, urbanisti, Soprintendenza, Comune ed esperti del settore che una zona specifica per bellezza richiederebbe.
Lo scenario di Posillipo è mutato. Verrà la primavera, e poi l’estate, e il sole picchierà. E se non vi sarà intervento straordinario vi sarà per anni il deserto, e resteranno a vista le ceppaie dei tronchi, con le radici dei pini morti sotto il manto stradale-pedonale, che persisterà nelle condizioni di sconquasso in cui versa da decenni. Resterà, chissà per quanto tempo, il cimitero dei pini di Posillipo.

7 dicembre, apertura del Meeting D’Arte Internazionale Biennale di Napoli

Venerdì 7 dicembre, presso il Centro di Cultura Domus Ars di Napoli, in via Santa Chiara 10, prende il via il “Meeting D’Arte Internazionale Biennale di Napoli” che durerà sino al 17 dicembre. La manifestazione nasce dall’esigenza di valorizzare la Campania, da sempre fucina di talenti che unisce tradizione e innovazione in tutte le arti. Da Parthenope a Neapolis la città vanta eccellenze e primati unici al mondo. Un’occasione per evidenziare la creatività, la bravura, la dedizione, la tenacia dei giovani figli della nostra terra. E non solo.

Prenderanno parte al dibattito d’apertura, programmato per le ore 11:
Giuseppe Gaeta, direttore Accademia Belle Arti di Napoli;
Ferdinando Sorrentino, curatore e organizzatore dell’evento;
Domenico Sepe, Maestro d’Arte e direttore artistico dell’evento;
Giovanni Conzo, procuratore aggiunto della Repubblica di Benevento;
Luigi Sorrentino, presidente Gruppo Archeologi Terre di Palma Campania;
Federica Colucci, magistrato del Tribunale di Napoli.

Ospiti invitati al dibattito saranno:
Gaetano Daniele, assessore alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli;
Ferdinando Ceraso, avvocato del foro di Napoli;
Domenico Ciruzzi, presidente Fondazione Premio Napoli;
Gianfranco Gallo scrittore e critico;
Jean Noel Schifano, attore e drammaturgo;
Luca Signorini, primo violoncello del Teatro San Carlo;
Angelo Forgione, scrittore e giornalista;
Francesco Tranfaglia, presidente Associazione Carabinieri Sez. Salvo D’Acquisto;
Virginia Ciaravolo, presidente Associazione Mai Più Violenza Infinita;
Mario Di Costanzo, Formazione Socio/Politica Diocesi di Napoli.
Modera la giornalista Pina Stendardo.

Quattro intermezzi musicali del Maestro Angelo Mosca, accompagnato dalla voce di Carla Maria De Michele, scandiranno i tempi della conferenza.

Nel pomeriggio, ore 17, incontro con gli scrittori Angelo Forgione, Leandro Del Gaudio e Mariella Gargotta, con presentazione dei rispettivi libri.

PROGRAMMA
Mattina
ore 10,30: Vernissage
ore 11 – 13: Dibattito
Pomeriggio
ore 17: Incontro con gli autori
Angelo Forgione, scrittore e opinionista
Leandro Del Gaudio, scrittore e giornalista del Mattino
Mariella Gargotta, scrittrice e docente del Liceo Artistico di Napoli

Dal 7 al 17 di dicembre sarà possibile visitare la “Mostra di arti visive” dei Maesti d’Arte: Domenico Sepe, Michelangelo della Morte, Raffaele Sanmarco, Salvatore Russo, Alfredo Troise, e di altri importanti artisti del panorama nazionale e internazionale, unitamente alle opere di 90 studenti del Liceo Artistico Statale SS. Apostoli di Napoli che si metteranno in gioco con tecniche ed opere artistiche.

L’evento è curato dal dott. Ferdinando Sorrentino con direzione artistica del Maestro d’Arte Domenico Sepe.
La manifestazione è contro ogni tipo di organizzazione criminale.

biennale_napoli

Napoli tra tradizione e innovazione

Venerdì 12 ottobre, in un’affollata Casina Pompeiana, nella Villa Comunale di Napoli, si è discusso di Tradizione ed Innovazione all’evento organizzato da MAVV – Wine Arte Museum e patrocinato dal Comune di Napoli, con la partecipazione del mondo accademico locale e quelli di iOS Apple Developer Academy.
Il mio intervento si è dipanato dalla ferrea identità partenopea, che fa profonda tradizione, per giungere al difficile presente dell’innovazione, in cui le capacità locali sono enormi ma mortificate dalle condizioni minoritarie connesse a una irrisolta Questione meridionale.
Rivolgendomi all’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, promotore della trionfante petizione per il riconoscimento UNESCO dell’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani, nonché docente presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e l’Università Tor Vergata di Roma, ho raccontato all’intera platea di un mio confronto con il sociologo Domenico De Masi, il quale affermò che «i napoletani, negli ultimi 200 anni, hanno inventato solo la pizza, una boiata per avvinazzati, mentre tutto il mondo ha inventato i microprocessori».
«E invece – ho detto ai presenti – la FIFA, da otto anni, appalta i biglietti anticontraffazione dei Mondiali di Calcio a una factory di Arzano, che fornisce ticket con microprocessori contactless e antenna per identificazione a radiofrequenza e crittografia anticlonazione inseriti nella carta da stampare. I napoletani, da sempre, sono una risorsa per il mondo. Smettiamo di mortificarli. Piuttosto, diamogli gli strumenti economici, politici e burocratici, mettiamoli in condizioni paritarie rispetto al Nord, e poi rendiamo competitiva tutta l’Italia, e allora vedremo che anche da questo territorio ci sbalordiranno non solo in quanto a tradizione ma anche per innovazione».
apple_annurca_1apple_annurca_2
—–

Torna a segnare l’ora uno dei due orologi storici EAV dispersi

Angelo Forgione – Una piccola soddisfazione: uno dei due orologi storici dell’EAV andati dispersi viene fuori dal deposito in cui, pur restaurato, era rimasto imballato, e torna a vivere nel centro di Napoli, in via Depretis, non lontano da una delle collocazioni dei 40 esemplari originali. Ne dà comunicazione Felice Balsamo, membro dello staff del sindaco De Magistris, e la notizia guadagna spazio sui quotidiani cittadini.
Una vicenda da me seguita negli anni, e finalmente ecco un parziale epilogo positivo. Impossibile capire se si tratti dell’esemplare rimosso da piazza VII Settembre o quello una volta presente all’incrocio tra le vie Diaz e Toledo. Certo è che uno dei 12 esemplari sopravvissuti ai bombardamenti della guerra e smontati per restauro nel 2008 manca all’appello. Ora i pezzi sono 11.

Alberto Angela cittadino napoletano

Angelo Forgione – La differenza tra raccontare Napoli e offenderla? Vi sono scrittori senza identità per cui «a parte quella calcistica, Napoli non ha altre identità». Vi sono giornalisti di provocazione per cui «Napoli fa schifo». E poi vi sono divulgatori scientifici per cui «Napoli ha una cultura da primato mondiale».
In un’Italia siffatta, lo scrittore e il giornalista, tifosi in malafede, prendono gli applausi curvaioli di chi Napoli la disprezza di concetto, anzi di preconcetto, mentre il divulgatore scientifico prende la cittadinanza onoraria di Napoli. Perché è proprio così che funziona. Provate a raccontare Roma, Firenze e Venezia per la loro cultura e sarà tutto abbastanza normale. Provate a raccontare Napoli onestamente, per il suo patrimonio universale, e tutto diventerà eccezionale, fuori dagli schemi, meritevole.
Lo faccio anch’io, che la visibilità di Alberto Angela me la sogno, anche se i suoi autori hanno attinto pure dai miei libri, ma non è come farlo da forestiero. Se un napoletano divulga che Napoli è città prima, luogo fondamentale, si spacca la testa per scrivere libri e si spende quotidianamente per la missione, c’è persino il concittadino che gli dà del “tifoso”. Dell’ignoranza italiana m’importa relativamente poco. Mi ferisce di più l’ignoranza di certi napoletani, che non sanno a quale identità appartengono e di quale immensa cultura sono portatori.
Conoscetevi, napoletani senza Napoli, e prendetevi la fierezza che vi manca per migliorarla.

FuoriRoma racconta l’ossessione di De Luca per Napoli

Angelo Forgione – «Si Salierno tenesse ‘o puorto Napoli fosse muort’», dice qualcuno per un impulso competitivo sintomatico di un provincialismo litigioso e inacidito. Una rivalità unilaterale che Napoli ignora – non esistono detti napoletani contro Salerno – e che è implicita ammissione di un complesso d’inferiorità. Magari anche di Vincenzo De Luca, almeno così pare ascoltando Isaia Sales a FuoriRoma di Concita De Gregorio: «Una satrapia di provincia. Chiunque si è opposto è stato fatto fuori. È vendicativo. A Salerno c’è un sistema massonico senza massoni. De Luca, insediatosi alla Regione, ha continuato a comportarsi come se fosse il sindaco di Salerno, facendo leva su un leghismo in salsa meridionale, contro gli immigrati e i napoletani, e fa costruire una piazza di un metro più grande del Plebiscito».
Concita De Gregorio sintetizza la Salerno degli ultimi 25 anni: «È il principato di De Luca, diventato signore e padrone di un feudo che oggi governa dalla poltrona di presidente della Regione. Sa tutto, controlla tutto. E se occorre, punisce. Gestisce attraverso i figli e l’attuale sindaco un flusso incessante di denaro. […] Passerà Salerno, quando sarà il momento, che non sembra lontano, di congedare i principi, di risalire a ritroso all’origine dei soldi, di denunciare i compromessi e il malaffare, di ritrovare il vento e il colore del mare».
«Il Crescent è un mostro ecologico», aggiunge una nervosa Teresa De Sio. E poi altre voci a scatenare l’ira del presidente della Regione Campania, che si sfoga su facebook: “Dopo anni e anni di aggressioni, sempre dalla stessa rete pubblica, abbiamo assistito all’ennesimo atto di squadrismo mediatico, l’ennesimo stravolgimento della realtà. Interverremo in tutte le sedi”.
Concita De Gregorio ribatte che sia De Luca che il figlio Roberto, ex assessore comunale, erano stati più volte invitati a intervenire nel programma, ma rifiutando di essere intervistati.