L’inganno Nazionale

Angelo Forgione L’Italia di Mancini entusiasma agli Europei dopo le vacche magre della gestione Ventura, e i tifosi si appassionano tutti, da Nord a Sud. Persino Matteo Salvini, da sempre tifoso contro, è magicamente diventato tifoso degli Azzurri, anche se non casualmente indossa la maglia in versione verde.Effetto Nazionale, che nei percorsi vincenti genera euforia e crea un inganno, quello dell’unione del Paese, nascondendo le divisioni economiche e le cattive pulsioni territoriali, ma anche tutti i guasti dello stesso movimento calcistico italiano, vedi Calciopoli 2006.
È una forma di incoerente patriottismo a corrente alternata che si manifesta quando si svolgono le grandi competizioni internazionali per nazioni, in tutti gli sport. Un falso patriottismo a tempo che, quando si tratta di pallone, dura 90 minuti più recupero ed eventuali supplementari e rigori. Poi l’euforia e l’inganno si spengono e tutto torna alla realtà, almeno fino al prossima partita, sperando che non interrompa il campionato. Con buona pace dei meridionali, figli di quella parte marginalizzata ma non marginale della Penisola, la fu Magna Graecia dove è nata la civiltà italica e dalla quale proviene il nome Italia, che in tempi antichi fu la parte meridionale della Calabria.
E non venitemi a dire che le differenze territoriali si annullano quando gioca l’Italia. Non provate a sostenere che l’incultura discriminatoria, esistente in Italia, riguardi solo il tifo sportivo, perché altrimenti Riccardo Muti, salito giovane e sconosciuto da Napoli a Milano negli anni Sessanta, non sarebbe stato chiamato “il terrone” negli anni trascorsi tra le mura di un istituto culturale qual è un conservatorio, nella fattispecie meneghino.
No, non chiedetemi di slegare lo sport dal contesto sociale di cui è espressione solo perché l’Italia di Mancini vi sta facendo divertire dopo tante restrizioni pandemiche. L’oppio calcistico non lo fumo più dai tempi dell’indignazione nazionale per le porcherie di Calciopoli spenta dalla vittoria della Nazionale di Lippi, e lucidamente vi risponderei in terza persona citando un passaggio della prefazione scritta per il mio Dov’è la Vittoria dal maestro Oliviero Beha, uno che non slegava lo sport dal contesto sociale di cui è espressione:

“Lo “screanzato” Forgione ha fatto benissimo a osare. È un libro che ha diritto di cittadinanza tra quelli che finora raramente sono stati capaci di intrecciare il Calcio con la società che lo contiene e di cui è espressione macroscopica. Mi sarà e vi sarà utile prima come lettura e poi come consultazione, tra le molte cose che si dimenticano e quelle che si ignorano. Perché in realtà al centro del libro e della realtà che dispiega non c’è la palla, bensì noi stessi”.


interventi tratti dalla rubrica “Punto Nuovo Sport Show” (Radio Punto Nuovo)

E ora il condannato Sala fa la morale al Sud

Angelo Forgione E ora il sindaco di Milano, Beppe Sala, fa il moralizzatore del “Sud sprecone”. Nel corso del suo intervento al dibattito online promosso dal Partito Democratico e intitolato ‘Le risorse per lo sviluppo e la coesione dell’Italia – La nuova programmazione europea 2021-2027’, ha dato il suo consenso – bontà sua – alla concessione dei soldi dell’Europa al Mezzogiorno, a patto che tutto sia speso bene.

«Non ho nulla in contrario che vengano date più risorse al Mezzogiorno, ma è imprescindibile che ci sia preventivamente una dimostrazione del fatto che poi ci sono strutture atte al buon uso di queste risorse».

Lo dice colui che prima di essere eletto sindaco fu commissario unico dell’Expo di Milano del 2015, di cui sono arcinoti gli sprechi e gli appalti inquinati che resero necessaria l’istituzione dell’Associazione Nazionale Anticorruzione per vigilare, con un magistrato napoletano a capo, sulla trasparenza e sull’integrità dell’amministrazione pubblica e regolarizzare le ruberie per risolvere il grave danno di immagine generato dalle indagini sui numerosi reati contestati ai soggetti interessati al grande affare milanese. Così è diventato sindaco, Beppe Sala, poi prendendosi la condanna a sei mesi di reclusione, convertiti in una multa da 45mila euro, per falso ideologico e per la retrodatazione di due verbali per l’assegnazione del maxi appalto per la Piastra dei servizi dell’Expo, il più importante nell’organizzazione della Fiera internazionale. Vale la pena ricordare che, senza maxiappalti e senza sprecare una lira, la Napoli lontanissima dai fasti del suo antico regno fu incaricata nel 1993 di mostrare non solo il suo rango di capitale ma anche un volto diverso, efficiente, dell’Italia di Tangentopoli in occasione del G7 del 1994, di competenza dell’Italia delle vergogne che avevano come epicentro la “Milano da bere”. Ma è o non è la Lombardia la regione degli scandali e degli sprechi della Sanità? È o non è la Lombardia, come anche l’Emilia Romagna, tra le regioni che bruciano miliardi al vento per quei carrozzoni burocratici e per lo stuolo di municipalizzate, che non sono altro che appendici clientelari?È o non è il Piemonte, 4,3 milioni di abitanti, la regione che spende per i suoi servizi generali cinque volte di più della Regione Campania con i suoi 5,8 milioni di cittadini, e addirittura la regione che spende da sola di più di Campania, Puglia e Calabria messe insieme?È o non è l’Emilia Romagna la regione che spende esattamente il doppio della Puglia per suoi servizi generali, pur avendo sostanzialmente la stessa popolazione della regione meridionale?La propaganda dominante vorrebbe convincerci che c’è un Sud sprecone e lavativo, ma la verità è che gli sprechi ci sono dappertutto, nel Sud povero come nel Nord ricco. Il vero problema non sono gli sprechi del Sud ma la sperequazione che dura da quando è nata l’Italia. Un paese spaccato a metà in cui al Meridione sono state sistematicamente sottratte le risorse e, con esse, la possibilità stessa del futuro, come ampiamente testimoniato dai Conti pubblici territoriali.
Questa volta, però, i presidenti delle regioni del Sud, e tutti i meridionali, non dovranno lasciare che il partito unico del Nord trattenga nelle sue mani i fondi europei. E neanche che il manager di un grande scandalo milanese, per giunta condannato, gli faccia la morale.

Il Mezzogiorno sempre più Europa dei poveri

Angelo Forgione“Scurdammoce ‘o ppassato”, dice un’ecumenica canzone napoletana che richiamava il popolo del dopoguerra alla rinascita e alla riscoperta delle cose belle della vita. Utile esortazione all’oblio quando c’è da mettersi alle spalle un doloroso trascorso, se c’è un presente migliore da potersi godere. Ma il passato proprio non si può dimenticare quando è una ferita aperta. Il passato, quando è presente, preannuncia il futuro prossimo e quello remoto, e allora hai voglia a chiedere a un meridionale di dimenticarlo quando la “Questione meridionale” resta sempre aperta e si aggrava. Può semmai essere solo una battuta in una trasmissione comica della tivù nazionale per distendere il pensiero dopo un intervento di riflessione meridionalista, e va bene così.
Nessuna disputa regionale all’interno dei singoli Stati europei ha mai prodotto qualcosa che si avvicini, per ampiezza di territorio interessato e persistenza nel tempo, alla “Questione meridionale” italiana. Il fatto è che il dualismo d’Italia non ha eguali in Europa, per dimensioni e continuità di sedimentazione, e si fa più drammatica nel presente che sembra eternità.
A dirci quanto i meridionali non debbano dimenticare il passato ci pensa il prossimo bilancio a lungo termine dell’Unione europea, quello dei fondi 2021-2027, programmato sulla scorta delle statistiche Eurostat circa il PIL pro-capite delle regioni europee, che indicano ancora che Calabria, Sicilia, Puglia, Campania, Molise, Sardegna e Basilicata sono le più povere d’Italia, ma anche tra le ultime d’Europa, quelle con reddito pro-capite inferiore al 75% della media europea, messe meglio solo di qualche colonia francese d’oltremare e di alcune aree dell’est.
La situazione continua a peggiorare, poiché Sardegna e Molise, che nella scorsa programmazione erano un gradino più sù, tra le regioni “in transizione”, cioè tra il 75% e il 100% della media europea, retrocedono tra quelle “meno sviluppate”. E le cose non vanno meglio al Centro con il declassamento di Umbria e Marche.
Le regioni del Nord, invece, continuano a viaggiano a un PIL pressoché doppio, con Trentino-Alto Adige, Lombardia, Valle d’Aosta ed Emilia Romagna in testa a una situazione complessiva di relativo benessere.

pil_procapite_2018

Il Mezzogiorno è sempre più povero, aggravandosi la condizione di una delle macroaree più arretrate nell’ambito dell’Eurozona, la meno cresciuta nei primi venti anni del XXI secolo. Eppure oggi in Calabria, Sicilia, Puglia e Basilicata si estraggono e si raffinano buone percentuali del fabbisogno nazionale di petrolio, benzina, gasolio e gas. La Basilicata, ad esempio, è la regione più ricca di petrolio in Europa, ma la più spopolata d’Italia. Le royalties, le quote percentuali per lo sfruttamento dei pozzi che le compagnie petrolifere “concedono” alle casse regionali del territorio di estrazione, sono tra le più basse del pianeta, veramente inique rispetto al ritorno economico, non utili a una sensibile ricaduta virtuosa sul territorio di sfruttamento.
È evidente che qualcosa non torna in un Meridione che è sempre più una colonia energetica e commerciale da sfruttare, e sono i soldi. Il termometro di questa condizione di colonialismo interno è fornito dalla Sardegna, ora retrocessa, ma mai stata più solida delle altre regioni meridionali che ha raggiunto in fondo. Non lo era neanche nel 
2006, quando quelli dell’Unione Europea la pensarono diversamente e, conclusa la prima programmazione comunitaria del 2000, la esclusero dall’Obiettivo 1, il livello massimo di fondi strutturali destinati al recupero delle regioni europee meno sviluppate, per promuoverla tra quelle “in transizione”. I livelli di reddito e PIL pro-capite sardi erano leggermente più alti delle altre regioni del Sud solo per l’incidenza della Saras (Società Raffinerie Sarde) sulla percentuale di ricchezza prodotta nell’isola. La realtà è che, allora come oggi, la Saras Spa, alla quale va aggiunta la controllata Sarlux Srl, è nettamente e per distacco la prima azienda regionale per fatturato. I proventi delle attività della famiglia milanese Moratti vanno in Lombardia e tornano in Sardegna solo per quanto consumato sul territorio di produzione, ovvero un quarto della raffinazione complessiva. In un periodo di bilanci floridi, la Saras fece lievitare l’indice del prodotto interno lordo isolano senza alcun beneficio diretto sul posto, e privò di fatto la Sardegna dei fondi comunitari nelle programmazioni 2007-2013 e 2014-2020. E intanto la grande Isola restava molto più distante dal continente di quanto non dicano i circa 450 chilometri di Mar Tirreno da compiere per andare da Cagliari a Civitavecchia. La Sardegna è ancora l’unica regione d’Italia in cui non ci sono autostrade, ma solo strade a scorrimento veloce. Solo per il 2021, salvo ulteriori ritardi, è preannunciata la fine dei lavori della Strada Statale a scorrimento veloce Sassari-Olbia, prima autostrada che possa dirsi tale.
L’Unione europea, leggendo gli ultimi indici del PIL pro-capite, si è dunque accorta che la anche la Sardegna è sostanzialmente un territorio nel baratro, e l’ha automaticamente e giustamente declassata ad area “meno sviluppata” (insieme al Molise), assegnandole una fetta di fondi più cospicua, cosa che avrebbe meritato anche negli ultimi quindici anni. Retrocessione causata da una lunga serie di bilanci in rosso della Saras dal 2009 al 2015, motivo anche di cessione del pacchetto di maggioranza dell’Inter FC da parte di Massimo Moratti nel 2013, dopo aver indebitato il club pur di vincere e far morire di collera juventini e milanisti, e fine della storia nerazzurra della famiglia, che negli anni Sessanta, proprio mentre si realizzava la Saras a Sarroch, aveva già lasciato i colori milanesi per sposare quelli rossoblu del Cagliari Calcio, e consentire alla squadra dell’Isola di vincere lo storico scudetto. Un tricolore utile all’industria lombarda e alla politica democristiana per propagandare il “Piano per la Rinascita della Sardegna”, un processo di industrializzazione, programmato e pilotato dal Governo di Roma, col quale pezzi di un paradiso terrestre furono consegnati all’industria altamente inquinante, quella petrolchimica, che tuttora continua a produrre i suoi danni ambientali.
Oggi il Cagliari è in mano a Tommaso Giulini, ex consigliere d’amministrazione dell’Inter e altro milanese dell’industria chimica, la Floursid di Macchiareddu, che produce fluoroderivati inorganici a Macchiareddu con lo sfruttamento di una materia prima sarda, la fluorite del giacimento di Silius.
Il popolo sardo è evidentemente dipendente da fattori esterni, che falsano l’economia del territorio. La Saras, dopo la sequela di bilanci in rosso, ben sette, è tornata a far segnare il saldo positivo. Un bene, sì, ma soprattutto per la Lombardia, la regione del Comune di Milano e quello di Brescia, detentori congiuntamente del 50% del capitale di A2A, la Società per azioni che gestisce l’inceneritore di Acerra, nel Napoletano. Il che significa che parte degli utili dallo smaltimento dei rifiuti campani finiscono direttamente ai due municipi lombardi, che possono metterli a bilancio e reinvestirli sui loro territori. Così, grosso modo, va l’Italia, e vedimmo e nun c’ô scurda’.

La nazionale specchio dell’Italia? Speriamo di no!

La nazionale specchio dell’Italia? Speriamo di no!

la bacchetta magica che ha cancellato tutti i problemi

Angelo Forgione – C’era da tramere alla notizia dell’invito della nazionale di calcio al Quirinale. Atto giusto dal punto di vista sportivo, dovuto, ma “pericoloso” viste le ombre che avevano accompagnato gli azzurri alla vigilia dell’Europeo e che una finale non cancella. E il presidente della Repubblica Napolitano ha dato corpo ai timori con un discorso preparato a tavolino pregno di retorica e strumentalizzazione. «C’è molta strada da fare, c’è da cambiare molto per cambiare e rinnovarsi fino in fondo. Abbiamo alle spalle dei momenti difficili». Poi l’espressione si fa teatrale. «Certe volte, quando dico queste cose, mi domando: sto parlando del calcio o sto parlando dell’Italia? Badate bene che i discorsi si assomigliano molto ed è per questo che c’è stata grande presa sugli italiani per questa straordinaria impresa».
Nazionale specchio dell’Italia? Speriamo di no! La nazionale è solo lo specchio del calcio italiano sempre vivo e competitivo nonostante gli scandali e la crisi, un calcio in cui il Paese non dovrebbe specchiarsi anche se lo fa spesso. I calciatori della nazionale, a differenza di milioni di italiani, non si specchiano nella crisi e non ne patiscono gli effetti. Non conoscono la disoccupazione e possono consentirsi di rinegoziare i loro già lauti compensi in base agli eventi. Ecco perchè la retorica di Napolitano è fuori luogo e può solo far male.
Già le prime condanne del processo sportivo di “scommessopoli” erano state morbide e ricche di patteggiamenti, all’italiana cioè. Poi l’oblio “azzurro” che ha cancellato con un colpo di spugna i problemi della Nazione e quelli del calcio nazionale. Sotterrati i fischi all’inno di napoletani, spagnoli e croati, ognuno con le proprie motivazioni. Un calciatore è divenuto giudice e redentore del primo ministro: Buffon, intervistato da Mediaset (minuto 26:22), ha così detto di Monti che aveva proposto la chiusura del campionato per tre anni: «Non dobbiamo perdonare nessuno e io non ho sentito cosa ha detto». Qualche metro più in là Bonucci, proprio lui, compiaciuto per aver restituito al Paese l’orgoglio nazionale (minuto 25:28).
Potere del pallone che rotola in un paese calciocentrico e che se lo si fermasse per tre anni risveglierebbe l’attenzione degli italiani nei confronti di problemi e mali. Tutti ai piedi dei calciatori, partiti per gli europei tra le polemiche e tornati sul red-carpet. Tutti ad ascoltare il premier Monti che si prende 6 minuti di diretta TV e annuncia, chissà su quali certezze, che gli enormi sacrifici imposti al popolo e non ai ricchi, tantomeno ai calciatori, stanno per pagare mentre il giornalista Amedeo Goria poneva timidamente la “fatidica” domanda al manovratore («gentilmente, può dirci quando ne uscirermo?»). Tutti a santificare il pianto di un Bonucci indagato dalla procura per calcioscommesse pur restando “azzurro” mentre un suo collega veniva punito. Tutti di nuovo convinti di un’unità nazionale che esiste solo nelle parole del Presidente della Repubblica che, dopo aver scritto prima e confermato a voce poi che gli azzurri rappresentano gli italiani nelle crisi da superare, dimostra quanto il calcio sia strumento politico. Ci aveva offerto emozionanti abbracci e sincera stima all’esempio morale italiano che non ha voluto chiarire a cosa sia servito un milione e mezzo versato ad un tabaccaio per poi indicare alla Spagna e non alla Croazia la via dell’onestà. Aveva scritto a Prandelli di aver apprezzato tanto la sobrietà e serietà dei suoi commenti “senza retorica, ma non è forse questo il discorso da fare per l’Italia e per la sua Nazionale di calcio?». Già, senza retorica… una parola!
Ci uniamo al fronte di quelli che avrebbero accolto la vittoria della nazionale senza altri condimenti, quelli che non ci stavano e non intendono starci al tocco di bacchetta magica orchestrato da istituzioni politiche e calcistiche con la complicità di una certa stampa. Da Travaglio a Grillo ai “No Tav”, ognuno coi suoi motivi e con le sue provocazioni discutibili, ma tutti con ragioni sacrosante. Il calcio fa sempre più paura e si dimostra strumento di distrazione di massa che prima divide e poi finge di unire. Leggere attentamente le avvertenze e le modalità d’uso.

Il destino comune dei portieri azzurri… o quasi

Il destino comune dei portieri azzurri… o quasi

stesse reazioni, reazioni diverse

C’è un portiere, professionista esigente, che in Napoli-Lecce dello scorso Gennaio si era sfogato dopo un goal di un proprio compagno di squadra che aveva messo fine ad una partita da chiudere molto prima, e fu crocifisso. Anche a Parma, due mesi dopo, quel portiere non reagì con gioia al goal di Cavani scaturito da un rigore fallito, scuotendo la testa e sbuffando, dimostrando anche in quella occasione di pretendere minori sofferenze. C’è un altro portiere che si è infuriato ben più platealmente per lo stesso motivo dopo Italia-Germania dimostrando il suo disappunto, ironia della sorte, proprio all’indirizzo del protagonista del primo episodio. E nessuno ha sollevato dubbi e polemiche.
Inutile sottolineare che l’errore non è nel secondo caso ma nel primo; e per dimostrarlo era partito da qui un contributo che fece cervelloticamente impuntare la società del secondo portiere.

È il giorno degli spaghetti, della pizza e del mandolino

È il giorno degli spaghetti, della pizza e del mandolino

si è sempre meridionali di qualcuno… e carnefici della Germania

Angelo Forgione per napoli.com L’italia divisa batte la Germania unita, SuperMario (Monti) batte Angela, i truffaldini battono gli onesti, e via andare…  ma quel che più importa è che i “Gastarbeiter”, gli emigranti italiani di Germania, vivano oggi il loro più classico “giorno dopo” da leoni. Quando il bianco-nero prussiano incontra il blu Savoia è sempre la stessa storia, calcistica ovviamente. “Non vincete mai” cantano gli italici. Ma cosa c’è nel karma pallonaro del popolo germanico? Che colpa hanno da espiare nei confronti degli italiani? Forse è solo la presunzione di ogni vigilia, più le prendono e più la loro voglia di vendetta aumenta. Cosa diranno e scriveranno il giorno in cui riusciranno a vincere?
Oggi sfornino pizze in quantità industriale i Gastarbeiter, che non saranno mai al capolinea. Attorciglino spaghetti macchiati di rosso pomodoro e tirino fuori i mandolini e tutta la voce che hanno per cantare in faccia all’omone dal calzino bianco nel sandalo col boccale in mano.
Il potere della nazionale è tutto qui, nel riuscire ad accomunare retoricamente nella buona e nella cattiva sorte. E quella cattiva sorte provoca anche un sottile piacere nel vedere raggruppati tutti gli italiani sotto i colpi del pregiudizio. Quando gioca l’Italia, il luogo comune all’italiana del Nord verso il Sud diventa quello tedesco verso l’italiano perchè, come disse Bellavista, si è sempre meridionali di qualcuno. Spaghetti, pizza, mandolino e mafia… deutsch grida a italienisch ciò che padania grida a terronia.
Magica nazionale italiana di calcio, capace di far dimenticare tutto. L’azzurro, che in realtà è blu, genera sindrome cognitiva amnesica. Chissà quanti di quelli che in tempi non sospetti hanno gridato “se saltelli muore Balotelli” ne hanno già fatto un eroe partigiano che ci ha liberato dai tedeschi. Nel cassetto chiuso della memoria anche le rivalità “guelfoghibelline” e le offese razziste, perchè chi tifa a Napoli e a Milano tifa lontano, ed è piuttosto il contatto a creare i presupposti per i fischi all’inno nazionale. Si dimentica di tutto e molto di più, ma tant’è, a più d’uno non interessa di fronte alla possibilità di festeggiare, strombazzare, fare “ammuina”, trovare la valvola di sfogo che fa pure bene in tempi cupi come questi.
Poi magari finisce anche come nel 2006 che l’Italia vince a braccetto con gli scandali, spinta dai goal di un palermitano di colore figlio di immigrati ghanesi. Perchè no? Siamo un popolo di truffatori-vincitori. Pardon per il luogo comune, siamo anche un popolo di onesti-perdenti senza onori. Ma è vero che più solleviamo polemiche e scandali e più alziamo trofei. Giusto o meno che sia, se vincono gli spaghetti, la pizza e il mandolino vince in fondo Napoli.

Stadio “San Paolo” ferro vecchio

Napoli e il paese pagano ancora gli scandali di “Italia 90”

Angelo Forgione per napoli.com Dura da cinque anni il dibattito su un nuovo stadio a Napoli. Nuova realizzazione o demolizione e ricostruzione del “San Paolo”, un ping-pong di idee che restano tali. All’orizzonte ancora un grosso punto interrogativo e l’unica certezza è che neanche il tanto richiesto tabellone può essere installato nel fatiscente impianto di Fuorigrotta. Il terzo anello è inagibile, andrebbe smontato prima di piazzare il display elettronico. Inagibile nel senso che è l’unica parte di Fuorigrotta ben piazzata al suolo mentre tutto intorno trema. Quando i tifosi vi accedevano, ad ogni goal del Napoli provocavano vibrazioni che si propagavano attraverso i sostegni della copertura, scendendo a terra e raggiungendo i palazzi circostanti. Veri e propri micro-terremoti che hanno aperto anche lesioni negli appartamenti prima che la commissione provinciale di Vigilanza, nel 2005, intervenisse a inibire l’accesso agli spalti in acciaio durante le partite di calcio. Finì anche l’epoca dei concerti con l’allarme lanciato nel Luglio del 2004 durante l’esibizione di Vasco Rossi quando alle 21.30, orario d’inizio, il segnale monocromatico dell’osservatorio cominciò a registrare un “fenomeno di rilievo” lungo quanto tutto il concerto. Ballavano i fans del “Blasco” ma anche i residenti di Fuorigrotta che abbandonarono le loro case. Un “miracolo” di ingegneria da dimenticare nato nel 1988 dall’esigenza di una copertura rivelatasi inutile da subito. Un disastro estetico partorito per una costosa, sproporzionata e brutta struttura in ferro costruita secondo criteri climatici nord-europei, una copertura alta con aperture laterali che non teneva in considerazione la direzione di caduta delle piogge mediterranee, ventose e quindi non perpendicolari ma trasversali.
Quei lavori pregiudicarono l’impianto, stravolgendo l’opera architettonica originale dell’architetto razionalista Carlo Cocchia e tutta l’armonia stilistica del quartiere legata alle altre strutture similari e contemporanee (Arena Flegrea, fontana dell’Esedra, edifici della Mostra d’Oltremare e facoltà di Ingegneria), alcune delle quali firmate dallo stesso architetto. Eppure il progetto di adeguamento del 1988 fu preparato da Fabrizio Cocchia, figlio di Carlo, con la supervisione del direttore dei servizi tecnici del “Comitato Organizzativo Locale” Paolo Teresi, e consegnato all’architetto Giuseppe Squillante che lo migliorò pensando ad una copertura più elegante e più economica di quella poi realizzata  (clicca sull’immagine a lato). Della bellezza e, soprattutto, del risparmio non importava a nessuno e il vantaggioso taglio di spese falciò le gambe a Squillante cui fu revocato l’incarico. L’interess
e sovrano era il ferro perchè la gara d’appalto prevedeva un costo fisso del materiale al chilo e uno variabile in base a quanto ne fosse stato utilizzato. Più se ne impiegava e più si guadagnava. Il progetto di Squillante prevedeva circa 2 milioni di chili di ferro, troppo pochi rispetto ai circa 8,5 milioni poi riversati attorno al “San Paolo”. L’architetto dovette farsi da parte, consapevole dello scempio che si stava per compiere. La magistratura napoletana piombò ben presto sulla vicenda accusando 11 tra politici e costruttori di aver fatto elaborare agli uffici tecnici comunali un progetto di massima con costi contenuti poi portato all’approvazione del consiglio comunale e al ministero per i finanziamenti, per poi indicare come indispensabili delle costose varianti di stravolgimento del progetto originale che tali invece non erano. Un ingente danno patrimoniale per il Comune che fu costretto ad affrontare una spesa di gran lunga superiore a quella preventivata, dai 51 miliardi di lire iniziali del progetto Squillante ai 140 miliardi finali. Il processo durò 14 anni e si concluse con assoluzioni e prescrizioni. A dare ragione a Squillante sono stati però i napoletani, legati affettivamente ad un tempio che però non piace più a nessuno, e i tecnici giapponesi che, giunti a Napoli per fare tesoro degli errori italiani in vista dei mondiali del 2002, si complimentarono per il suo progetto iniziale.
I problemi principali del “San Paolo” sono dunque il terzo anello e la copertura che dovrebbero essere smontati, cancellando di fatto gli interventi del 1990, ma i soldi non c’erano nel 2005 e non ci sono oggi. Occorrono almeno 7,5 milioni di euro per eliminare le “avveniristiche” strutture dello stadio, costo da abbattere solo regalando il materiale a chi le smonta. Il problema è che nessuno vuole farlo; quel metallo non fa gola a nessuno, neanche ai cinesi che pure hanno smantellato alcune strutture delle acciaierie di Bagnoli.
Resta il problema della ferraglia, e allora niente tabellone. L’ultima indicazione riferisce della realizzazione a spese del Napoli di uno speciale display con informazioni testuali che correrebbero a 360° lungo l’anello circolare del secondo anello. Un dibattito infinito, anche triste se si pensa che quelli in corso potevano essere i campionati Europei di calcio in Italia. Sei anni fa si formularono idee per un nuovo stadio a Miano e invece nel 2007 la spuntarono Polonia e Ucraina per l’organizzazione. Il presidente della Federcalcio Giancarlo Abete parlò di scelta di politica internazionale di fronte alla quale bisognava dimostrare di poter ristrutturare gli stadi anche senza l’assegnazione degli Europei. Non è accaduto, e in pochi avevano dubbi. Non che nei due paesi ospitanti dell’est non ci siano stati problemi, ritardi e malaffare ma gli stadi costruiti o rifatti fanno comunque impallidire quelli italiani sempre più vecchi e inadeguati, testimoni di un’occasione sprecata nel 1990. Tutti avanzano, l’Italia resta ferma.
Lo stato dell’arte italiano in tema di stadi è catastrofico. Gli unici due impianti costruiti ex-novo per “Italia ’90” furono il “Delle Alpi” di Torino e il “San Nicola” di Bari. Il primo già demolito per inadeguatezza e sostituito dallo “Juventus Stadium”, l’unico impianto moderno d’Italia che però ha trasformato con una magica variante urbanistica un’area pubblica in “zona urbana di trasformazione”, praticamente un interesse privato. Partendo dalla concessione di 349mila metri quadri per 99 anni alla Juventus in cambio di 25 milioni di euro, cioè meno di un euro al metro quadro annui. Una seconda variante ha concesso di costruirvi vicino due centri commerciali previo pagamento di un milione di euro e il sodalizio degli Agnelli ha ammortizzato tutti i costi coinvolgendo un’impresa cooperativa e accedendo a due mutui di prestito per complessivi 60 milioni di euro presso l’Istituto per il Credito Sportivo, una banca pubblica e quindi finanziata da soldi dei contribuenti.
Bello quanto si vuole il “San Nicola” di Renzo Piano  ma inutile quanto il “Delle Alpi”, sempre semivuoto, privo di servizi, posizionato in una zona desolata e pregiudicato dalla pista d’atletica che all’epoca era il presupposto fondamentale per accadere ai finanziamenti del CONI.

Il paradosso è che il conto per quella manifestazione lo stiamo pagando ancora. Nel bilancio di previsione di Palazzo Chigi del 2011 figurava ancora una voce riferita ai mutui accesi con la legge 65 del 1987 per costruire gli stadi di “Italia 90”: 55 milioni di euro stanziati per pagarne una parte. E nel 2010 ne erano stati messi in bilancio altri 60. Il totale di spesa per quegli stadi lievitò fino a 1.248 miliardi di lire (645 milioni di euro), l’84% in più dei costi preventivati. Per tutta l’organizzazione furono spesi 6.868 miliardi di lire senza completare tutte le opere, a fronte dei 3.151 previsti. Non solo stadi mal costruiti, anche stazioni ferroviarie inutili, terminali di aeroporti abbandonati, alberghi mai completati e solo ora demoliti, sale stampa smontate dopo un solo match, senza contare le numerose vittime nei cantieri dove le condizioni di sicurezza erano veramente minime. Una cascata di denaro pubblico e privato all’italiana funzionale a un modello di edilizia fatto di stadi, strutture fatiscenti e appalti a costi crescenti. Solo il “Delle Alpi” di Torino lievitò del 214% e costò 226 miliardi di lire andati in polvere sotto i colpi delle ruspe dopo soli vent’anni di costi di manutenzione stratosferici. Il “Sant’Elia” di Cagliari, dopo soli dieci anni, rischiava il crollo e nel 2002 il presidente del Cagliari Cellino ha pensato di costruire delle tribune provvisorie proprio sopra la pista di atletica; uno stadio nello stadio, un aborto. Le tribune provvisorie sono divenute definitive e di recente la Commissione di Vigilanza ha alzato la voce mentre il sindaco di Cagliari Zedda ha puntato i piedi contro Cellino che per 7 anni non ha pagato una lira per l’uso della struttura. E così il Cagliari ha abbandonato lo stadio di casa per andare a giocare a Trieste. Dal 16 Maggio il “Sant’Elia” è stato chiuso definitivamente per inagibilità e Cellino ha avviato “deliberatamente” la realizzazione di un nuovo modesto impianto a Quartu Sant’Elena dove verrano spostate le tribune in tubi innocenti smontate dal “Sant’Elia”. Non è la soluzione ma la creazione di un altro problema.  E mentre nel mondo sorgono dappertutto impianti moderni, questo sarà l’emblema del regresso italiano.
E così, mentre a Napoli ci si gingillava pensando a come installare un tabellone che non si poteva installare, la Polonia e in parte l’Ucraina ci davano una lezione di edilizia sportiva. Un po’ dappertutto si pensano o si progettano timidamente nuovi stadi senza gli strumenti di legge idonei. La Camera discute la normativa e l’affida alla commissione cultura di Montecitorio. Nel frattempo il premier Monti legge i bilanci di previsione e si accorge che l’Italia sta ancora pagando gli appalti gonfiati dei mondiali del ’90, impallidisce, pensa alle Olimpiadi del 2004 in Grecia che hanno contribuito a portare il paese ellenico nel baratro e decide alla fine di negare la candidatura romana alle Olimpiadi del 2020. Tutti delusi per un’occasione persa per un paese che attraversa una crisi fortissima. O forse scampato pericolo. Il ricordo di ciò che “seppe fare” il famigerato “Comitato Organizzativo Locale” guidato da Luca di Montezemolo è ancora vivo, e l’azzardo UEFA a favore di Ucraina e Polonia che partivano da zero lo testimonia. Già marchiata da “tangentopoli”, l’italia era all’epoca in piena “calciopoli”; dopo cinque anni è passata a “scommessopoli”.

Fischi spagnoli e croati dopo i napoletani, è protesta!

Fischi spagnoli e croati dopo i napoletani, è protesta!

il capofamiglia, i figli maleducati, la pecora nera e il condominio

Napoletani, spagnoli, croati. Questa è la consecutio dei fischi all’inno di Mameli che è ormai un caso internazionale, non più solo nazionale. Politici e uomini di spicco del nostro sport sono sull’orlo di una crisi di nervi. E allora Gianni Petrucci, presidente del CONI, ha mosso i primi passi ufficiali, chiedendo alla Federcalcio di pretendere sanzioni dall’UEFA. Così il direttore generale della FIGC Antonello Valentini ha inviato un esposto a Platini e soci che tira in ballo anche i fischi dei napoletani. “C’è forte rammarico da parte nostra – si legge – nel vedere che gruppi di tifosi spagnoli a Danzica e croati a Poznan hanno fischiato il nostro inno. Sono episodi deprecabili. Non dimentichiamo che lo stesso è successo anche in Italia, quando c’è stata la finale di Coppa Italia a Roma, ma ciò non ci esime dall’esprimere un forte rammarico e dispiacere, sentito dalle autorità italiane sportive e non sportive. Ogni valutazione ora è nelle mani della Uefa”.
In sostanza la FIGC, proprio l’entità governativa sportiva che non fa rispettare a tutti i livelli le regole contro il razzismo, e che per questo (e non solo) causa i fischi all’inno nazionale da parte napoletana, confeziona un comunicato in cui sostanzialmente dice “si, sappiamo che l’inno ce lo siamo fischiato anche tra di noi, ma…”, ammettendo quei fischi come colpa italiana e non come colpa istituzionale propria. Immaginiamo che un padre di famiglia, chiassosa e maleducata, abbia il compito di educare dei figli, tutti insolenti, e lo faccia senza applicare lo stesso zelo per tutti. Uno dei figli, dopo anni di denigrazione da parte dei fratelli, esplode e finisce per protestare vibratamente; lui se la prende con quel figlio ribelle per la rimostranza. Poi quello stesso padre viene contestato anche dai vicini di casa per la maleducazione e la chiassosità della sua famiglia e va a protestare dall’amministratore del condominio dicendo che sa bene che uno dei suoi figli ha alzato la voce, ma ciò non lo esime dall’esprimere un forte rammarico e dispiacere per le proteste degli altri. Quel capofamiglia fa bene a pretendere il rispetto ma solo dopo averlo dato, e soprattutto dopo aver riflettuto sui proprio errori. Petrucci, Abete, Valentini, Schifani ancora non si sono chiesti perchè i napoletani hanno fischiato e ora dovrebbero domandarsi perchè spagnoli e croati hanno osato.
Insomma, protesta lecita e giusta nel principio, ma un po’ meno dal punto di vista etico. Quantomeno incoerente da parte di chi (Petrucci) non ha mai chiesto alla Federcalcio di sanzionare i cori razzisti e non si è mai indignato per i fischi italiani agli inni stranieri, da quello francese a Milano nel 2007 a quello argentino a Roma nel 1990 quando era Segretario Generale della stessa Federcalcio. Un po’ più coerente riflettendo sul commento di Petrucci alla paventata scritta “30 sul campo” sulle maglie della Juventus: «le regole sono fatte per essere interpretate»… mica rispettate?!
Francamente stufa dover ascoltare le dichiarazioni che arrivano dalla delegazione azzurra agli Europei. Dopo il pareggio contro la Croazia, Gianluigi Buffon ha posto le mani avanti circa la possibilità del “biscotto” tra spagnoli e croati nel terzo e decisivo turno del girone. «Spagna e Croazia – ha detto il portiere azzurro – non finirà in pareggio perchè gli spagnoli hanno un pedigree che non permette l’etichetta di antisportività e farebbero ridere l’Europa». Per Buffon, gli spagnoli sarebbero una garanzia e forse non sa, o finge di non sapere, che i biscotti li fanno anche loro, chiedere al Villarreal che ha pagato con la retrocessione l’accordo in campo tra Granada e Rayo Vallecano. Ma ammesso che gli spagnoli siano integerrimi, i croati cosa sono per Buffon, truffatori? Se i vertici della Federcalcio croata gli chiedessero le scuse per la mancanza di rispetto nei loro confronti farebbero pure bene. Non possono farlo per via della procedura dell’UEFA nei loro confronti causa razzismo dei tifosi croati, anche loro. E con quale sfrontatezza un calciatore italiano si consente di parlare di correttezza invocandola per garantirsi l’allungamento della propria esperienza agonistica? Buffon, per chi ha memoria corta, è lo stesso portiere che, dopo aver ricacciato via la palla di Muntari ben oltre la linea di porta nel rovente Milan-Juventus di Febbraio, ha detto che pure se si fosse accorto che la palla era dentro non lo avrebbe ammesso. Più che onestà, trattasi di coerenza! Ed è anche lo stesso portiere della Juventus che, per difendere il suo allenatore coinvolto nello scandalo del calcioscommesse, ha detto che «chi conosce il calcio sa che in certi casi è meglio due feriti che un morto». Più che di onestà, trattasi di coerenza! Ora ci racconta che gli spagnoli, solo loro, hanno un pedigree che non gli permette di far ridere l’Europa con l’etichetta di antisportività. Se uno più uno fa due, per la proprietà transitiva delle frasi di Buffon, Conte non ha il pedigree dell’onestà.
Sarà mica per tutto queste vicende, o anche per queste vicende, che l’inno italiano è divenuto il più fischiato d’Europa? La nostra immagine nel continente calcistico è delle peggiori, questo è un dato di fatto, e la crisi di nervi non giova a chi vuol combattere questa deriva che è fastidiosa quanto si vuole ma sicuramente non gratuita.
Dunque, li facciano pure eroi sul campo i nostri calciatori ma restino tali solo li, senza investirli di ruoli che non hanno. All’interno del mondo sportivo, più d’uno reputa questo Buffon un esempio, lui che ha ammesso di essere un accanito scommettitore. E un esempio lo reputa anche Giorgio Napolitano che gli ha riconosciuto delle capacità orali degne di un politico. Questi sono i messaggi che un presidente della Repubblica dovrebbe evitare di dare. Nessuna caccia alle streghe, ci mancherebbe, ma non si perda il senso della realtà. Buffon non è né un grande uomo né un filibustiere, è un uomo normale che diventa imbattibile tra i pali e vulnerabile fuori dal campo, scivolando più volte su sé stesso.
Prima di Buffon era toccato a Cassano inciampare sulle vuote dichiarazioni di Cecchi Paone. Ed è purtroppo scivolato anche Prandelli, colto impietosamente dalle telecamere mentre bestemmiava dopo il goal di Pirlo. Nulla di gravissimo per loro ma è il caso che stiano attenti a quando aprono bocca perchè ultimamente non ne ingarrano una. Non sono loro il miglior esempio per l’Italia ed è meglio che in questo particolare momento si concentrino a vincere, l’unica cosa che ci si aspetta. Per tutto il resto hanno francamente stufato. Calciatori, dirigenti e politici.

L’abbandono del “Castello di Pizzofalcone”

L’abbandono del “Castello di Pizzofalcone”
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Angelo Forgione – Storia di un altro piccolo gioiello abbandonato. Storia di “Villa Ebe” abbandonata. L’eclettico architetto urbanista napoletano Lamont Young già nell’ottocento si sentiva incompreso, figurarsi cosa penserebbe oggi nel vedere in che condizioni versa la sua splendida creatura; un piccolo maniero divorato dal degrado e dall’abbandono sul fianco occidentale del monte Echia. Una splendida costruzione in un eclettico stile misto neogotico-dannunziano prima vandalizzata e sfruttata dai senzatetto e poi distrutta da un violento incendio doloso nel 2000 che ne ha cancellato  gli interni e la splendida scala elicoidale.

Molti lo conoscono come “Castello di Pizzofalcone” e doveva essere restaurato secondo un progetto già finanziato, ma qualche anno fa il Comune di Napoli perse colpevolmente più di 11 milioni di fondi europei per incapacità amministrative e non se ne fece più niente. A “Villa Ebe” erano destinati 3 milioni e 340 mila euro e a Giugno 2007 il Sindaco Iervolino tuonò contro la sua stessa Giunta lavandosene le mani quando in realtà dimostrò di non essere informata dello stato di avanzamento dei progetti.
La palla passò alla Regione che annunciò il recupero del sito ma alla fine dello scorso anno arrivò una nuova doccia fredda per chi sperava nell’operazione. Il progetto fu uno dei 107 bocciati fra i 358 che componevano la delibera anticrisi della Regione.

E così le rampe Lamont Young, già queste bisognose di riqualificazione, portano al cancello della palazzina aggredito da piante incolte e serrato con un lucchetto. Vista dall’esterno, la struttura sembrerebbe a posto ma dalle finestre senza infissi si intravedono le condizioni dei vani interni sorretti da travi di legno a scongiurarne il crollo.
Sul portoncino d’ingresso campeggia beffarda la decorazione su cui è inciso “Lamont Young utopista inventore ingegnere di una Napoli moderna”.

leggi l’articolo “Lamont Young, un genio Napoletano dimenticato”

Visita a “Villa Ebe” prima dell’incendio e servizio del rogo al TG3