––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Passa il disegno di legge dell’Autonomia differenziatafirmato Lega, che “promette” di condannare il Sud mentre finge di dare al Paese “l’occasione per crescere tutti”. Si tratta della nascita degli stati disuniti d’Italia.
Nel caso siate contrari all’attuazione del progetto, firmate al seguente link:
Angelo Forgione — “Juventini disturbati”. Una mia definizione del 2017 proferita dopo una delle tante incursioni vuote degli juventini di Napoli in una trasmissione televisiva locale dedicata al Napoli e alla cultura napoletana, ripescata strumentalmente dai tifosi bianconeri in questo periodo per loro difficile, diventa l’occasione per un ben più interessante dibattito tra me, Paolo De Paola e il conduttore Vincenzo Marangio (tre napoletani di nascita) sulla difficile convivenza tra juventini e napoletani a Napoli e dintorni e, soprattutto, sui diversi aspetti del tifo meridionale in genere.
Tratto da “Radio Bianconera” (TMWradio) del 5/12/22
L’articolo di seguito è un breve riassunto del capitolo “La terra dei vini” tratto da Napoli svelata (A. Forgione – Magenes 2022)
Angelo Forgione – Piemonte, Toscana e Veneto sono, dal secondo Novecento, le regioni leader del vino italiano di qualità, un simbolo del Penisola che vanta eccellenze crescenti anche al Sud e che ha di fatto le sue radici in Campania. Fu proprio qui, tra il VII-VI secolo avanti Cristo, che i Greci, influenzati in patria dai Fenici, iniziarono a impiantare la vitis vinifera orientale, la vite addomesticata poi diffusa nella Magna Grecia, di cui beneficiarono pure gli Etruschi, che pure sfruttavano la vite di tipo selvatico. Proprio la Campania settentrionale segnava di fatto il confine fra le due culture e il contatto significò anche la conoscenza dei vitigni, degli attrezzi e delle modalità di coltivazione dei più avanzati Greci, che a partire dalle colline dei Campi Flegrei trovarono nei territori vulcanici costieri un habitat favorevole per l’acidità e i profumi dei loro vini.
I Romani, ai quali la cultura del vino era stata trasmessa dagli Etruschi, fecero tesoro delle superiori uve e tecniche greche e svilupparono enormemente la loro vitivinicoltura, producendo vini flegrei, vesuviani e più ampiamente campani, i più pregiati dell’Italia antica, inviati nei paesi del Mediterraneo e in Gallia, a partire dal rinomato Falerno. Solo nell’antica città di Pompeii esistevano circa duecento tabernae vinariae, e quasi tutte le ville rinvenute negli scavi appartenevano a famiglie impegnate nel settore vinicolo, proprietarie di vigneti in città e sulle pendici del Vesuvio.
In epoca medievale, il porto di Napoli fu un autentico scalo del vino, centro di raccolta e diffusione di prodotti vesuviani, flegrei, sorrentini e amalfitani, imbarcati su navi catalane e genovesi per raggiungere tutti i mercati esteri. Di quelli napoletani e delle costiere campane, di radice greca e latina, era consolidata la presenza nelle città del Mediterraneo, dove erano stabilite equivalenze della “Botte di mena”, l’unità di misura standard di carico di quanto a Napoli arrivava e partiva, anche detta “misura di Napoli”.
Nel 1562, durante il Concilio di Trento, Papa Pio IV offrì ai cardinali presenti il rinomato Lacryma Christi del Vesuvio, eccellenza dei vini campani richiestissimi da letterati e artisti di ogni genere e provenienza che confluivano nella Napoli del Cinquecento, la più popolosa città della penisola italiana. Leggendo Le Muse Napoletane, scritto dietro pseudonimo da Giovan Battista Basile, si apprende che nella frequentatissima Locanda del Cerriglio, taverna napoletana famosa in Europa, venivano serviti “cento sorte de vine da stordire”, tra cui “Asprinio”, “Lagrema” e “Falanghina”.
Nel 1833 nacque a Napoli la prima azienda italiana per il miglioramento dei vini, la Compagnia Enologica Industriale, istituita privatamente con sovrana approvazione borbonica per il miglioramento della vinificazione dell’intero Regno e per favorire il commercio interno e l’esportazione, così da emancipare le Due Sicilie dalla passività straniera. Da lì i vini campani e meridionali in genere iniziarono, per primi, a fare concorrenza ai francesi.
Alla vigilia dell’unità d’Italia, nel 1854, sul volume Studii di Statistica etnografica, civile, agraria, industriale e marittima sull’Italia, pubblicato a Torino, circa i prodotti chimici, era evidenziato che i più squisiti vini d’Italia erano del Piemonte, della Toscana, del Regno di Napoli, della provincia valtellinese e di quella friulana, e che “[…] Napoli è sopra le altre parti di Italia privilegiata per l’eccellente qualità delle sue uve; e tutti conoscono la bontà dei vini del Vesuvio, di Miseno, di Procida, di Capri. […]” .
Nel 1875, Giuseppe Frojo, il principale ampelografo italiano e componente del Comitato ampelografico ministeriale del Regno d’Italia, analizzò lo stato dell’arte dell’industria vinicola nazionale ne Il presente e l’avvenire dei vini d’Italia, mappando l’enografia italiana con descrizione delle regioni vinicole e dei loro prodotti. Attenzione speciale fu riservata alla provincia di Napoli, l’unica meritevole di una sezione dedicata “per l’eccezionalità delle sue terre sconvolte da antichi e nuovi vulcani, e per la vetusta fama dei vini”: “Se più a lungo mi sono fermato a parlare dei vini della provincia di Napoli, vi sono stato forzato dalla considerazione che questa piccola provincia ha terre tanto diverse, sia per natura come per esposizione, ed in conseguenza vi si producono vini anche tra loro diversissimi. Terreni vulcanici antichi, come quelli di Pozzuoli e d’Ischia, terreni vulcanici moderni, come quelli del Vesuvio; terreni calcarei come quelli di Gragnano, Sorrento e Capri; qua e là tufi vulcanici, e poi isole, promontori, monti e colline. Uve diverse in ciascuna plaga; è difficile, ripeto, trovare altrove, ristrette in tanto poco spazio, condizioni di suolo così variabili”. I vini migliori della provincia partenopea erano segnalati alle pendici del Vesuvio, e precisamente sulla “parte volta a mezzogiorno verso Resina e Torre del Greco”, zona di vino rosso che “per molti caratteri, cioè pel sapore secco e pel colore rosso arancio che acquista, può gareggiare coi migliori vini di Bordò e vincerli pure”. Della stessa zona anche la punta di diamante tra i vini italiani, “il famoso Lacrima Cristi bianco, vino tanto stimato all’estero per la sua finezza e pel suo aroma dovuto all’uva Greca”, quella che aveva dato il nome a Torre del Greco, l’antica Turris Octava, distante otto miglia da Napoli. Altre raccomandazioni erano per gli stimati vini di Capri e per il prodotto di Gragnano, “eccellente vino rosso, molto profumato che invecchiando si assomiglia al vino Boucholais”, ma che purtroppo nessuno faceva invecchiare, lasciandolo inespresso e limitato al consumo comune. Il Lacryma Christidel Vesuvio seguì gli emigranti italiani nelle Americhe insieme ai migliori vini napoletani. A fine Ottocento, nei ristoranti di New York, oltre ai più accessibili rossi Capri e Gragnano, figurava tra le bottiglie più costose proprio il particolarmente apprezzato Lacryma Christi bianco. Su Rivista politica e letteraria del 1 luglio 1898, relativamente all’Esposizione di viticoltura, enologia ed industrie affini in Asti, si leggeva che il Lacryma Christi e i vini siciliani erano “i veri diamanti della corona enologica dell’Italia”.
Nel periodo della Grande guerra (1915-18), i meridionali furono massicciamente reclutati al fronte e svuotarono le campagne. Dopo la Seconda guerra mondiale, durante il ventennio Cinquanta-Sessanta, l’abbandono delle terre coltivate al Sud proseguì con l’ingrossamento dei flussi migratori in direzioni delle ricostruite industrie del Nord. Le regioni meridionali si ridussero alla fornitura di vino da taglio da destinare al Nord per irrobustire alcuni vini settentrionali in grande crescita, e la Campania andò via via scivolando fuori dall’élite produttiva. Solo nell’ultimo decennio del Novecento una nuova politica di valorizzazione del vino italiano ha risollevato le sorti delle tantissime uve autoctone di ogni regione, riattivando la valorizzazione dei pregiati vitigni meridionali di Sicilia, Puglia, Calabria, Basilicata, Sardegna, Abruzzo, Molise e, ovviamente, Campania. Il Lacryma Christi continua a godere di una discreta richiesta internazionale, per paradosso più che in Italia, ma è ben distante dalla fama di un tempo. Il faro del Sud è oggi il pregiato Taurasi irpino, eccellenza di una regione ricca di autoctonia e che conta altri tre DOCG (Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Aglianico del Taburno), a testimonianza della centralità dei polmoni vitivinicoli di Sannio e Irpinia, cresciuti nel secondo Novecento fino a diventare i principali enodistretti campani, ai quali si accodano quelli della Costiera Amalfitana e del Cilento per la provincia di Salerno, del Litorale Domizio, dell’Alto Casertano e dell’Aversano per quella di Caserta e, per quella di Napoli, dell’area Vesuviana, dei Campi Flegrei, dell’area sorrentina e delle isole di Ischia e Capri. Una regione leader dei bianchi ma che ha ampi margini di crescita anche sui rossi e rosè. Una terra in cui il vino italiano, dai Greci ai Romani, ha le sue leggendarie origini.
Per approfondimenti: Napoli svelata (A. Forgione – Magenes 2022, capitolo “La terra del vino”)
Angelo Forgione – Quando una veneta figlia di emigrante sardo “minaccia” un bambino calabrese di un futuro da emigrante, l’irrisolta Questione meridionale fa ancora più rabbia. A rendersi talmente squallida è stata Sara Pinna, la conduttrice di Terzo Tempo – diretta biancorossa, trasmissione dedicata alle partite del Vicenza dell’emittente locale TvA. Costei, immediatamente dopo la partita di calcio che ha sancito la salvezza del Cosenza e la retrocessione in Serie C del Vicenza, ha fatto il verso a un piccolo tifoso dei Rossoblù calabresi. Il bambino, ai microfoni dell’inviato in Calabria, Andrea Ceroni, ha raccolto l’imbeccata del padre per esprimere la propria fede:
«Lupi si nasce».
Sara Pinna, ferita nell’orgoglio, ha tirato fuori la peggior boria nordica:
«Eeeeh… E gatti (vicentini) si diventa. Non ti preoccupare che venite anche voi in Pianura a cercare qualche lavoro».
E il collega, annuendo, ci ha messo pure del suo:
«Non male, Sara».
Cosa poteva capire il piccolo di quella risposta? Nulla, ovviamente. E lei, con quel cognome e quelle fattezze tipicamente sarde, ex tifosa cagliaritana giunta in Veneto dall’isola, sapeva di non rivolgersi a quel bambino ma alla platea adulta dei suoi telespettatori veneti, tanto per affermare una superiorità economico-sociale sui meridionali che non era scritta da nessuna parte prima che fosse unita l’Italia.
Sarà Pinna ha poi chiesto scusa dopo l’ondata di condanna arrivatale addosso con qualche giorno di ritardo:
“Ribadisco le mie scuse al bambino, alla sua famiglia, ai tifosi del Cosenza e a tutti coloro che si sono sentiti offesi per una frase sbagliata che non rispecchia in alcun modo il mio pensiero e la mia sensibilità. Io stessa sono di origini sarde, in Veneto per lavoro dei miei genitori, quindi non vi erano in me le intenzioni maligne che mi vengono attribuite dai numerosi commenti sui canali social, molti dei quali hanno oltrepassato ogni limite di decenza e di legge, ma di questo si occuperà nelle sedi opportune la magistratura”.
Non era bastato il tifoso vicentino che, all’andata, era arrivato ad apostrofare i tifosi del Cosenza con l’epiteto di “scimmie calabresi“. Ci voleva anche la minaccia al bambino di Calabria, che forse un giorno sarà davvero costretto ad andare a cercare lavoro in Pianura Padana, ma resterà comunque e sempre un “lupo” rossoblù. E speriamo che non sia anche juventino, interista o milanista, perché poi la colonizzazione del Sud è anche di tipo sportivo,e il fenomeno del doppio tifo, per la squadra della propria città e per una delle tre grandi strisciate del Nord, è diffuso in Calabria come in altre regioni limitrofe.
Il sempre onesto Maurizio Pistocchi, irreprensibile giornalista d’altra Italia e d’altro spessore, ancora una volta ha evidenziato gli squilibri territoriali del calcio italiano. A Il Bello del Calcio (Canale 8), ha ricordato alla purtroppo assai sorda se non proprio spenta Napoli, come del resto l’intera Italia, che, come dice lui, “proprio un napoletano ha scritto in modo chiaro la verità sul calcio italiano”, sui suoi squilibri territoriali e sulla Questione meridionale”del pallone.
Angelo Forgione–«La Gazzetta dello Sport è sempre stata il giornale di Juve, Inter e Milan ed è sempre stata contro il Napoli… i giornalisti del Nord mi odiano, il Nord odia il Sud dai tempi del Conte di Cavour». Così disse, senza peli sulla lingua, Aurelio De Laurentiis in diretta nazionale qualche tempo fa, scatenando un autentico putiferio.
Nei giorni scorsi, Stefano Barigelli, direttore della Gazzetta, ha onestamente ammesso che il principale quotidiano sportivo nazionale – ripeto, nazionale – risponde principalmente alle tifoserie di Milan, Inter e Juve, che rappresentano il core-business di riferimento, e l’informazione propone soprattutto ciò che è a loro gradito, come, ad esempio, un like dato da Zaniolo a un post di Vlahovic finito in prima pagina, o come il furto della Panda di Spalletti ma non altri reati predatori in altre città. Fino al caso-non-caso Osimhen alla vigilia di una trasferta delicata del Napoli a Bergamo. Nessuna novità, non siamo nati ieri, e però è legittimo il sospetto che De Laurentiis avesse ragione a gridare il suo sfogo.
Eugenia Saporito ha perciò messo in piedi un animatissimo ma garbato dibattito in diretta sull’argomento, ospitando Paolo De Paola, napoletano di nascita, ex vicedirettore della Gazzetta e poi direttore di Tuttosport, anch’esso quotidiano nazionale anche più aderente alla specifica utenza di Juventus e Torino, per un confronto con Maurizio Zaccone e chi scrive, moderato assieme a Umberto Chiariello e sintetizzato nel video per racchiudere in pochi minuti le due ore di talk.
Con un’informazione condizionata non solo nello sport dalle esigenze dei lettori di riferimento e dalle pressioni degli editori, Napoli senza voce combatte una battaglia mediatica ad armi impari contro il Nord, ma, come si capirà ascoltando l’interessantissimo dibattito, senza tacere.
Angelo Forgione – L’Italia di Mancini entusiasma agli Europei dopo le vacche magre della gestione Ventura, e i tifosi si appassionano tutti, da Nord a Sud. Persino Matteo Salvini, da sempre tifoso contro, è magicamente diventato tifoso degli Azzurri, anche se non casualmente indossa la maglia in versione verde.Effetto Nazionale, che nei percorsi vincenti genera euforia e crea un inganno, quello dell’unione del Paese, nascondendo le divisioni economiche e le cattive pulsioni territoriali, ma anche tutti i guasti dello stesso movimento calcistico italiano, vedi Calciopoli 2006. È una forma di incoerente patriottismo a corrente alternata che si manifesta quando si svolgono le grandi competizioni internazionali per nazioni, in tutti gli sport. Un falso patriottismo a tempo che, quando si tratta di pallone, dura 90 minuti più recupero ed eventuali supplementari e rigori. Poi l’euforia e l’inganno si spengono e tutto torna alla realtà, almeno fino al prossima partita, sperando che non interrompa il campionato. Con buona pace dei meridionali, figli di quella parte marginalizzata ma non marginale della Penisola, la fu Magna Graecia dove è nata la civiltà italica e dalla quale proviene il nome Italia, che in tempi antichi fu la parte meridionale della Calabria. E non venitemi a dire che le differenze territoriali si annullano quando gioca l’Italia. Non provate a sostenere che l’incultura discriminatoria, esistente in Italia, riguardi solo il tifo sportivo, perché altrimenti Riccardo Muti, salito giovane e sconosciuto da Napoli a Milano negli anni Sessanta, non sarebbe stato chiamato “il terrone” negli anni trascorsi tra le mura di un istituto culturale qual è un conservatorio, nella fattispecie meneghino. No, non chiedetemi di slegare lo sport dal contesto sociale di cui è espressione solo perché l’Italia di Mancini vi sta facendo divertire dopo tante restrizioni pandemiche. L’oppio calcistico non lo fumo più dai tempi dell’indignazione nazionale per le porcherie di Calciopoli spenta dalla vittoria della Nazionale di Lippi, e lucidamente vi risponderei in terza persona citando un passaggio della prefazione scritta per il mio Dov’è la Vittoria dal maestro Oliviero Beha, uno che non slegava lo sport dal contesto sociale di cui è espressione:
“Lo “screanzato” Forgione ha fatto benissimo a osare. È un libro che ha diritto di cittadinanza tra quelli che finora raramente sono stati capaci di intrecciare il Calcio con la società che lo contiene e di cui è espressione macroscopica. Mi sarà e vi sarà utile prima come lettura e poi come consultazione, tra le molte cose che si dimenticano e quelle che si ignorano. Perché in realtà al centro del libro e della realtà che dispiega non c’è la palla, bensì noi stessi”.
interventi tratti dalla rubrica “Punto Nuovo Sport Show” (Radio Punto Nuovo)
Angelo Forgione – 160 anni. Tanti ne compie oggi l’Italia, giovanissima nazione ancora in cerca di unità. Il 160 anni di una nazione andrebbero festeggiati in forma solenne, anche solo per legge, quella che ha fissato al 17 marzo la celebrazione della proclamazione a Torino del Regno d’Italia e del suo primo Re, che però era il secondo Vittorio Emanuele di Savoia, e tale rimase per ribadire che quel nuovo regno era di fatto un Piemonte allargato.
Non tantissimi sanno che oggi è data patriottica, e ancora meno sanno il perché si è scelto il 17 marzo per festeggiare la nascita della Nazione. Ma poi, diciamolo chiaramente, cosa vuoi festeggiare con i chiari di luna della pandemia? Il disinteresse per una celebrazione già normalmente poco sentita è più normale che mai, anche perché i fini conoscitori della vicenda storica hanno persino invocato l’oblio del Risorgimento, chiedendo di chiudere qui quello che di fatto è stato il dibattito dell’ultimo decennio, tra sostenitori dell’epopea risorgimentale e più energici revisionisti in cerca di verità.
Dieci anni fa, ed è questa la ricorrenza più significativa, la vera novità delle celebrazioni per il 150esimo anniversario tricolore fu il sorgere di tesi critiche sulle modalità unitarie e sulla politica filosettentrionale che ne conseguì. Fiorirono pubblicazioni e narrazioni meridionaliste più profonde sulla storia d’italia e sulla “questione meridionale”, e i lettori più curiosi, stanchi di retorica e di piattezza di analisi, ne sancirono un successo tuttora vivissimo.
Oggi è più nitida la descrizione di un Risorgimento che non fu quel necessario processo democratico a beneficio di una comune identità di diversi popoli, ognuno con la propria da rispettare, ma fu purtroppo costruzione politica fondata sulla prepotenza, sulla violenza e sull’arte della diplomazia e condotta da un’élite che, per dirlo alla Salvemini, fece la “rivoluzione dei ricchi” mettendo il Nord contro il Sud, non con il Sud.
La sete di conoscenza non si è esaurita, e ciò ha infastidito i detentori del sapere ufficiale, cattedratici e storici patentati sempre più incalzati ma mai disposti al confronto e al contraddittorio, piuttosto impegnati anch’essi in un nuovo filone pubblicistico, quello del revisionismo accademico delle tesi dei revisionisti.
Il risultato è la richiesta di oblio, lo stesso che si è operato per 150 anni per quell’operazione di ingegneria sociale voluta dalla Massoneria, dieci anni fa definitivamente fallita. Oblio, si chiede, perché la memoria divide invece di unire, e questo la dice lunga su quanto non fu unità ma annessione. Quel che stato è stato, si chiede, e pazienza se la questione meridionale italiana è un unicum nel panorama internazionale per durata e proporzioni della sperequazione che l’alimenta. È problema nostro, e lo sarà ancora per molto se i danari del Recovery Fund non risolveranno quel che devono risolvere espressamente: il divario Nord-Sud nato nel secondo Ottocento.
In un certo senso, l’oblio appare opportuno, perché è ormai dimostrato che celebrare la storia dell’unificazione d’Italia con la stantia retorica è perdente e non serve a un paese che deve ancora capire il grande valore dell’unità. E dunque, meglio dimenticare e non celebrare niente che celebrare male e con superficialità.
Angelo Forgione– Il 13 febbraio 1861, 160 anni fa, Francesco II di Borbone si arrendeva all’esercito di Vittorio Emanuele II di Savoia in quel di Gaeta. Il Sud veniva così conquistato dal Regno di Sardegna. La capitolazione chiuse tre drammatici mesi di assedio alla piazzaforte napoletana, con le truppe del generale Cialdini a cannoneggiare violentemente da Castellone di Mola, la collina dell’attuale Formia. Una guerra mossa con cupidigia e ferocia dai piemontesi e dai lombardi ai Napolitani. Una guerra che solo in quell’ultimo atto, e senza considerare la decennale repressione del brigantaggio che ne seguì, significò più di 3.000 vittime civili gaetani e 846 soldati meridionali caduti, oltre a 46 tra gli aggressori settentrionali. Seguirono massimi onori e promozioni per i militari delle truppe del Regno di Sardegna. 5 medaglie d’oro al valore militare e 2098 d’argento, oltre a 98 onorificenze. Al generale Cialdini, che pure a tre ore dell’imminente firma della resa borbonica, per dimostrare la sua superiorità d’armi, aveva fatto cannoneggiare all’indirizzo dei Napolitani stremati dalle distruzioni e dal tifo petecchiale, Vittorio Emanuele II concesse il titolo di Duca di Gaeta, cioè della città letteralmente raso al suolo.
Angelo Forgione – Il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, a proposito delle proteste sulla quota del Recovery Fund destinata al Mezzogiorno*, ha dichiarato che “se andassero al Sud il 34% delle risorse – e non il 65% spettante come da indicazioni europee – ci sarebbe un impatto economico molto forte perché a queste risorse se ne aggiungerebbero altre”. Inconcludente riflessione del Ministro (per il Sud), il quale ha poi aggiunto che “la sfida si fa non sulle quote ma sui progetti”. Cioè, come dire a una persona indigente che ciò che conta è la volontà di pagare le bollette, non la disponibilità di soldi per farlo.
Dunque, il Mezzogiorno in ritardo faccia progetti, anche se non ha soldi a sufficienza per portarli avanti. Così perora la causa del Sud il ministro per il Sud, proprio mentre il Governo, con un emendamento alla manovra economica riformulato e approvato dalla commissione Bilancio della Camera, taglia 2 miliardi di risorse per l’agevolazione contributiva all’occupazione nelle aree svantaggiate, cioè al Sud, e con un altro emendamento aggiunge altri 145 milioni al miliardo tondo tondo stanziato con la legge di bilancio 2020 per Lombardia e Veneto in nome delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina, quelle annunciate come le Olimpiadi dell’autonomia in cui il Governo non ci avrebbe dovuto mettere un euro. Come no!
*I 750 miliardi totali ripartiti a varie nazioni sulla base di tre criteri: popolazione, reddito pro-capite e tasso medio di disoccupazione negli ultimi cinque anni. Il criterio della popolazione direbbe che all’Italia toccherebbero circa 90 miliardi. Si arriva a 209 con i moltiplicatori del reddito pro capite, che al Sud è mediamente circa la metà rispetto al Nord (17mila contro 33mila euro), e del tasso medio di disoccupazione, che al Sud è ben più alta della media nazionale. 120 miliardi di finanziamenti aggiuntivi concessi perché l’Italia ha un area arretrata da far avanzare, una colonia interna, e perciò l’indicazione di Bruxelles era quella che al Sud sarebbe dovuto finire circa il 70 per cento della somma complessiva. E invece l’Italia, nella bozza sull’utilizzo dei fondi, ha dimezzato la quota destinata al Mezzogiorno, scendendo a 34 per cento, disponendo che la ripartizione nazionale sia in base alla sola percentuale di popolazione. Dunque, metà dei soldi destinati al Sud da mamma Europa vengono indirizzati al Centro-Nord. I poveri, così, servono a far arricchire ulteriormente ricchi.