––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione – 160 anni. Tanti ne compie oggi l’Italia, giovanissima nazione ancora in cerca di unità. Il 160 anni di una nazione andrebbero festeggiati in forma solenne, anche solo per legge, quella che ha fissato al 17 marzo la celebrazione della proclamazione a Torino del Regno d’Italia e del suo primo Re, che però era il secondo Vittorio Emanuele di Savoia, e tale rimase per ribadire che quel nuovo regno era di fatto un Piemonte allargato.
Non tantissimi sanno che oggi è data patriottica, e ancora meno sanno il perché si è scelto il 17 marzo per festeggiare la nascita della Nazione. Ma poi, diciamolo chiaramente, cosa vuoi festeggiare con i chiari di luna della pandemia? Il disinteresse per una celebrazione già normalmente poco sentita è più normale che mai, anche perché i fini conoscitori della vicenda storica hanno persino invocato l’oblio del Risorgimento, chiedendo di chiudere qui quello che di fatto è stato il dibattito dell’ultimo decennio, tra sostenitori dell’epopea risorgimentale e più energici revisionisti in cerca di verità.
Dieci anni fa, ed è questa la ricorrenza più significativa, la vera novità delle celebrazioni per il 150esimo anniversario tricolore fu il sorgere di tesi critiche sulle modalità unitarie e sulla politica filosettentrionale che ne conseguì. Fiorirono pubblicazioni e narrazioni meridionaliste più profonde sulla storia d’italia e sulla “questione meridionale”, e i lettori più curiosi, stanchi di retorica e di piattezza di analisi, ne sancirono un successo tuttora vivissimo.
Oggi è più nitida la descrizione di un Risorgimento che non fu quel necessario processo democratico a beneficio di una comune identità di diversi popoli, ognuno con la propria da rispettare, ma fu purtroppo costruzione politica fondata sulla prepotenza, sulla violenza e sull’arte della diplomazia e condotta da un’élite che, per dirlo alla Salvemini, fece la “rivoluzione dei ricchi” mettendo il Nord contro il Sud, non con il Sud.
La sete di conoscenza non si è esaurita, e ciò ha infastidito i detentori del sapere ufficiale, cattedratici e storici patentati sempre più incalzati ma mai disposti al confronto e al contraddittorio, piuttosto impegnati anch’essi in un nuovo filone pubblicistico, quello del revisionismo accademico delle tesi dei revisionisti.
Il risultato è la richiesta di oblio, lo stesso che si è operato per 150 anni per quell’operazione di ingegneria sociale voluta dalla Massoneria, dieci anni fa definitivamente fallita. Oblio, si chiede, perché la memoria divide invece di unire, e questo la dice lunga su quanto non fu unità ma annessione. Quel che stato è stato, si chiede, e pazienza se la questione meridionale italiana è un unicum nel panorama internazionale per durata e proporzioni della sperequazione che l’alimenta. È problema nostro, e lo sarà ancora per molto se i danari del Recovery Fund non risolveranno quel che devono risolvere espressamente: il divario Nord-Sud nato nel secondo Ottocento.
In un certo senso, l’oblio appare opportuno, perché è ormai dimostrato che celebrare la storia dell’unificazione d’Italia con la stantia retorica è perdente e non serve a un paese che deve ancora capire il grande valore dell’unità. E dunque, meglio dimenticare e non celebrare niente che celebrare male e con superficialità.
Angelo Forgione– 7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni esatti sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale, sostanzialmente, non è più tale. In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.
Garibaldi arriva in città e si autoproclama “Dittatore delle Due Sicilie”. Ad accompagnarlo c’è anche fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano siciliano unitosi alla spedizione dei Mille e utilissimo per legittimare, attraverso la predicazione, l’impresa garibaldina presso le classi popolari e per favorire la coscrizione di volontari. Eppure il nizzardo è un massone, un rigidissimo anticlericale, e odia preti e uomini di Chiesa di ogni ordine e grado. Di spontaneo c’è poco di fronte ai grandi interessi enormi che lo travolgono nella sua incursione nel cattolico regno borbonico, e ben lo sanno i malviventi napoletani e siciliani di cui l’Eroe si serve per portarla a compimento. Sono proprio gli uomini della Bella Società Riformata, i modesti delinquentucoli in carriera della Napoli conquistata, a garantirne la sicurezza. Le rampanti canaglie, investite di poteri polizieschi dall’opportunista prefetto Liborio Romano, in cambio di un totale colpo di spugna dei casellari giudiziali e di lauti vitalizi, impongono la legge del più violento per sottomettere tutti i nemici dello spirito liberale e, al gran completo, accolgono Garibaldi alla strada dei Fossi, dove sorge la stazione ferroviaria. Loro a terra e i britannici nel Golfo sul legno Intrepid, di scorta al Generale sin dalla Sicilia e piazzatosi per mesi davanti al litorale di Santa Lucia, mentre il dittatore elargisce compensi e prebende ai malavitosi e promette cariche parlamentari a Don Liborio. In testa al corteo che segue la carrozza del “dittatore” figura proprio il questore capintesta “Tore ‘e Criscienzo”. Via Marina, Maschio Angioino, Largo di Palazzo (Plebiscito) con breve discorso. Poi su per la strada di Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri allo Spirito Santo, dal quale si affaccia e ne prende possesso come dimora. Il giorno seguente, il Generale che detesta il Papa e che ha chiamato Pionòno (Pio IX) il suo asino vuole che si verifichi il prodigio settembrino di san Gennaro in sua presenza, perché ben sa che i favori del Patrono possono assicurargli quelli del popolo partenopeo. È già accaduto sessant’anni prima, con i militari francesi a “vigilare” sul compimento dello scioglimento del sangue. Garibaldi e i suoi trovano la Cappella del Tesoro sbarrata. Niente da fare. E allora, in serata, accompagnato dal “doppia faccia” Liborio Romano e da tutti i camorristi di guardia, incrocia la processione della Madonna di Piedigrotta e, pur di ingraziarsi i cattolicissimi napoletani, si reca al Santuario di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia. Per volontà divina vengono sorpresi da un tremendo temporale che inzuppa il corteo. Quando arriva, il nizzardo si scappella davanti a tutti di fronte all’immagine della Vergine. Tocca aspettare il 19 settembre, giorno del Santo patrono, per timbrare di rosso garibaldino il prodigio. «Il sangue deve liquefarsi e si liquefarà – urlano i predicatori garibaldini in largo di Palazzo – altrimenti a farlo liquefare ci penserà Garibaldi». E così è!
Quella dell’anno seguente è l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini. I Savoia la cancellano nel 1862 dopo aver decretato nel Febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della chiesa. È coinvolto ovviamente anche il santuario di Piedigrotta, i cui canonici vengono liquidati con un piccolo vitalizio.
7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale non è più tale. In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.
[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame. Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]
Il 7 settembre del 1878, diciotto anni dopo il suo ingresso dittatoriale a Napoli, Garibaldi, usato e messo da parte da Vittorio Emanuele II, scrive una lettera alla patriota milanese Adelaide Cairoli, motivandole le dimissioni dalla carica di deputato al Parlamento e mostrandosi pentito del suo apporto alla causa piemontese-lombarda in alcuni significativi passaggi:
[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame. Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]
per approfondimenti: Napoli Capitale Morale Made in Naples
Angelo Forgione – Il 12 maggio del 1860, al piano terra del palazzo della Foresteria di Napoli, lato di piazza San Ferdinando, l’impreditore Vincenzo Apuzzo inaugurava il Gran Caffè. Il giorno prima Garibaldi era sbarcato a Marsala e quattro mesi dopo avrebbe preso Napoli. Quel nuovo locale divenne velocemente un salotto del bel mondo cittadino, tanto da ottenere il raro e prestigioso riconoscimento di “Fornitore della Real Casa” per la bontà dei suoi prodotti.
Ad Apuzzo successe Mario Vacca, colui che nel 1890, in piena Belle Èpoque, fece ristrutturare i locali, incaricando l’architetto Antonio Curri, da poco reduce dalle decorazioni della nuovissima Galleria Umberto I. Quaranta tra artigiani e artisti per la nuova veste in stile liberty del Gran Caffè, ribattezzato Gambrinus in nome del leggendario Re delle Fiandre e patrono laico della birra, colui che, secondo il poeta tedesco del Cinquecento Burkart Waldis, apprese l’arte della birra da Iside. Ma perché il Re della birra se Napoli era la città del caffè? In piena Unità d’Italia, l’intenzione fu quella di mettere insieme la classica bevanda fredda e chiara del nord con quella bollente e scura ormai tipicamente napoletana. Il nuovo Gran Caffè Gambrinus si consacrò come avamposto dell’élite intellettuale napoletana, italiana ed oltre, dove ritrovarsi per fare politica, letteratura e arte, rendendosi uno dei più riusciti esempi in Italia di caffè letterario di ispirazione europea.
Nell’agosto del 1938, in pieno Fascismo, il Gran Caffè Gambrinus venne chiuso perché accusato di essere luogo di ritrovo antifascista, mentre era in realtà solo un affollato caffè proprio sotto l’abitazione del Prefetto e Signora, infastiditi dai rumori. I locali furono assegnati a un’agenzia del Banco di Napoli fino al 1952, quando l’ala su via Chiaia fu restituita alla precedente funzione e gestita dall’imprenditore Michele Sergio, i cui figli, dopo una battaglia con il Banco, riuscirono a riappropriarsi anche del resto degli sfarzosi saloni, a fare del Gambrinus uno dei locali storici d’Italia. Ed eccolo tagliare il traguardo dei suoi primi 160 anni.