160 anni fa Napoli non più capitale

Angelo Forgione 7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni esatti sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale, sostanzialmente, non è più tale.
In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.

Garibaldi arriva in città e si autoproclama “Dittatore delle Due Sicilie”. Ad accompagnarlo c’è anche fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano siciliano unitosi alla spedizione dei Mille e utilissimo per legittimare, attraverso la predicazione, l’impresa garibaldina presso le classi popolari e per favorire la coscrizione di volontari. Eppure il nizzardo è un massone, un rigidissimo anticlericale, e odia preti e uomini di Chiesa di ogni ordine e grado. Di spontaneo c’è poco di fronte ai grandi interessi enormi che lo travolgono nella sua incursione nel cattolico regno borbonico, e ben lo sanno i malviventi napoletani e siciliani di cui l’Eroe si serve per portarla a compimento. Sono proprio gli uomini della Bella Società Riformata, i modesti delinquentucoli in carriera della Napoli conquistata, a garantirne la sicurezza. Le rampanti canaglie, investite di poteri polizieschi dall’opportunista prefetto Liborio Romano, in cambio di un totale colpo di spugna dei casellari giudiziali e di lauti vitalizi, impongono la legge del più violento per sottomettere tutti i nemici dello spirito liberale e, al gran completo, accolgono Garibaldi alla strada dei Fossi, dove sorge la stazione ferroviaria. Loro a terra e i britannici nel Golfo sul legno Intrepid, di scorta al Generale sin dalla Sicilia e piazzatosi per mesi davanti al litorale di Santa Lucia, mentre il dittatore elargisce compensi e prebende ai malavitosi e promette cariche parlamentari a Don Liborio. In testa al corteo che segue la carrozza del “dittatore” figura proprio il questore capintesta “Tore ‘e Criscienzo”. Via Marina, Maschio Angioino, Largo di Palazzo (Plebiscito) con breve discorso. Poi su per la strada di Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri allo Spirito Santo, dal quale si affaccia e ne prende possesso come dimora.
Il giorno seguente, il Generale che detesta il Papa e che ha chiamato Pionòno (Pio IX) il suo asino vuole che si verifichi il prodigio settembrino di san Gennaro in sua presenza, perché ben sa che i favori del Patrono possono assicurargli quelli del popolo partenopeo. È già accaduto sessant’anni prima, con i militari francesi a “vigilare” sul compimento dello scioglimento del sangue.
Garibaldi e i suoi trovano la Cappella del Tesoro sbarrata. Niente da fare. E allora, in serata, accompagnato dal “doppia faccia” Liborio Romano e da tutti i camorristi di guardia, incrocia la processione della Madonna di Piedigrotta e, pur di ingraziarsi i cattolicissimi napoletani, si reca al Santuario di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia. Per volontà divina vengono sorpresi da un tremendo temporale che inzuppa il corteo. Quando arriva, il nizzardo si scappella davanti a tutti di fronte all’immagine della Vergine.
Tocca aspettare il 19 settembre, giorno del Santo patrono, per timbrare di rosso garibaldino il prodigio. «Il sangue deve liquefarsi e si liquefarà – urlano i predicatori garibaldini in largo di Palazzo – altrimenti a farlo liquefare ci penserà Garibaldi». E così è!

Quella dell’anno seguente è l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini. I Savoia la cancellano nel 1862 dopo aver decretato nel Febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della chiesa. È coinvolto ovviamente anche il santuario di Piedigrotta, i cui canonici vengono liquidati con un piccolo vitalizio.

7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale non è più tale.
In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.

[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.
Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]

Il 7 settembre del 1878, diciotto anni dopo il suo ingresso dittatoriale a Napoli, Garibaldi, usato e messo da parte da Vittorio Emanuele II, scrive una lettera alla patriota milanese Adelaide Cairoli, motivandole le dimissioni dalla carica di deputato al Parla­mento e mostrandosi pentito del suo apporto alla causa piemontese-lombarda in alcuni significativi passaggi:

[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.
Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]

per approfondimenti:
Napoli Capitale Morale
Made in Naples

Invincibile Neapolis

Angelo Forgione Come ogni anno, faccio gli auguri a Neapolis, di cui si dice che il 21 dicembre sia il compleanno, questo il 2.489mo, perché la tradizione vuole che si trattasse del 472 aC. Probabilmente leggenda, riportata dal filosofo Dicearco di Messina ma attribuita a un ignoto Dicearco di Cuma. Leggenda, ma non una di quelle create casualmente. Perché il 21 dicembre è giorno di solstizio d’inverno, quello in cui il Sole raggiunge il punto di massima distanza dal piano equatoriale, e il buio della notte raggiunge la massima estensione, per poi invertire il proprio moto, fino al solstizio d’estate, in giugno, quando la luce prende il sopravvento sul buio.
Napoli era greca, e osservava il mithraismo, la religione antica di tradizione ellenistica che celebrava i misteri del Sole invincibile, sempre capace di rinascere. I napoletani veneravano Mithra in processione verso la Crypta Neapolitana, quella oggi alle spalle del santuario di Piedigrotta. Lì, proprio al centro della grotta attraversata completamente solo due volte l’anno da un raggio di sole (in occasione degli equinozi di primavera e di autunno), fu rinvenuto in tempi recenti proprio un bassorilievo di Mithra, oggi in mostra al Museo Archeologico Nazionale.

mithra

Non è per caso, evidentemente, che si volle far nascere la Neapolis, una rinata Palaepolis, insieme al Sole, nel giorno meno luminoso dell’anno, quello della celebrazione dei misteri mithraici, poi sostituiti dal Natale cristiano coi Romani. E allo stesso modo con cui il Natale di Gesù Cristo fu sovrapposto a quello di Mithra, la Festa cattolica della Madonna di Piedigrotta fu sovrapposta alle processioni nella Crypta.

Mi piace, dunque, interpretare Napoli come forse si voleva che fosse interpretata, metafora del Sole invincibile. Mi piace pensare a una città invincibile, che sempre si risolleva. E invincibile è, perché sfida la presenza incombente di due vulcani distruttivi, ed è sopravvissuta, e si ostina a sopravvivere, a terremoti, eruzioni, colate di fango, epidemie, invasioni, bombardamenti e aggressioni verbali: un vero e proprio miracolo dell’umanità che si fonde col mistero.

Disegnata secondo il cammino del Sole su di un terrazzamento demarcato dal mare, dall’antico fiume Sebeto e dai terreni nelle attuali Foria e Forcella, Neapolis fu opposta dai Cumani al più vecchio insediamento, la Palaios Polis, rivolta invece agli abissi marini e fondata dai Rodiesi tra i secoli IX e VIII aC (ventinove secoli fa) là dove è il Castel dell’Ovo-Monte Echia.
Neapolis, col suo “schema ippodameo”, è ancora fedele alle sue origini come nessuna metropoli occidentale. Questa non è una leggenda, ed è anche per questo patrimonio dell’Umanità UNESCO.
“Il Comitato ha deciso di iscrivere il bene considerando che il luogo è di eccezionale valore. Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse e la sua posizione strategica nella Baia di Napoli conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa.”
(motivazione di iscrizione nella lista dei patrimoni – luglio 1995)

Non mi sembra un caso che…
All’ingresso della Neapolis è la VIA DEL SOLE.
Il simbolo di Napoli, il cavallo sfrenato, è il CORSIERO DEL SOLE.
La Crypta Neapolitana del Parco Vergiliano, alle spalle del santuario della Madonna di Piedigrotta, veniva interamente attraversata da un raggio di SOLE solo due volte l’anno: in occasione degli equinozi di primavera e di autunno. Lì confluivano le primissime processioni di Piedigrotta e si venerava il DIO DEL SOLE MITHRA, il SOL INVICTUS (sole invincibile), nato in una grotta il 25 dicembre.
E, per arrivare ai più profani giorni nostri…
La canzone di Napoli nel mondo è ‘O SOLE MIO, ed esiste anche ‘O PAESE D’ ‘O SOLE.
Lo stadio di Fuorigrotta si chiamava inizialmente “DEL SOLE”, poi dedicato a un apostolo.
La fiction televisiva di Napoli, duratura e fortunata, si chiama “UN POSTO AL SOLE”.

neapolis

la suggestiva illustrazione propone il Vesuvio per come lo conosciamo oggi; in realtà era all’epoca a cono unico e molto più alto.

 

Un ribaltamento nazionale tra politica, Massoneria e Chiesa che ha per paradigma l’entrata di Garibaldi a Napoli

Angelo Forgione È il 7 Settembre 1860: la “Piedigrotta” è in pieno svolgimento. Da più di un secolo è la festa delle feste, famosissima in tutt’Europa. Lo è almeno dal 1744, cioè da quando Carlo di Borbone, per celebrare la vittoria di Velletri contro gli austriaci, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vista e narrata, ma questa volta i napoletani sono distratti da altro, perché l’evento coincide col culmine della risalita della Penisola da parte dei Mille garibaldini e Re Francesco II di Borbone, che ha appena lasciato Napoli per evitarle la guerra, sta andando a difendersi a Gaeta. Mentre il Re è in navigazione, a Napoli entra Garibaldi e si proclama dittatore delle Due Sicilie. Ad accoglierlo ci sono i capintesta della camorra del tempo e il prefetto di polizia borbonica e ministro degli Interni delle Due Sicilie, il trasformista Liborio Romano, che ha convertito i criminali in gendarmi di pubblica sicurezza, affidandogli il comando di una nuova Guardia cittadina. Il diplomatico inglese Henry George Elliot, del resto, ha già informato per tempo l’ufficio Esteri di Londra del fatto che diverse bande camorristiche sono pronte a contrastare con le armi la reazione dei fedeli alla dinastia borbonica, presidiando il porto in modo da facilitare l’ingresso dei volontari di Garibaldi. Il corteo al seguito del capo delle camicie rosse percorre via Marina, il Maschio Angioino, il largo di Palazzo (Plebiscito), poi su per via Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri, dal quale il Generale si affaccia prendendone possesso come dimora.
Ad accompagnare Garibaldi c’è fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano siciliano unitosi alla spedizione dei Mille e utilissimo per legittimare, attraverso la predicazione, l’impresa garibaldina presso le classi popolari e per favorire la coscrizione di volontari. Eppure il nizzardo è un gran massone, un rigidissimo anticlericale, e odia preti e uomini di Chiesa di ogni ordine e grado. E però vuole persino che si compia immediatamente il prodigio di San Gennaro in sua presenza, perché sa benissimo che solo così può guadagnarsi i favori incondizionati del popolo napoletano. Col Santo scontento non non può vedere completamente legittimato il suo potere. Del resto, è già accaduto sessant’anni prima, nel 1799, con i militari francesi di Championnet, ben informati dai giacobini napoletani, a “vigilare” sul compimento dello scioglimento del sangue.
Il giorno seguente, racconta Giacinto De Sivo, Garibaldi e i suoi trovano la Cappella del Tesoro sbarrata. Niente da fare. E allora, in serata, accompagnato dai camorristi, incrocia la processione della Madonna di Piedigrotta. Il massone, suo malgrado, si scappella di fronte all’Immacolata per non inimicarsi i napoletani, e viene giù un acquazzone fortissimo. Tocca aspettare il 19 settembre, giorno del Santo patrono, per timbrare di rosso garibaldino il prodigio. “Il sangue deve liquefarsi e si liquefarà – così dicono i predicatori garibaldini in largo di Palazzo – altrimenti a farlo liquefare ci penserà Garibaldi”. E così sia! Ancora un prodigio su ordinazione.
Liborio Romano viene confermato nel ruolo di Ministro dell’Interno e poi entra a far parte del Consiglio di Luogotenenza, per poi essere eletto deputato al nuovo parlamento di Torino. Ai camorristi della sciolta “guardia cittadina” viene assicurato un lauto vitalizio mensile in quanto “esempi inimitabili di coraggio civile nel propugnare la libertà”.
Quella dell’anno seguente sarà l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini, uomo impegnato nel frattempo a massacrare i meridionali ribelli. La festa sarà sospesa nel 1862 dopo aver decretato nel febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della Chiesa, compreso il santuario di Piedigrotta. Così tramonta la vera Piedigrotta, insieme a Napoli Capitale. Quella che riprenderà anni più tardi non sarà la grande festa nazionale di un tempo, e finirà per spegnersi, forse definitivamente. Il prodigio, invece, resta tradizione inossidabile, forse perché la Deputazione del Santo, dal 1811, è laica per volere del massone Gioacchino Murat.

“Piedigrotta”, cos’era e chi l’ha uccisa

Origine e fine della festa più antica d’Occidente

Angelo Forgione per napoli.com – Cos’è questa “Piedigrotta” silente, riesumata qualche anno fa per offrirla agli operatori turistici snaturandola sempre più del suo significato? Esplose persino il “botto” di Elton John, il baronetto-meteora che, per un compenso record, in una mezza giornata giunse a Napoli, suonò per i suoi fans al Plebiscito e ripartì al volo. Così si è ucciso l’ultimo ricordo oltre che la tradizione, ormai sbiadita e difficilmente recuperabile alle nuove generazioni. Meglio una “notte bianca” napoletana dove l’ingaggio della star internazionale poteva calzare a pennello senza svilire una leggenda che non doveva essere marchio, brand commerciale. Poi le contrapposizioni politiche e il fallimento dell’ultimo tentativo di stampo “bassoliniano”, che il nuovo vento di Palazzo Santa Lucia ridusse alle sole celebrazioni religiose e allo spettacolo pirotecnico. “Piedigrotta” muore e rivive, e poi spira nuovamente con Napoli e le sue tradizioni più belle.
Dici “Piedigrotta” e pensi ai carri e alle canzoni, ma la festa è ben altra cosa rispetto a come la conosciamo nella sua veste di inizio Novecento. Un appuntamento che ha origini lontanissime nei secoli e che per anni è stato la festa più famosa al mondo, ciò che oggi sono il carnevale di Rio e l’Oktoberfest di Monaco di Baviera. Fu meta dei ricchi turisti del “Grand Tour” a cavallo tra Sette e Ottocento che godevano dal vivo di quella che fu in quel periodo anche “Festa nazionale del Regno di Napoli”. Per questo, in molti pensano che la “Piedigrotta” nasca in epoca borbonica, ma in realtà ha origini antichissime e precristiane. La teoria più diffusa è che si tratti di celebrazioni dei riti orgiastici in onore al culto di Priapo ma, come spiega Maurizio Ponticello nel suo libro “I Misteri di Piedigrotta” edito da Controcorrente, si tratterebbe di un pretesto denigratorio per imbavagliarla. I segni “satanici” che riconducono a Priapo sono noti e non farebbero parte della vera tradizione di Piedigrotta. Più plausibile che la divinità collegata ai festeggiamenti della festa sia Dioniso al quale, nel mondo antico greco che pure ha dato origini a Napoli, erano dedicate le feste di vendemmia d’autunno. Ed è lo stesso Ponticello a fornir prova che le danze in onore di Dioniso e la stessa tarantella, più tardi inventata e adottata nelle festa, conservano gli stessi movimenti.
Ma andando ancor più all’origine e ai significati esoterici dei culti di Piedigrotta, si scopre che essa è con molta probabilità riconducibile alla celebrazione dei misteri del Sole e del culto mitraico legati al mito di Virgilio, di Napoli patrono prima di San Gennaro e mago ancora prima che letterato.
Nel XVI secolo fu infatti recuperato nel centro esatto della Crypta Neapolitana del “Parco Vergiliano”, alle spalle del santuario della Madonna di Piedigrotta, un bassorilievo del culto mitriaco, oggi visibile al Museo Archeologico Nazionale, in cui sono riportate le simbologie poi riprese nel corso del tempo dal Cristianesimo che avrebbe appunto “usato” Priapo per sovrapporre alla festa la simbologia dello stesso santuario e dell’apparizione della Madonna ai pescatori. Ed è proprio nel cuore della Crypta che confluivano le primissime processioni, nella cavità posillipina nel cui centro giunge un raggio di sole solo due volte all’anno, in occasione degli equinozi di primavera e di autunno.
Piedigrotta si è trasformata continuamente nei secoli, mistificata dalle bugie e le menzogne che nel tempo si sono accavallate e che ne hanno cancellato le origini e mutato lentamente i suoi connotati. Sovrapposizioni religiose e dinastiche dei vari regnanti hanno cavalcato la festa; il popolo, da protagonista, ne è divenuto man mano semplicemente spettatore. I carri erano del popolo, i canti erano del popolo; elementi caratteristici che sono stati sottratti ai veri protagonisti.
Come detto, la festa si sposa nel Settecento con la Napoli fulgida Capitale europea quando la vittoria di Carlo di Borbone a Velletri contro gli austriaci nel 1744 regala ai Regni di Napoli e Sicilia l’indipendenza. L’8 Settembre diventa “Festa nazionale del Regno di Napoli e del suo esercito” e la Madonna di Piedigrotta, il simbolo religioso della festa, viene rivestita di un significato dinastico ricoprendola di un manto azzurro, colore della casata borbonica. Da allora “Piedigrotta” diviene l’appuntamento per stringersi attorno alla Nazione Napolitana, una celebrazione ben organizzata e ricca di sfarzose parate militari. È un’occasione unica per il popolo della città e delle province per unirsi alla nobiltà e alla corte nei festeggiamenti per le strade, insieme ai turisti che giungevano per toccare con mano ciò di cui si sentiva parlare in tutto il continente.
Con la risalita dei mille di Garibaldi e con l’unità d’Italia, la festa paga il significato che assume durante il regno borbonico. Garibaldi entra a Napoli proprio in piena Piedigrotta del 1860 e quella dell’anno seguente è l’ultima vera festa. I Savoia, infatti, la sospendono nel 1862 dopo aver soppresso tutti i conventi e confiscato i beni mobili e immobili della chiesa, compreso il santuario di Piedigrotta i cui canonici vengono liquidati con un modesto vitalizio.
La festa rinasce qualche decennio più tardi ma, in quanto rito, conosce paradossalmente la sua fine con l’avvento del fiorente business delle industrie discografiche poiché viene convogliata in un canale di canzoni che sostituiscono i canti del popolo. Così Napoli guadagna il suo grande patrimonio musicale ma perde definitivamente la vera essenza della sua famosa festa. I carri, una volta spogli e allestiti sobriamente coi prodotti della terra dagli abitanti delle zone limitrofe che confluivano a Napoli per i festeggiamenti, diventano nel 1894 i carri allegorici a soggetto di carta pesta. Il popolo non sfila e non canta più, ed è così che perde il suolo ruolo di protagonista. Seppur lentamente, la festa finisce col perdere definitivamente i suoi connotati e la sua importanza, le sue tradizioni e il suo fascino. E arriva qui, all’equivoco Elton John, ultima spallata alla memoria collettiva e nuovo requiem.

Quando Napoli portò la canzone a Sanremo e inventò il Festival

sanremo_1932

Angelo Forgione – Vi siete mai chiesti perché il Festival della canzone italiana si tiene a Sanremo? Perché proprio lì, in un piccolo paese di cinquantamila abitanti, e non in una delle capitali italiane della musica? Perché non nella vicina Genova, oppure Bologna, o magari Napoli? Già, Napoli, la città di chi il Festival di Sanremo l’ha partorito. La storia inizia nel periodo natalizio del 1931, in un momento di massima espansione turistica della cittadina ligure, quando il concessionario del Casinò municipale, il napoletano Luigi De Santis, attaccatissimo alle sue origini, su consiglio del commediografo Raffaele Viviani, convinse il poeta e paroliere Ernesto Murolo e il musicista Ernesto Tagliaferri, entrambi impegnati nella produzione del repertorio partenopeo, a portare la Canzone di Napoli là, a Sanremo. E così fu messa in piedi una kermesse natalizia intitolata Festival partenopeo di canti, tradizioni e costumi. Dal 24 dicembre 1931 al 1 gennaio 1932 andò in scena una settimana di sole canzoni napoletane del Settecento, Ottocento e Novecento, interpretate da voci quasi interamente partenopee, senza gara né vincitori. Tutto documentato dalle immagini archiviate dall’Istituto Luce.

Fu il primo festival sanremese, un numero zero napoletano, cui assistette tra gli spettatori un giovane floricoltore locale, il ventenne Amilcare Rambaldi, la stessa persona che, una ventina d’anni più tardi, incaricato di proporre idee per il rilancio del Casinò dopo la guerra, nel ricordo del successo goduto di persona, pensò di rispolverare l’idea di una rassegna musicale nel salone delle feste della casa da gioco, chiusa nel giugno del 1940, giorno della dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Rambaldi ispirò il giornalista e conduttore radiofonico torinese Angelo Nizza, da poco nominato direttore artistico del Casinò insieme al napoletano Mario Sogliano. Nizza colse il suggerimento, optando per le canzoni italiane, e insieme a Rambaldi andò a parlarne con Pier Busseti, gestore della struttura e presidente dell’Associazione Turistico Alberghiera. Partì presto una telefonata alla Rai di Torino per capire se l’idea potesse interessare alla radio nazionale. La proposta piacque, anche perché la canzone poteva contribuire alla ricostruzione dello spirito dopo la guerra, ma bisognava creare una gara a carattere competitivo per avvincere il pubblico. E così fu messa in moto la macchina organizzativa del Festival di Sanremo, inaugurato il 29 gennaio del 1951 nella stessa sede dell’antesignano partenopeo. Le case discografiche napoletane non stettero a guardare e sollecitarono alla Rai un festival in salsa partenopea. Otto mesi dopo la manifestazione sanremese, a Napoli, uscita in macerie dai violenti bombardamenti, prese il via anche il Festival della canzone napoletana, nella cornice del Teatro Mediterraneo, all’interno della moderna Mostra d’Oltremare. Il ponte musicale fece andare su e giù, tra Sanremo e Napoli, gli autori e gli interpreti; artisti napoletani a cantare in italiano in Liguria e cantanti nazionali ad esibirsi in lingua partenopea in Campania, per la gioia delle case discografiche, a quel tempo tutte di Napoli. Non fecero diversamente i presentatori, a partire da Nunzio Filogamo, passando per Enzo Tortora, Mike Bongiorno, Pippo Baudo, Corrado e Daniele Piombi.
Fu un successo condiviso, passato dalla radio alla televisione, ma ad affermarsi di più fu la manifestazione sanremese, con la sua cittadina che beneficiò della frequentazione di personaggi famosi, vedendo crescere in modo notevole il turismo. Quella napoletana, invece, andò lentamente consumandosi in un ventennio a causa di gravi errori artistici e organizzativi. Dopo che ebbe preso il posto della rassegna musicale abbinata alla gloriosa Festa della Piedigrotta, i manager, in gran parte del Nord Italia, imposero agli autori e agli editori il pagamento di una tassa esosa per accedere a una gara decisa a tavolino e falsata da raccomandazioni che promuovevano brani privi di spessore artistico e cantanti non napoletani dalla dizione spesso disastrosa. Gli artisti di grido che vi partecipavano iniziarono a scarseggiare, i testi diventarono sempre più ricchi di stereotipi su Napoli e le sonorità si andarono ad allineare alle mode della musica leggera nazionale. A subirne le conseguenze non fu solo il Festival di Napoli, responsabile di un decadimento evidente, ma la stessa Canzone napoletana, minata nella sua sopravvivenza dall’attività degli editori napoletani, i quali finirono per considerare quella gara l’unico canale promozionale dei brani. In ogni caso, la formula della competizione in pochi giorni non si addiceva a Napoli, le cui canzoni avevano sempre raggiunto il successo nelle strade della città per poi diffondersi nel mondo. Nelle diciotto edizioni del Festival di Napoli furono presentati circa quattrocento brani musicali, ma pochi riuscirono ad emergere e ad inserirsi nel repertorio.
Il carrozzone si interruppe nel 1971 per la contestazione degli autori esclusi e le denunce di brogli. La Rai ritirò le telecamere e impedì lo svolgimento della gara, decretando il tramonto del Festival di Napoli. A danni fatti, riuscirono a tenere in vita la grande tradizione artisti irriducibili come Roberto Murolo, Sergio Bruni e Roberto De Simone, pur con stili diversi, e poi i più moderni Renato Carosone e Peppino di Capri, con le loro contaminazioni straniere capaci di proporre nuovi stili a tutto il panorama musicale della Penisola, che assisteva alla consacrazione del Festival di Sanremo come evento nazionale della cultura pop italiana da spostare, nel 1977, dal Casinò al Teatro Ariston e poi da esportare all’estero in Eurovisione. Grazie a quegli artisti, la fiammella napoletana restò accesa negli anni Settanta, periodo in cui il mercato discografico nazionale impattò con la musica straniera e iniziò a ignorare la produzione napoletana, fin lì ossequiata. Per i cantanti italiani di musica leggera e lirica che fino ad allora avevano dovuto cimentarsi nel canto napoletano divenne necessario dedicarsi all’inglese e allo spagnolo per aggredire i mercati discografici internazionali. L’esigenza linguistica provocò la “distrazione” degli artisti napoletani e favorì l’avvento di una sottocultura melodica napoletana, cui furono consegnati perniciosamente gli spazi prima dedicati a una ricchissima tradizione, ormai fagocitata da feste di piazza e nuovi stili di canto melodico rispondente a una fascia sociale meno colta.
Il rilancio stilistico avvenne negli anni Ottanta e Novanta, partendo dall’innovativo e sperimentale Neapolitan Power simboleggiato dal rivoluzionario Pino Daniele, autore di capolavori contemporanei in vernacolo agli antipodi del tipico sound partenopeo, ma poi anch’egli indebolito nel linguaggio vocale e sonoro dall’aspirazione di maggiore penetrazione sul circuito commerciale nazionale. Quando la fonte degli artisti napoletani sembrò ormai essersi definitivamente esaurita, provvidenziale fu il ritorno all’antico di Renzo Arbore, eclettico artista foggiano di formazione partenopea, con la sua rivisitazione del repertorio classico contaminato dal jazz e dal blues, col supporto di eccellenti individualità napoletane capaci di rendere la sua Orchestra Italiana il nuovo veicolo nel mondo della tradizione. È anche grazie a lui che la canzone napoletana contemporanea è ancora viva e vegeta, continuando a ricercare e sperimentare, mentre i suoi classici immortali insistono a girare il globo, veicolando la lingua e lo stile di una delle capitali internazionali della musica. La canzone in lingua nazionale era ormai radicata di casa a Sanremo, al teatro Ariston, ormai tempio immemore della sua genesi partenopea. Su quel palco, nel febbraio 2012, fece l’ultima apparizione pubblica un certo Lucio Dalla da Bologna, dodici giorni prima della sua scomparsa. Uno dei tanti giganti folgorati della Canzone napoletana, restandone radicalmente influenzato nella seconda parte della sua vita artistica:

«Ho avuto la fortuna di fare un concerto con Ray Charles, che è stato il mito della mia giovinezza, di suonare con grandi artisti internazionali. Ma quando ho avuto la possibilità di passare una sera con Roberto Murolo e sentirlo cantare mi è venuta in mente tutta l’estetica e i contenuti della bellezza del mondo. La Canzone napoletana non ha rivali al mondo!
Quella napoletana è la musica più importante del Novecento. Altro che Beatles. Dobbiamo tornare a noi, e smettere di essere provinciali scopiazzando all’estero.»

Approfondimenti e altre storie su Made in Naples (A. Forgione – Magenes, 2013)

8 Settembre, buona Piedigrotta a tutti!

8 Settembre, buona Piedigrotta a chi non dimentica
Tradizione cancellata, ricordo e storia no! E ora San Gennaro…

Angelo Forgione – Non tutti lo ricorderanno, ma oggi ricorre la celebrazione religiosa della Madonna di Piedigrotta. L’antichissima festa popolare era stata rispolverata sia pure con un format che niente aveva a che vedere con la sua storia, per poi sparire di nuovo. E per fortuna, direbbero i puristi della tradizione partenopea come noi. Dopo le polemiche degli anni scorsi, la precedente amministrazione comunale ormai disinteressata e al capolinea non ha presentato, entro la scadenza di Maggio scorso, alcun progetto per ottenere i fondi europei messi a disposizione della Regione. E anche l’attuale amministrazione De Magistris pare non sia orientata a rivalutarla nei prossimi anni.
Nata per celebrare i misteri del Sole del culto mitriaco, legata al mito di Virgilio e poi trasformata nei secoli dalla religione imperante, la festa ha toccato il picco popolare nel ‘700 del “Grand Tour” per poi veder declassata la Madonna dei pescatori di Mergellina in epoca risorgimentale quando fu cancellata dai Savoia perchè festa nazionale delle Due Sicilie per volontà dei Borbone. C’è ora all’orizzonte un declassamento anche di San Gennaro al quale si vorrebbe chiedere, ma invano, di spostare il suo miracolo. E tutti sul piede di guerra per la manovra del governo che non ha alcun rispetto delle tradizioni secolari e, men che meno, di un Santo che compie un miracolo senza comando. Il gruppo Lunaset ha promosso una petizione su Facebook per chiedere al premier Silvio Berlusconi di tener conto della specificità della ricorrenza.
Tornando alla Piedigrotta, le celebrazioni eucaristiche hanno già preso il via il 3 Settembre con la Messa dei pescatori in onore della Madonna officiata dal Cardinale Crescenzio Sepe. I festeggiamenti solenni si concluderanno il 12 Settembre nel Santuario di Piedigrotta.

La fine di Piedigrotta 

il bellissimo booktrailer de “I Misteri di Piedigrotta” di Maurizio Ponticello

150 anni fa entrava Garibaldi a Napoli, finiva il Regno delle Due Sicilie e la “Piedigrotta”

150 anni fa entrava Garibaldi a Napoli, finiva il Regno e la “Piedigrotta”

7 Settembre 1860, sfilata del “dittatore” in cattiva compagnia

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di Angelo Forgione

7 Settembre 1860: la “ Piedigrotta”, anche festa nazionale delle Due Sicilie, è in pieno svolgimento quando, al culmine della risalita della penisola da parte dei “mille garibaldini”, Re Francesco II di Borbone lascia Napoli per evitare sofferenze al suo popolo. Nello stesso giorno, mentre il Re delle Due Sicilie è in navigazione verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno, entra a Napoli Garibaldi che si reca a portare omaggio alla Madonna per simpatizzare coi napoletani. Quella data è da considerarsi a tutti gli effetti come l’inizio del potere camorristico in città.

Le sommosse in Sicilia e le pressioni di Inghilterra e Francia sotto la spinta delle massonerie avevano convinto Francesco II a ripristinare la costituzione del 1848 e a promulgare un’amnistia che restituiva la libertà a un gran numero di camorristi. La camorra di allora non era quella di oggi, potente e ramificata, ma un’attività dedita ad affari di quartiere.
Francesco II nominò Ministro di Polizia Liborio Romano, un liberale pugliese, che subito dopo l’incarico contattò in segreto l’amnistiato capintesta della camorra Salvatore De Crescenzo, detto “Tore ‘e Criscienzo”, chiedendogli di radunare tutti i capi-quartiere della città affinchè gli facessero visita. Si trattò di un’assemblea in cui si sancì il primo caso di connivenza tra Stato e malavita organizzata proprio sul nascere della nazione unita. Liborio Romano, corrispondente di Cavour, avrebbe favorito l’ingresso di Garibaldi per poi diventare Prefetto mentre il camorrista “Tore’e Criscienzo” sarebbe divenuto Questore a capo della guardia cittadina costituita per intero da malavitosi col compito di garantire l’ordine pubblico in una città in fermento.

I camorristi assoldati dalla nascente nazione si distinguevano da una coccarda tricolore appuntata sul cappello. Seguirono giorni di tumulti e assalti ai commissariati napoletani per distruggere gli archivi; coloro che si opponevano venivano considerati nemici della patria e ricevevano bastonate.

Il 7 Settembre 1860, dunque, Garibaldi entrò in Napoli a bordo del treno borbonico, sotto l’occhio attento delle guardie camorristiche. In testa al corteo che seguiva la carrozza del “dittatore delle Due Sicilie” figurava proprio il questore capintesta “Tore ‘e Criscienzo”. Via Marina, Maschio Angioino, Largo di Palazzo (Plebiscito) e breve discorso. Poi su per Via Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri dal quale si affacciò e ne prese possesso come dimora. Il giorno seguente il Generale si recò a far visita alla Madonna di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia. Per volontà divina, Garibaldi, il ministro “doppia faccia” Liborio Romano e tutti i camorristi di guardia furono accolti da un tremendo temporale che inzuppò il corteo alla volta del santuario.

Quella dell’anno seguente fu l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini, uomo impegnato in quel periodo a massacrare migliaia di meridionali patrioti tacciati per questo col marchio di briganti. I Savoia, tra i tanti demeriti, ebbero anche quello di sospendere la festa nel 1862 dopo aver decretato nel Febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della chiesa. Fu coinvolto ovviamente anche il santuario di Piedigrotta i cui canonici furono liquidati con un piccolo vitalizio.

Finiva così la Piedigrotta, finiva Napoli Capitale. Quella che riprenderà anni più tardi non sarà più la grande festa nazionale che i visitatori del “Gran Tour” si recavano un tempo a vivere di persona.

Le Vuvuzelas? “Trummettelle” inventate a Napoli!

Le Vuvuzelas? “Trummettelle” inventate a Napoli!

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L’UEFA le vieta, Napoli le ha dimenticate.


di Angelo Forgione

Sono state il tormento dello scorso campionato mondiale di calcio. In molti hanno tirato un sospiro di sollievo quando la Spagna ha alzato al cielo la coppa del mondo perché di quel ronzio fastidioso irradiato dagli altoparlanti dei televisori proprio non se ne poteva più. Tutta colpa delle famigerate “vuvuzelas”, le trombette di plastica che hanno marchiato la manifestazione iridata sudafricana.

Certamente simbolo del folklore locale, cavalcato da quella vecchia volpe del presidente FIFA Blatter che non si è fatto sfuggire l’occasione di crearne ingombrante argomento di discussione. E così il fastidioso frastuono pare sia stato riprodotto artificialmente tramite dei diffusori ben nascosti negli impianti sportivi in cui si svolgevano le partite. La teoria delle presunte “registrazioni” è stata avvalorata dai giornalisti presenti sui vari campi, che hanno affermato che nonostante sentissero il suono delle trombette molto vicino a loro, non c’era traccia di “vuvuzelas” nei paraggi. L’intensità sonora si protraeva con la stessa frequenza per tutti i 90 minuti di gioco, senza variare nemmeno nelle fasi più concitate dei match, mentre come per magia spariva durante l’esecuzione degli inni nazionali. La prova del nove fu offerta dalle telecamere della RAI che, prima delle partite, inquadravano gli stadi vuoti in cui era comunque percepibile il frastuono delle “vuvuzelas” anche due ore prima dall’inizio dei match.

Il fenomeno è però sfuggito di mano e le “vuvuzelas” hanno cominciato a fiorire altrove, anche in Europa. E visto che un fenomeno “pericoloso” può neutralizzarlo solo chi lo ha creato, ecco che l’UEFA, costola della FIFA, ha appena bandito l’uso delle “vuvuzelas” negli stadi con un tempismo ineccepibile. Le trombette sudafricane non potranno entrare negli stadi europei per ragioni legate «alla tradizione e alla cultura del calcio europeo, perchè l’atmosfera delle partite verrebbe cambiata dal suono delle vuvuzelas». Niente ronzio quindi in Champions League, Europa League e nelle partite di qualificazione agli Europei del 2012. «Nel contesto specifico del Sud Africa le “vuvuzelas” aggiungono un tocco di colore locale e di folklore, ma la Uefa crede che l’uso diffuso dello strumento non sarebbe appropriato in Europa – si legge in un comunicato ufficiale – dove un rumore forte e continuo in sottofondo verrebbe amplificato».

Folklore sudafricano, dunque. Ma siamo proprio sicuri che le rumorose trombette siano un’invenzione sudafricana? Nello stato di Mandela, le origini dell’oggetto sono state rivendicate dai battisti appartenenti alla chiesa battista di Nazareth secondo i quali l’invenzione delle “vuvuzelas” è da attribuire al profeta Isaiah Shembe che le diffuse a inizio novecento durante alcuni riti religiosi. Ma come spesso accade, giunge la storia e la tradizione folkloristica di Napoli, una città che ha fatto scuola nel mondo in molti campi, a mettere in dubbio la paternità delle rumorose trumbette a fiato.

In realtà la “vuvuzela” non è altro che una copia della caratteristica “trummettella” usata dai ragazzini napoletani nelle celebrazioni della festa di Piedigrotta e la cui esistenza è testimoniata da racconti scritti della festa napoletana in epoca borbonica, quindi a cavallo tra sette e ottocento, prima del periodo di rivendicazione dai religiosi sudafricani.

La “trummettella” è descritta nelle testimonianze dell’epoca come un cono di latta grossolanamente dipinto che emette una sola stridula nota” e la si può vedere in alcune fotografie della “Piedigrotta” di inizio secolo (nella foto, archivio fotografico Parisio).

A Napoli erano usate una volta all’anno per far festa in strada e per rendere “la festa delle feste” allegra e vivace, non per rompere costantemente i timpani allo stadio… e a casa davanti la tv.