Napoli che votò monarchia nel ’46 cancella Vittorio Emanuele III ma Emanuele Filiberto non ci sta

Angelo Forgione per Napoli freepress È in dirittura d’arrivo il percorso iniziato nel 2015 dalla giunta De Magistris per il cambio toponomastico della strada prospiciente il Castel Nuovo, sottratto a Vittorio Emanuele III e assegnato a Salvatore Morelli, liberale pugliese, massone e avversario di Ferdinando II di Borbone. Un passaggio di consegne non troppo rivoluzionario nei significati politici ma certamente clamoroso per l’importanza del personaggio spodestato, il terzo re dell’Italia unita. In suo soccorso è giunto il discendente Emanuele Filiberto, con una lettera pubblicata sulle pagine de Il Mattino in cui è contenuto il lamento indirizzato al sindaco di Napoli per la decisione, inoltrandosi in un vicolo cieco della storia, una strada senza uscita.
Il principe basa la sua dolente rimostranza sui risultati del referendum istituzionale del Giugno 1946, allorché la monarchia ebbe a Napoli quasi l’ottanta per cento dei consensi, e sul fatto che per circa un decennio, fino ai primi anni Sessanta, un partito dichiaratamente monarchico governò la città. Due furono i motivi di quel coro partenopeo pro-Savoia che ancora oggi fa discutere l’Italia intera.
Primo motivo fu il retaggio storico dei napoletani, storicamente legati alla forma monarchica e poco inclini a quella repubblicana. Ospitare un re in città nutriva ancora l’antico ricordo di una capitale e di un regno ormai scomparsi, un regno che aveva portato il nome della città stessa. Strano a dirsi, ma Vittorio Emanuele III aveva mostrato amore per Napoli, la sua città di nascita. Ne parlava ottimamente il dialetto, e del resto qui era stato messo a mondo l’11 novembre del 1869, e alla Scuola militare “Nunziatella” era stato allevato. Conosceva anche il piemontese ma, ancor più strano a dirsi, non amava troppo il Piemonte. Prima di ereditare il trono d’Italia, era stato il Principe di Napoli, titolo nobiliare affascinante per la gente della città, quantunque fosse subalterno e simbolo di una chiara sudditanza poiché spettante al primogenito del Principe di Piemonte, ovvero dell’erede al trono d’Italia. Quel titolo, sin dall’annessione del Sud al Regno di Sardegna, aveva avuto sempre l’intento di rafforzare fra i napoletani il sentimento patriottico di matrice piemontese.
Un altro fattore, secondario ma non poco incisivo sulla maggioranza bulgara dei monarchici napoletani e del resto del Mezzogiorno, fu rappresentato dalle manipolazioni politiche del ministro dell’Interno, il repubblicano piemontese Giuseppe Romita, che orchestrò le prime elezioni amministrative dopo la dittatura fascista in modo da mettere in secondo piano l’espressione dei meridionali. Quelle consultazioni si svolsero, fatto fondamentale, poco prima del referendum, ma non dappertutto. Le votazioni furono distribuite non in una sola tornata ma, irregolarmente, in due momenti, il primo in primavera e il secondo in autunno, a distanza di mesi, in modo da piazzarvi in mezzo proprio il più importante referendum del 2 e 3 giugno per scegliere tra la monarchica e la repubblicana. Il clima politico di quei mesi lo espresse il socialista Pietro Nenni: «O la repubblica o il caos». Liberata l’Italia dal Nazifascismo e dalla furia distruttiva anglo-americana, bisognava liberarsi anche dei Savoia.

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I napoletani e tutti i meridionali, quindi, si videro pure aggirati ed estromessi dalle scelte politiche, tutte ormai dominate dal “vento del Nord”, definizione coniata in quei frangenti per definire la spinta politica settentrionale alla destituzione della monarchia e alla svolta democratica, accusando la strategia del ministro Romita, da lui stesso spiegata in seguito: mettere in minoranza il Sud, storicamente legato alla forma monarchica, facendo votare immediatamente il Nord alle amministrative prima che si votasse per il referendum, il quale si sarebbe svolto con i primi risultati, prevedibilmente filo-repubblicani, delle elezioni amministrative nel Settentrione. Furono mandate molto presto al voto locale le città di tendenza repubblicana, Milano compresa, la più filo-repubblicana, quella che era stata la sede in Alta Italia del Comitato di Liberazione Nazionale e che, a guerra finita, risultava a tutti quale primaria roccaforte del nuovo corso politico repubblicano. I milanesi votarono il 7 aprile, mentre si fecero votare dopo il referendum i napoletani, il 10 di novembre, sette mesi più tardi, come un po’ tutte le città del Sud, tendenzialmente filo-monarchiche, evitando così che un risultato anti-repubblicano potesse condizionare altre città nella consultazione sull’istituzione statale.
Il referendum spazzò via, dopo ottantacinque anni di regno indegno, la Corona sabauda, colpevole negli ultimi venti di aver dato il potere al Fascismo e poi di aver abbandonato la nave fuggendo dalla Capitale. A pesare di più fu proprio la volontà delle regioni settentrionali: in tutte le province a nord di Roma, tranne Cuneo e Padova, prevalsero le preferenze per la repubblica. Nelle restanti a sud, tranne Latina e Trapani, vinsero quelle per la monarchia. Ancora una conferma di quanto fosse nettamente diviso il Paese. Milano si espresse in gran maggioranza, per quasi il settanta per cento, a sostegno della forma repubblicana. Napoli si proclamò la città più monarchica d’Italia, con un risultato record che sfiorò l’ottanta per cento, ma in realtà non tutti i votanti credevano veramente nel Re come rappresentante unitario della nazione. Per alcuni, più che di effettiva affezione ai Savoia, si trattò di dare uno schiaffo alla classe politica settentrionalista che marginalizzava il Sud da ormai ottant’anni e di un’espressione di protesta contro un Nord guidato da Milano che influenzava le scelte e decideva le sorti dell’Italia.
A risultati accertati, tra mille polemiche di brogli, il fronte monarchico del capoluogo campano insorse in via Medina, dove si trovava la sede del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti. Sotto ordine giunto da Roma, la polizia sparò ad altezza d’uomo. In nove persero la vita e undici tra i circa centocinquanta feriti morirono in agonia, senza processo e giustizia. Per placare gli animi e “risarcire” la città, il 28 giugno l’Assemblea Costituente mise a Capo dello Stato un monarchico napoletano, Enrico De Nicola, eletto al primo scrutinio con circa il settantacinque per cento dei suffragi dopo aver votato egli stesso a favore della monarchia, convinto dalla necessità di assicurare un trapasso meno traumatico possibile al nuovo sistema e di proporre ai filo-monarchici meridionali una figura capace di riscuoterne il gradimento.
Nella sua lettera, Emanuele Filiberto scrive anche che “la storia non si affronta a colpi di censura” e che “le rimozioni toponomastiche sono una forma tipica di ogni sistema illiberale che pensa di sviare il dialogo con il proprio passato a colpi di bianchetto”. È esattamente il presupposto per cui condannare la cancellazione della toponomastica borbonica operata dai suoi antenati, a partire dall’elegantissimo corso Maria Teresa in corso Vittorio Emanuele, pure rovinato da un secondo tratto post-unitario verso la Cesarea edificato in spregio alla vista panoramica che i Borbone avevano preservato sul primo, e la differenza la si notare a vista d’occhio. Furono proprio i Savoia a cancellare per primi i nomi di quelle strade che erano intitolate alla dinastia decaduta, abbattendo gli stemmi gigliati e apponendo lapidi e statue per l’edificazione della nazional piemontesizzazione. Il giglio del granducato e il leone di San Marco lo lasciarono in bella vista sui palazzi di Firenze e Venezia, ma a Napoli lo scudo sabaudo lo sostituirono a ogni stemma gigliato delle Due Sicilie, magari coperto, come l’effigie reale borbonica posta sull’arco scenico del Real Teatro di San Carlo, poi riscoperta e ripristinata nel 1980. Impossibile ripristinare il palco reale, marchiato a rilievo dalla croce sabauda, usurpatrice della magnificenza della bellissima tribuna coronata.
Emanuele Filiberto dovrebbe sapere almeno che il suo Vittorio Emanuele III era segretamente legato alla Gran Loggia d’Italia, avvalorata da una comunione nazionale in una Conferenza mondiale dei Supremi Consigli di rito scozzese, e che fu quella loggia ad accreditare Mussolini presso le importanti massonerie britanniche e americane. Ma quando il Duce si oppose alle organizzazioni massoniche, queste gli misero contro il Re d’Italia, il quale ne ordinò l’arresto nel 1943, sostituendolo col massone Pietro Badoglio. E se l’amata Napoli, la città più bombardata d’Italia, fu rasa letteralmente al suolo, con morti e conseguenze sociali ancora oggi drammaticamente vive, fu anche a causa di quel re pupazzo, Vittorio Emanuele III, che concordò e siglò segretamente l’armistizio con gli Alleati anglo-americani a luglio, ma l’accordo fu reso noto solo qualche mese dopo per insistere ancora nella strategia psicologica finalizzata a stimolare la disapprovazione popolare nei confronti di Mussolini per la decisione di seguire la Germania di Hitler in guerra. Il piano, concertato tra Washington e Londra, fu accettato in modo occulto anche dalla Casa Reale a Roma e, soprattutto, dalla Massoneria italiana in cerca di riscatto. Tutti corresponsabili di immotivate vessazioni sulla pelle e sulle vite della popolazione, Vittorio Emanuele III in primis.
Emanuele Filiberto avverte infine che Napoli ha molti problemi più urgenti e prioritari della crociata toponomastica, perché tanti giovani non trovano un lavoro e la criminalità organizzata non accenna a deporre le armi contro lo Stato. Drammaticamente vero, ma tutto ebbe inizio con l’invasione sabauda al Sud, con la cancellazione di Napoli Capitale, con il patto scellerato con l’allora contenibile camorra voluto dell’amico di famiglia Garibaldi, usato e poi licenziato a lavoro ultimato, e con il cagionato inizio dell’emigrazione.
Emanuele Filiberto si accontenti dello scippo del parto della pizza “margherita”, dazio pagato per pubblicizzare la salubrità dell’acqua e dei cibi assicurata dopo il colera del 1884 dal nuovo acquedotto del Serino. Si accontenti dell’efigie marmorea dei Savoia all’ingresso di Palazzo Reale, dove una statua, quella di un suo avo, è l’unica minacciosa con spada sguainata. Si accontenti di ciò che ancora è intitolato alla sua casata, ed è sempre tanto, finché il tempo non lo spazzerà via inesorabilmente, perché per Umberto I, che finì ammazzato al quarto attentato dopo aver seminato malcontento in lungo e in largo, e per il minaccioso Vittorio Emanuele II si potrebbe suonarla come per “sciaboletta”. È verissimo che la storia non si censura, e infatti la si deve raccontare a fondo, soprattutto quando risulta manipolata per processo di edulcorazione.

Napoli e San Pietroburgo, un legame storico da ricordare nel dolore

Angelo Forgione Un mazzo di fiori ai piedi dei Cavalli Russi di Napoli. Così abbiamo voluto dimostrare la nostra vicinanza al popolo di San Pietroburgo, città che ha un legame speciale con Napoli, evidenziato proprio da quelli che vengono comunemente ed erroneamente chiamati “cavalli di bronzo”.
L’omaggio alle vittime dell’esplosione nella metropolitana di San Pietroburgo è stato promosso da La Radiazza (Radio Marte) di Gianni Simioli e dal consigliere regionale Francesco Borrelli dei Verdi. Hanno partecipato, oltre a chi scrive, anche il patron del Gambrinus Antonio Sergio e il collega Massimiliano Rosati, il consigliere comunale Stefano Buono e il console russo Vincenzo Schiavo, che ha voluto portare i ringraziamenti per il gesto a nome della comunità russa, tra l’altro molto numerosa a Napoli.

Il luogo scelto è fortemente simbolico. I due Cavalli Russi di bronzo, raffiguranti dei palafrenieri a domare i cavalli, oggi posti di fronte al Maschio Angioino, furono donati dallo Zar Nicola I al re Ferdinando II di Borbone nel 1846, e sono copia esatta di due dei quattro scolpiti dal russo Pjotr Klodt Von Jurgensburg, precedentemente piazzati alle estremità del ponte Anickov, sul fiume Neva di San Pietroburgo. Lo Zar era stato affettuosamente ospitato a Napoli alla fine del 1845 per consentire alla malata zarina di giovarsi del clima della Sicilia. Napoli era già la culla dei migliori talenti russi della musica, della pittura e della scrittura, mentre i Napolitani Giovanni Paisiello, Tommaso Traetta e Domenico Cimarosa, nel secondo Settecento, erano stati maestri di cappella e direttori dei Teatri imperiali dell’allora capitale russa, recentemente resa neoclassicheggiante dall’architetto di origine napoletana Carlo Domenico Rossi, naturalizzato e russificato Karl Ivanovic perché figlio di una ballerina russa di scena a Napoli. Al teatro Alexandrinsky, realizzato dal Rossi con facciata molto somigliante a quella del San Carlo di Antonio Niccolini, e intitolato alla zarina, furono replicati i successi napoletani, ma il gemellaggio culturale Napoli-San Pietroburgo divenne anche commerciale, cosicché a Kronstadt, una località isolana di fronte la capitale di Russia, fu realizzata una fabbrica siderurgica identica a quella di Pietrarsa, tanto ammirata dallo Zar, mentre a Napoli giunsero grandi forniture di eccellente grano duro russo di tipo Taganrog per le eccellenti lavorazioni della pasta. Insomma, un vero e proprio ponte tra le due capitali di allora, un’amicizia che andava ricordata oggi, con San Pietroburgo colpita a morte.

Mattarella a Pietrarsa. Moretti (FS): «Ferdinando II sovrano illuminato»

Il Museo ferroviario di Pietrarsa «è un posto che lascia senza fiato». Sono le uniche parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla visita dell’ex opificio siderurgico borbonico, luogo della prima mitica tratta ferroviaria italiana Napoli-Portici e oggi sede espositiva appena ristrutturata.
A colpire di più sono state le parole del presidente della Fondazione FS Mauro Moretti, nel suo discorso al pubblico: «Ferdinando II un sovrano illuminato e lungimirante, che volle emancipare le Due Sicilie dalla dipendenza inglese e fece di Pietrarsa la Silicon Valley della tecnologia dell’epoca». Distante dai canoni narrativi della storia risorgimentale, una diversa lettura del Re che industrializzò il Regno delle Due Sicilie prima dell’invasione piemontese. E ancora: «I lavoratori di Pietrarsa, consapevoli del patrimonio industriale qui installato e della relativa superiorità tecnologica raggiunta, lottarono contro la delocalizzazione delle attività a vantaggio dell’industria del nord voluta dai sabaudi, fino alla carica dei bersaglieri che causò numerosi morti e feriti gravi».

commento a La Radiazza (Radio Marte)

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Discorso di Mauro Moretti a Pietrarsa

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servizio del TGR Campania

Quando Garibaldi fu “licenziato” da Vittorio Emanuele II

Tratta dal portale Vesuvio Live, una mia analisi sui reali significati dello storico incontro del 26 ottobre 1860 tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano, o meglio a Vairano.

► Clicca qui per leggere.

vairanoRicostruzione del “licenziamento” di Garibaldi da parte di Vittorio Emanuele II nello sceneggiato Garibaldi il Generale del 1987

La galleria che Napoli non sa meritarsi

gallerie_milano_napoliAngelo Forgione Confronto tra gallerie urbane più belle d’Italia, quelle di Milano e Napoli. La ‘Vittorio Emanuele II’ e la ‘Umberto I’, eleganti passaggi commerciali del secondo Ottocento sotto forma di camminamento coperto da vetro e ferro. Portano nomi sabaudi per questioni di opportunismo edilizio più che per convinta devozione ai Savoia, in particolar modo a Milano, che di Torino era ed è tuttora rivale. I permessi di espropriazione dei vecchi edifici che sorgevano al posto dei due salotti cittadini erano rilasciabili solo per decreto reale e timbrare ad imperitura memoria piemontese le nuove opere apriva una corsia preferenziale per i regi decreti. Milano accelerò sviolinando all’inviso monarca, primo Re d’Italia. Napoli ne ossequiò il figlio in epoca di Risanamento, bisognoso di simpatie dopo che l’anarchico meridionale Giovanni Passannante, rabbioso per le disillusioni risorgimentali, aveva tentato di ucciderlo in via Toledo. In entrambi i casi l’esigenza pubblica fu quella di riattare delle aree cittadine centrali in pessime condizioni. A Milano sorgeva un complicato, sudicio e insicuro quartiere medievale, al posto del quale si invocava una collegamento diretto tra la piazza del Duomo e il Teatro alla Scala. A Napoli c’era da bonificare l’antico rione tra via Toledo, il Teatro San Carlo e il Maschio Angioino, dove tra il 1835 e il 1883 erano scoppiate ben nove epidemie di colera.
Progetti avveniristici per l’epoca, di respiro internazionale, e pure costosi. La milanese fu progettata in stile neorinascimentale da Giuseppe Mengoni, avviata a costruzione nel 1865, inaugurata nel 1867 e completata nel 1876, ma solo grazie all’imposizione del Re, che obbligò il Comune al completamento dell’opera a proprie spese, dopo che l’impresa privata che ne aveva avuto la concessione era finita in gravissime difficoltà finanziarie. Quella napoletana fu edificata in modo sicuramente più spedito, avviata nel 1887 e inaugurata nel 1890. Il progetto di Emmanuele Rocco si ispirò al modello milanese ma risultò più ricercato e sfarzoso nelle decorazioni in stile Liberty, un vero trionfo dell’architettura tardo-ottocentesca. La maggiore bellezza, però, sarebbe stata umiliata nel tempo dalla presenza dei popolari quartieri a ridosso e da un’amministrazione dissennata dello spazio, divenendo l’emblema della sciatteria napoletana, a partire dal frazionamento della proprietà privata che ancora oggi rende impossibile la gestione organica degli immobili.
Il raffronto è impetoso per Napoli, e non dal punto di vista della bellezza, che appartiene a entrambe, o dell’abbondanza che intercettano, ma del decoro che offrono. Certo, la Galleria ‘Vittorio Emanuele II’ è sede di alberghi di alto livello, tra cui il Seven Stars, un esclusivissimo 7 stelle, con sette suite che affacciano direttamente all’interno. Insomma, un vero salotto del lusso, che nella Napoli di oggi, forse, non avrebbe senso di esistere. E però sul decoro non si discute, quello dovrebbe essere garantito anche nella ‘Umberto I’. Basta raffrontare la cartellonistica commerciale e l’illuminazione dei due luoghi per capire come vengano intesi dalle amministrazioni comunali. A Milano le insegne sono tutte regolamentate, su fondo nero con marchi in oro, e illuminate da lampioni storici lungo le pareti laterali; a Napoli gli spazi appositi, cui gli architetti del tempo pure avevano provveduto, sono completamente ignorati, ognuno fa come gli pare, e l’illuminazione è fornita da fari moderni che, tra l’altro, a chiusura delle attività, consegnano il luogo alla penombra delle lampade sull’altissima copertura, più alta di quella meneghina. Ma a Milano operano anche boutique di grandi marchi (Prada, Luis Vuitton, Versace, Tod’s, Mercedes); a Napoli, attorno al monopolio di un solo lussuoso marchio familiare (Barbaro), peraltro lontano dalla grande tradizione sartoriale napoletana, ruotano esercizi commerciali del tutto normali. A Milano si danno da fare rinomati ristoranti (il Savini), bar d’epoca (Biffi, Camparino, Motta, etc.) e caffè letterari, ognuno con una tettoia rigorosamente uguale all’altra e rispettando gli spazi concessi; a Napoli i normali bar organizzano tavolini senza criterio e ordine.
Il fatto è che se le hai viste entrambe ti accorgi di quanto sia bella e sciatta quella di Napoli. Ti accorgi che quella partenopea è il tempio del liberismo, dove le varie amministrazioni comunali si arrendono alla complessità sociale del centro cittadino, in cui borghesia e popolo minuto convivono come non accade né a Milano né altrove, e non riescono a impedire ai venditori ambulanti di esporre la loro merce sui mosaici e agli scugnizzi dei dirimpettai Quartieri Spagnoli di giocare a pallone, sbeffeggiare i turisti e vandalizzare a piacimento.
Entrambe interessate da recenti restauri. La ‘Vittorio Emanuele II’, grazie all’Expo, in 13 mesi di lavori con un ponteggio semovente che ha limitato al minimo i disagi, ha riscoperto l’originaria bicromia delle facciate e si è rafforzata nel suo già marcato ruolo centrale nella vita commerciale e turistica della città. La ‘Umberto I’, dopo i continui crolli  (ancora in corso) e la morte del povero quattordicenne Salvatore Giordano, è una galleria sfregiata dalle impalcature di un intervento senza fine e ritinteggiata con diversi colori, o non ritinteggiata, a causa di una cervellotica lite tra condomini inadempienti.
Passerà alla storia un sindaco di Napoli che riuscirà a regolamentare il salotto della città e a dargli splendore come fosse quello di casa sua.

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1864, Napoli capitale d’Italia. Ma Vittorio Emanuele II disse «no».

Angelo Forgione  Tra gli ideali che ispirarono l’Unità italiana, quello laicista fu sicuramente uno dei più importanti. Rifacendosi alle più avanzate nazioni protestanti europee, gli artefici dell’annessione di Napoli e Roma al Regno d’Italia piemontese dovevano rendersi protagonisti della diffusione di un’ideologia svincolata dalla fortissima tradizione cattolica d’Italia, e contribuire ad allentare lo stretto rapporto con la Chiesa di Roma che aveva sempre caratterizzato la vita degli stati italiani.
A preservare l’autorità del Papa ci pensò un francese, non un italiano. Napoleone III, imperatore di quella Francia “figlia primogenita della Chiesa” piena di cattolici e di un consenso da preservare, piazzò le sue truppe in territorio romano mentre il Piemonte incamerava parte dello Stato Pontificio, e fu un bel problema per Garibaldi ma anche per  la pletora sabauda. Vi era bisogno di tutta la scaltrezza piemontese per risolvere la rogna, anche perché la posizione geografica di Torino, troppo vicina al confine nemico, la condannava a non essere per troppo tempo la capitale d’Italia. Le trattative diplomatiche portarono alla Convenzione di settembre del 1864, con cui il Re di Francia si impegnò a ritirare gradualmente i suoi uomini in cambio dell’impegno a non invadere il territorio pontificio. A garanzia degli impegni presi dai piemontesi, il sovrano francese impose il trasferimento della capitale in un’altra città, cosa che avrebbe dovuto provare la definitiva rinuncia alle seducenti mitologie di Roma capitale dell’Italia laica. I piemontesi miravano semplicemente a far sloggiare i garanti di Pio IX, per poi rompere i patti alla loro maniera. C’era solo da rinunciare in anticipo ai ministeri di Torino, alle ambasciate e ai fiumi di danaro pubblico, e da affrontare la rivolta dei cittadini torinesi, convinti che in assenza di Roma dovesse farne le veci solo la loro città, ormai pienamente interessata dagli investimenti per l’edilizia espansiva. Sommossa repressa nel sangue di cinquantacinque uomini disarmati, ma ormai tutto era già deciso: la capitale doveva trasferirsi altrove. Furono proposte Firenze, sostenuta dal Consiglio dei generali perché non esposta all’aggressione marittima, e Napoli, preferita dal consiglio dei ministri in quanto maggior metropoli italiana, lontana dal confine e meno esposta a un eventuale intervento austriaco richiesto dal Papa, ex capitale rispettata in Europa, la terza più popolata del Continente e già pronta a ricevere i dicasteri senza necessità di grandi spese, città di cultura degna delle grandi capitali europee. Tale scelta, secondo i sostenitori dell’ipotesi, avrebbe potuto contribuire a sradicare il brigantaggio meridionale che metteva a rischio la compattezza geografica. Prevalse la piccola Firenze, ma la volontà fu più che altro sovrana. Vittorio Emanuele II sapeva quanto fosse rilevante il peso di Napoli agli occhi dell’Europa e cercò di evitare che tornasse capitale. Il Re, invitato ad esprimere il suo pesante parere ai ministri, indirizzò la scelta verso la città toscana:

«Andando a Firenze, dopo due anni, dopo cinque, anche dopo sei se volete, potremo dire addio ai fiorentini e andare a Roma; ma da Napoli non si esce; se vi andiamo, saremo costretti a rimanerci. Volete voi Napoli? Se ciò volete, badate bene, prima di prendere la risoluzione di andare a stabilire la capitale a Napoli, bisogna prendere quella di rinunziare definitivamente a Roma.»

Tutti a Firenze! Una città di poco più di centomila abitanti invasa dalle istituzioni, dal Parlamento, dal Re, dalla corte e di tutto ciò che necessitava una capitale. Trentamila burocrati piemontesi a sconvolgerne le abitudini, le tradizioni e l’urbanistica. Ma gli uomini del “Re Galantuomo”, che gli accordi li prendevano per romperli, attesero che Roma fosse defrancesizzata e, dopo cinque anni e mezzo, invasero lo Stato Pontificio. Pio IX si ritirò in Vaticano, dichiarandosi “prigioniero d’Italia” fino alla morte, e si rifiutò di riconoscere la legge delle Guarantiglie, con cui il Regno d’Italia dei Savoia intese regolare i rapporti con la Santa Sede. Il Pontefice vietò ai cattolici di partecipare all’attività politica italiana e scomunicò tutti coloro che avevano partecipato al processo risorgimentale, a partire dai Savoia, ma si trovò di fronte l’ambigua figura di Vittorio Emanuele II, ricorso ai poteri forti d’Europa e alla Massoneria internazionale per coronare l’unificazione nazionale anche contro il Cattolicesimo, nonostante fosse riconosciuto religione di Stato dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del Regno di Sardegna, poi esteso all’Italia unita. Pio IX scomunicò il primo re d’Italia per ben tre volte lungo l’arco della sua trono tricolore, ma ritirò il provvedimento nel 1878, in punto di morte del baffuto piemontese, inviando un sacerdote al suo capezzale per impartirgli l’assoluzione, poiché il primo sovrano dello stato nazionale italiano, comunque cattolico, non poteva e non doveva morire senza sacramenti.
Il Vaticano e l’Italia restarono separati in casa fino all’avvento del Fascismo, nel primo Novecento, mentre a rappresentare il rafforzato potere laico contrapposto alle forze conservatrici e clericali ci pensò la Massoneria. Il Potere temporale fu in qualche modo riabilitato dai negoziati tra Benito Mussolini e Pio XI, culminati nei Patti Lateranensi, con cui fu siglato un reciproco riconoscimento tra Regno d’Italia e Stato Vaticano. Fallita sul nascere la creazione di un Paese condiviso e giusto, naufragava  anche lo scopo fondante di sradicare la sua appartenenza religiosa.

155 anni di retorica e bugie che non accennano a finire

adesivo_155Angelo Forgione – Proclamato ‘Festa nazionale’, il 17 marzo non lo festeggia nessuno, e nessuno ricorda né cosa ricorra né che lo si festeggi. Così è lo spirito patriottico italiano, figlio dell’operazione di ingegneria sociale operata dal 1861 in poi con l’invenzione di una storia nazionale mai esistita. Sempre meno sono le persone che credono alle gesta eroiche dei padri della Patria italiana e sempre più sono i consapevoli che trattasi di ladri della patria napolitana. A Napoli si dice «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… chi ha dato, ha dato, ha dato… scurdámmoce ‘o ppassato…», e ce lo saremmo evidentemente messo alle spalle se non fosse cambiato nulla, e mai, in questi 155 anni. Oggi tocca ancora ascoltare Matteo Renzi, successore di Camillo Benso di Cavour, “minacciare” che il Sud se lo riprenderanno pezzo dopo pezzo, ma dopo averlo completamente smontato, e che lo riporteranno al ruolo di guida del Paese, come nel 1860. Proclami vuoti e pieni di retorica, mentre il suo esecutivo di Governo, nonostante apparenze e pomposa propaganda, è tra i più decisi nel tagliare risorse e investimenti nel Mezzogiorno.

La Galleria Umberto I e i colori dell’ignoranza

Angelo Forgione – Se non fossimo tristemente abituati alla sciatteria napoletana non ci crederemmo. Eppure la Galleria Umberto I è diventata multicolor dopo la messa in sicurezza seguita alla morte del povero quattordicenne Salvatore Giordano del luglio 2014. Quell’incidente non fu casualità ma conseguenza di pura negligenza, dopo anni di accorati appelli (molti di chi scrive; ndr) per mettere in sicurezza un plesso monumentale che da più di dieci anni mostrava continui cedimenti. Anche in quell’occasione, rimbalzo di responsabilità tradotto in filone giudiziario tutt’ora aperto, con 7 persone, tra amministratori di condominio, dirigenti e impiegati pubblici, rinviate a giudizio per imperizia, imprudenza, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline dopo le reiterate denunce. All’indomani di quella tragedia si alzarono le impalcature sulla Galleria (e un po’ su tutti i monumenti cittadini). Ora, dopo circa 20 mesi, dai catafalchi si stanno lentamente levando i veli sui lavori sin qui effettuati. La storia, sia pur meno tragicamente, si ripete. Ed ecco ancora negligenza e inosservanza di sorveglianza e di regolamenti. Tra facciate ritinteggiate diversamente ed altre rimaste come prima, cioè annerite, la Galleria è diventata il trionfo dell’eclettismo cromatico. Solo che il risultato non è affatto gradevole. Di sfregio vero e proprio si tratta.
Il fatto noto è che le facciate sono condominiali e non comunali, e i lavori, eseguiti da imprese diverse a spese dei condomini, evidentemente, sono andati avanti nella totale mancanza di coordinamento, in barba ai regolamenti che impongono omogeneità per gli interventi su edifici monumentali. La Sovrintendenza aveva dettato le linee guida: il colore di riferimento doveva essere quello del civico 208, ovvero quello della facciata destra su via Toledo. Ordine impartito ma controllo assente.
E la mente corre all’omologo edificio milanese, bello non quanto il parente napoletano. È evidente quanto fregi e decori degli edifici della Galleria Umberto I siano più ricchi e curati dell’antecedente Galleria Vittorio Emanuele II. Ma la perizia che gli architetti Emmanuele Rocco, Antonio Curri ed Ernesto di Mauro impiegarono tra il 1887 e il 1890 è eclissata e umiliata da tanta, troppa incuranza, al contrario di quello che a Milano è un vero e proprio salotto, pure trattato da tale dai cittadini. Basta evidenziarne l’illuminazione notturna e l’omogeneità delle insegne commerciali (tutte su fondo nero con marchi in oro), cui gli architetti di Napoli pure avevano provveduto, attribuendo ai locali degli spazi appositi ma di fatto ignorati, perché ognuno può fare, e fa (Barbaro a parte), di testa propria. E ora pure le facciate multicolor. Ennesima manifestazione di ignoranza e di totale mancanza di sensibilità circa il decoro e la bellezza monumentale della città. Scempio intollerabile!

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Il busto di Cialdini rispedito a Torino, ma è solo protesta

Angelo Forgione Incursione degli attivisti del gruppo meridionalista Insurgencia nel salone delle contrattazioni della Borsa di Napoli, in piazza Bovio. Obiettivo: il busto del generale Enrico Cialdini, con la sua espressione sprezzante e autoritaria. Imballato completamente e simbolicamente spedito a Torino, la città dalla quale il luogotenente del Regno di Sardegna fu inviato a Napoli per reprimere nel sangue la reazione dei meridionali all’invasione sabauda del 1860.
“Siamo convinti – commentano sulla loro pagina Facebook gli autori della protesta – che dal punto di vista simbolico (ma non solo) oggetti come quello di cui parliamo rappresentino la plastica volontà di cancellare un pezzo di storia coloniale e di parte che è la storia del saccheggio che ha subito il nostro territorio a partire dall’unità. Una storia che ha condizionato e condiziona le nostre condizioni di vita, di sviluppo, che ancora determina l’iniqua distribuzione delle risorse economiche e l’assoluta sproporzione tra le condizioni di vita del Nord e del Sud del paese. L’azione di questa mattina serve esattamente a ribadire il nostro rifiuto radicale per questi continui tentativi di mettere le mani sulla città, sulla nostra città, le mani della speculazione e del saccheggio, le mani dell’oppressione delle forze dell’ordine la cui presenza nelle strade aumenta solo l’insicurezza e occlude la libertà. Napoli piuttosto rivendica tutta la libertà che merita, rivendica autonomia nella gestione delle proprie questioni e rivendica soprattutto una inversione radicale dell’ordine di discorso intriso di razzismo con cui da sempre vengono affrontate da sempre tutte le questioni sociali”.
Vale la pena ricordare che il busto fu voluto dallo stesso Cialdini, al quale si deve la costruzione del palazzo della Borsa per motivi meramente propagandistici. Evidentemente non è bastato per cancellare il triste significato che continua a sprigionare: circa 9.000 fucilati (anche esponenti del clero), circa 10.000 feriti, circa 7.000 prigionieri, circa 1.000 case incendiate, circa 3.000 famiglie violate, circa 14.000 deportati in Piemonte, 6 paesi interamente messi a ferro e fuoco, circa 1.400 comuni assediati, circa 160.000 bombe scaricate su Gaeta che fecero circa 5.000 vittime tra napoletani (in grande maggioranza) colpiti anche da tifo, e poi chiese e regge saccheggiate. Tutto sommato basta per descrivere il generale vanaglorioso e spietato che “liberò” Napoli e il Sud per conto di Vittorio Emanuele II.

“Lager Fenestrelle…”, e la curva parla di storia

fenestrelle_stadioAngelo Forgione Napoli-Torino, match valevole per la 18a giornata del campionato nazionale di Serie A, nel giorno dell’Epifania. Al minuto 61 spunta un doppio striscione nella Curva B dello stadio San Paolo: “LAGER DI FENESTRELLE… NAPOLI CAPITALE CONTINUA AD ODIARE!”. E non tutti capiscono.
Da anni, ormai, parlo di storia ai tifosi; ma, per chi ancora non lo sapesse, Fenestrelle (di cui ho scritto anche in Dov’è la Vittoria) è un forte situato nell’alta Val Chisone, città metropolitana di Torino, eretto nel Settecento con funzione di protezione del confine italo-francese, poi utilizzato dopo l’Unità d’Italia come prigione militare in cui isolare i soldati del disciolto Esercito delle Due Sicilie fatti prigionieri e contrari al giuramento per un altro Re. Su questa vicenda si gioca ormai da qualche anno una partita tra storici meridionali e storici piemontesi. I primi divulgano notizie sulle pessime condizioni di detenzione, sulle sevizie e sulle morti nascoste per anni dalla storiografia ufficiale in quello che è definito “il lager dei Savoia”. I secondi si affrettano a smentire e a ridimensionare gli eventi post-risorgimentali nella fortezza sabauda, che non fu certamente l’unica ad accogliere i militari meridionali. Altri e di più a San Maurizio Canavese, ma anche a San Mauro, Alessandria, Novara, Savona, Genova e Milano. Decine di migliaia di soldati dell’ex esercito borbonico reclusi perché rifiutatisi di servire sotto la bandiera Italiana, invece di lasciarli alle loro famiglie e alle loro terre. Alcuni non riuscirono a tornare dai campi del Nord, dove trovarono la morte per il rigore del freddo e per la fame. Quanti? La partita è aperta, sul numero di morti come anche sulle condizioni di prigionia, ma decisamente chiusa sulla sostanza: l’esercito piemontese-lombardo, invasore di uno Stato legittimo, fece prigionieri i militari napoletani. Così come, nel 1868, il Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, Luigi Federico Menabrea, tentò con tutte le sue forze, ma invano, di ottenere dal governo argentino la concessione delle terre disabitate nelle regioni deserte della Patagonia per deportarvi i ribelli meridionali.
Quello che è davvero interessante è che certi messaggi nascano ormai spontaneamente sugli spalti del San Paolo, e non siano più suggeriti da singole teste pensanti estranee alle curve, come negli anni scorsi. Il minuto 61, a indicare la data del 1861, dà il segnale di una nuova coscienza, magari grossolana, ma autentica e in via di radicamento, che trova sfogo negli stadi, veri e propri termometri della società. I cori e gli striscioni, infatti, non sono espressione di un particolare disagio sociale, come quello che si manifesta con gli stessi mezzi nei cortei di piazza a difesa di un qualsiasi diritto, ma, piuttosto, modalità di rifiuto di tutto ciò che è di altrui cultura. Meno interessante è il non chiarito messaggio d’odio manifestato nello striscione, che avrebbe ragione d’esistere solo se indirizzato ai tristissimi modi con cui fu unita l’Italia senza unire gli italiani, a prescindere dalla loro entità. E se a scuola non se ne parla…

“… Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi… e quel che è piú dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al piú presto”.
Lettera di La Marmora a Cavour del 18 novembre 1860