Tra Andria e Pioltello, “il più grande piano infrastrutturale d’Europa” di Renzi e Delrio

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Angelo Forgione
 – Era il 22 novembre 2017, solo due mesi fa, quando Matteo Renzi e il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio si ritraevano in un video con lo smartphone dal Ponte borbonico sospeso sul Garigliano, in località Minturno, strumentalizzando l’avanguardia ingegneristica borbonica preunitaria di Luigi Giura per comunicare sui social che l’Italia stava conducendo il più grande piano infrastrutturale d’Europa. Del resto vi era poco di spontaneo in quel video, visto che poche ore prima i due erano partiti dalla stazione di Roma Ostiense, pianificando nei dettagli la performance in un luogo non propriamente scelto per il suo incredibile significato: «Ci hanno fatto due palle come un cestello sull’idea di vedere questo ponte», disse Renzi a Delrio nel breafing alla stazione romana.
Alla luce del triste evento ferroviario nei pressi di Milano, la cosa più interessante è che il Ministro, in quell’occasione, decantò la grandezza del piano infrastrutturale in fieri, dimenticandosi però di aggiornarci circa gli investiventi sulle ferrovie regionali, cosa non trascurabile visto che solo nell’estate 2016 il Paese aveva fatto parlare di sé al mondo intero per la sciagura ferroviaria del treno regionale tra Andria e Corato, ben 23 vittime di bilancio. E puntualmente ci ritroviamo a parlare di disatri ferroviari annunciati, perché quello di Pioltello, che ha causato 3 morti, segue quattro deragliamenti in sei mesi sulla stessa tratta. Stiamo parlando della Lombardia, il faro della modernizzazione italiana, la regione in cui, secondo la ricerca Pendolaria 2017 di Legambiente, vi sono più treni che in tutto il Mezzogiorno.
Siamo evidentemente tutti in pericolo, chi più e chi meno, in una nazione che fatica a rimettersi in piedi.

Mattarella a Pietrarsa. Moretti (FS): «Ferdinando II sovrano illuminato»

Il Museo ferroviario di Pietrarsa «è un posto che lascia senza fiato». Sono le uniche parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla visita dell’ex opificio siderurgico borbonico, luogo della prima mitica tratta ferroviaria italiana Napoli-Portici e oggi sede espositiva appena ristrutturata.
A colpire di più sono state le parole del presidente della Fondazione FS Mauro Moretti, nel suo discorso al pubblico: «Ferdinando II un sovrano illuminato e lungimirante, che volle emancipare le Due Sicilie dalla dipendenza inglese e fece di Pietrarsa la Silicon Valley della tecnologia dell’epoca». Distante dai canoni narrativi della storia risorgimentale, una diversa lettura del Re che industrializzò il Regno delle Due Sicilie prima dell’invasione piemontese. E ancora: «I lavoratori di Pietrarsa, consapevoli del patrimonio industriale qui installato e della relativa superiorità tecnologica raggiunta, lottarono contro la delocalizzazione delle attività a vantaggio dell’industria del nord voluta dai sabaudi, fino alla carica dei bersaglieri che causò numerosi morti e feriti gravi».

commento a La Radiazza (Radio Marte)

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Discorso di Mauro Moretti a Pietrarsa

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servizio del TGR Campania

Vescovo di Andria: «Il Sud considerato periferia d’Italia». Delrio ascolta.

Angelo Forgione Chiara denuncia di Monsignor Luigi Mansi, vescovo di Andria, ai funerali delle vittime del disastro ferroviario in Puglia che è costata la vita a 27 persone. Parole di flemmatica condanna alla colonizzazione meridionale, pronunciate alla presenza del ministro alle infrastrutture Graziano Delrio e delle alte cariche dello Stato.

«[] inadempienze nei confronti del proprio dovere, verso i diritti delle persone, di tutti, senza diversità e distinzione. E noi temiamo che queste terre, le nostre terre, sono state considerate, e lo sono ancora, le periferie dell’Italia. Sospiriamo il giorno in cui tutto questo possa dirsi concluso per sempre».

Proprio Delrio, il giorno seguente la tragedia, aveva riferito alla Camera, respingendo le accuse del Movimento 5 Stelle di aver privilegiato il Nord nell’assegnazione dei fondi per le ferrovie.

«Circolano affermazioni profondamente strumentali, sbagliate e pericolose e cioè che la legge di Stabilità avrebbe dato fondi solo al Nord per il trasporto pubblico locale. Il contratto di programma prevede 9 miliardi di euro destinati a tutta la rete nazionale e 4 e mezzo sono per tecnologie di sicurezza e di questi una parte per le reti a carattere regionale. In Italia non si è mai fatta la “cura ferro”, ma con questo Governo c’è stata un’inversione di tendenza netta rispetto al passato ed abbiamo destinato diversi miliardi al trasporto ferroviario regionale».

La “cura del ferro” è stata annunciata a febbraio scorso (► http://wp.me/pFjag-6Zo): investimenti per 8.971 milioni stanziati dal Governo Renzi, vero, ma Delrio non ha detto che solo 474 milioni sono destinati al Sud. Il Ministro ha risposto alle accuse fornendo dati generali riferiti all’intero investimento nazionale, senza lo specifico dato del Sud. Ma il confronto tra gli interventi finanziati nel Settentrione e quelli da Roma in giù parla chiaro: 4 a 0 sull’Alta Velocità; 8 a 4 sulla linea tradizionale regionale; 4 a 1 sull’intensificazione del traffico; 4 a 2 sul collegamento con gli aeroporti. Addirittura 3 a 0 sui collegamenti coi porti, interventi prioritari per intercettare i traffici merci nel Mediterraneo dopo il raddoppio del Canale di Suez, con Napoli, Gioia Tauro, Taranto e tutto il Sud tagliati fuori. Totale strategico della “cura del ferro”: 23 interventi e 95% di stanziamenti al Nord contro 7 interventi e 5% di stanziamenti al Sud.
Gli investimenti previsti riguardano Roma (172milioni), Firenze (70milioni), Milano (45milioni), Torino (30milioni) e Bologna (30milioni). Nulla è invece programmato nelle città metropolitane del Sud. E poi 1.500 milioni per l’alta velocità Brescia-Verona; 1.500 milioni per la tratta Verona-Vicenza; 869 milioni per il valico del Brennero e 600 milioni per quello dei Giovi. Nei 474 milioni per il Sud, cioè le briciole, tutti i fondi destinati al trasporto regionale vantati da Delrio. Il Ministro l’ha definita “una parte”.

Renzi là dove gli italiani spararono sui napoletani: «tornare orgogliosi di far parte dell’Italia»

Angelo Forgione Certo che è proprio strana l’Italia. Oggi la guida un fiorentino di mezz’età che prima taglia risorse al Sud e poi, con buone parole, predica il riscatto nazionale; che invita gli italiani a «tornare ad essere innamorati di un Paese che nel mondo è stato famoso per la sua storia»; che chiede di essere supportato nella partita del turismo, inteso come «elemento di cultura politica e di orgoglio nazionale». È una strategia condivisibile quella di Matteo Renzi, se di strategia si trattasse e di non sola propaganda. Lo vedremo in futuro, ma intanto è necessario che il leader del Governo nazionale si prepari meglio, ora che esercita una certa presenza sui vari territori. «Il museo, due secoli fa – ha detto Renzi a Portici (nel video al minuto 5:58) – era una delle tappe del Grand Tour. C’era una élite che studiava per mesi e che sapeva che doveva fare Venezia, Firenze e Roma, e che se non si faceva non era un pezzo della formazione […]». Cancellate Napoli, patria del  Neoclassicismo, e la Sicilia dalle tappe del viaggio sette-ottocentesco. È così che si parla di turismo alla platea napoletana di Pietrarsa.
Ascolti il premier confermare che Napoli non la conosceva, e ora la conosce perché i suoi viaggi istituzionali lo hanno condotto a scoprire le sue bellezze. Dopo la prima volta agli scavi di Pompei e alla Reggia di Caserta, è stata la volta della prima volta al Museo nazionale e parco di Capodimonte e al Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa. E proprio da lì, chiudendo gli Stati generali del Turismo, il Primo Ministro ha affermato che «Napoli e tutto il Paese devono tornare a sentire orgoglio di far parte dell’Italia». Sì, proprio da lì, luogo simbolo di una Napoli produttiva piegata e della colonizzazione meridionale, lì dove venivano costruite locomotive, rotaie, caldaie per navi e tutto quello che serviva per il primo sviluppo industriale dell’antico Regno del Sud, interrotto a tavolino dalle politiche del Regno d’Italia, che non esitò ad armare bersaglieri, carabinieri e guardia nazionale per sparare sugli operai in rivolta mentre difendevano la propria fabbrica e il proprio lavoro. Se Renzi, nel suo discorso, avesse chiesto scusa ai napoletani, per quella e per altre ferite sempre aperte, forse sarebbe apparsa meno lunga la strada per ricongiungerli al comune sentimento nazionale, ammesso che esista. Già, perché l’orgoglio partenopeo è realtà sempre crescente, e viene prima d’ogni cosa, ma l’orgoglio italiano di cui parla Renzi non esiste e mai è esistito.
«Dev’essere un pezzo dell’orgoglio della mia identità sapere che se sono nato a Firenze, a Napoli o in alti posti del nostro Paese. Questa realtà fa parte del nostro DNA», ha aggiunto Renzi. Giusto, giustissimo, perché proprio questo significa essere culturalmente unitaristi. Riconoscere la cultura dei grandi centri storici dello Stivale è il primo passo per provare a costruire l’identità nazionale mai esistita (altro che “tornare” ad esser orgogliosi; NdR), che non può essere quella proposta ancora oggi con ostinazione, un retaggio della cultura massonica post-risorgimentale, che prevedeva l’affermazione di una romanzata Storia Patria di tutti, riempita di un tronfio spirito dei miti fondanti della Nazione e delle battaglie che avevano condotto all’indipendenza. L’istruzione fu nel 1861 la prima cura della nuova Italia tutt’una, col preciso intento di annientare le culture locali e affermarne una sola, di fatto inventata, che era piemontese e non apparteneva che al Piemonte. Ancora oggi siamo tutti, da Bolzano a Pantelleria, “vigilati” da statue, busti e toponimi dei ladri della Patria. Ogni zona della Penisola ha invece la sua cultura, in modo più eterogeneo che in ogni altro paese del mondo. Bisognerebbe lasciare ad ogni territorio la rivendicazione della propria identità, riconoscendola. Soprattutto in ottica turistica, che è un’ottica settentrionalista, come conferma lo stesso Renzi con la sua riflessione sul Grand Tour di un tempo. E lo confermano persino i souvenir che in certe zone d’Italia si vendono ai viaggiatori, spesso stranieri. ombrelloApri un ombrello con l’Italia turistica vista dai toscani: Firenze, Pisa, Siena, Roma, Venezia e Milano. Il Sud sparisce completamente. Niente Napoli e Palermo, Lecce o Catania, ma due volte raffigurate Firenze e Pisa. Anche così si capisce perché il premier fiorentino Renzi, solo per compiti istituzionali, sia sceso per le sue “prime volte” nei luoghi delle meraviglie di Napoli.

Bellenger: «Napoli scientificamente boicottata dal circuito turistico internazionale»

Angelo Forgione «C’è una organizzazione internazionale che, con precisione spaventosa, tiene fuori Napoli dal circuito turistico». L’ha dichiarato Sylvaine Bellenger, direttore del Museo Nazionale di Capodimonte in un’intervista di Anna Paola Merone per il Corriere del Mezzogiorno.
Ci ha messo poco il francese a capire che c’è un corto circuito turistico che non consente a Napoli di sprigionare tutto il suo potenziale. Un problema evidenziato già nel mio libro Made in Naples (Magenes, 2013). Le responsabilità ricadono evidentemente sui tour-operators internazionali, che portano turisti a Roma e spremono i dintorni di Napoli, evitando di evidenziarne le bellezze. E il Governo ci mette del suo: ottimizzare Pompei e Caserta non vuol dire aumentare l’offerta napoletana ma quella romana. Franceschini ha prennunciato un collegamento tra gli scavi di Pompei e l’Alta Velocità, con tanto di nastro trasportatore e ponti di vetro per ridurre a 90 minuti di treno la distanza da Roma. Ma una stazione che porta i turisti direttamente negli scavi e con altrettanta velocità li riporta nella Capitale non sarebbe che un’ulteriore penalizzazione per Pompei e Napoli. Stesso discorso per Caserta, appena entrata nelle attenzioni del Governo dopo i lusinghieri dati sugli afflussi nei musei statali. Ecco spiegato il nuovo interesse per i due tesori attorno il capoluogo dei tesori semi-sconosciuti.
Il primo porto crocieristico d’Italia è quello di Civitavecchia, ossia Roma, verso cui partono centinaia di autobus turistici ogni giorno. Qualcuno va a Pompei. Il risultato è che tra Lazio e Campania, prima e seconda regione per numero di afflusso museale, passano quasi 13 milioni di biglietti staccati. Una voragine!
La città d’arte meta del “Grand Tour” Sette-Ottecentesco, quella col centro storico UNESCO più vasto d’Europa, ricca di tesori e attrattive monumentali, paesaggistiche e non solo, al centro di una macro-zona turistica senza rivali al mondo, deve necessariamente uscire dall’orbita di Roma per aumentare il volume del turismo stanziale. Cosa fare? Pretendere di migliorare i collegamenti locali tra i siti di rilevante interesse turistico (Circumvesuviana in testa); migliorare l’offerta alberghiera; attivare una cabina di regia regionale per diffondere in modo adeguato l’immagine del territorio e agire sui tour-operators internazionali.tratto da Made in Naples (Magenes, 2013)

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San Giorgio a Cremano, una via intitolata ai Martiri di Pietrarsa

Angelo Forgione – La Giunta Comunale di San Giorgio a Cremano ha deliberato nei giorni scorsi all’unanimità il cambio di nome di via Ferrovia in via Martiri di Pietrarsa. La nuova denominazione, proposta dall’assessore Pietro De Martino, è in attesa del via libera della Prefettura di Napoli. Dopo le numerose manifestazioni nel Museo ferroviario di Pietrarsa svoltesi negli ultimi anni con lo scopo di divulgare la storia dimenticata dell’eccidio di Pietrarsa, giungono finalmente i primi onori per le vittime di uno degli episodi più significativi dell’unificazione italiana.
I Martiri di Pietrarsa sono Luigi Fabbricini, Aniello Marino,  Aniello Olivieri e Domenico Del Grosso, quattro operai (ma forse furono di più, NdR) che il 6 agosto 1863 furono uccisi da Bersaglieri, Carabinieri e Guardia Nazionale alle spalle durante uno sciopero di protesta contro i licenziamenti e le condizioni disumane di lavoro a cui erano stati costretti dai nuovi proprietari della fabbrica. Il Real Opificio di Pietrarsa, uno dei vanti dello Stato borbonico, che su un’area adiacente alla prima tratta ferrata, la Napoli-Portici, aveva sfornato le prime locomotive italiane, fu destinato allo smantellamento e al declino per decisione delle nuove classi dirigenti dell’Italia appena unita.
La delibera giunge proprio a pochi giorni dal 1 maggio, festa del lavoro, che il mondo del meridionalismo dedica ogni anno alla memoria dei Martiri di Pietrarsa.

A 70 anni dalla strage nascosta dei napoletani

balvanoAngelo Forgione – La “Galleria delle armi”. Un nome che a pochi dice qualcosa. Eppure c’è tutta una storia occultata in quel tunnel sulla vecchia linea ferroviaria statale Sicignano – Potenza. Lì, tra le rocce di Balvano, nell’antica Lucania ancora non violentata, nascondevano le armi i “briganti” meridionali imboscati sulle montagne del Sud Italia per combattere contro i poteri del neonato stato Italiano-piemontese. Lì, il 3 marzo 1944, sei mesi dopo le “Quattro Giornate”, circa 650 tra uomini, donne e bambini in fuga dalla fame di una Napoli piegata dalle vicende dell’occupazione nazista, già violentata dallo Stato italiano, persero la vita nel silenzio.
Cadaveri allineati lungo le rotaie appena fuori quella galleria al confine tra la Campania e la Basilicata. E poi gettati in una fossa comune. Il più grande incidente della storia delle ferrovie d’Europa, ma anche il meno noto, coperto dal silenzio per ragion di stato. Napoli si era liberata con le sue mani dai tedeschi e badava a se stessa arrangiandosi, sotto il controllo degli Alleati, nell’assenza di Roma e del Nord ancora sotto scacco. In città regnava inevitabilmente la fame e la risorsa era il mercato nero. Qualcosa si trovava nelle campagne nell’entroterra, dove era più facile il baratto. Ogni giorno, fiumi di persone pellegrinavano su carri e treni da e verso il capoluogo per sfamarsi comprando merce in cambio di denaro ma anche oggetti di valore.
Pomeriggio del 2 marzo 1944: il treno merci 8017 con vagoni scoperti gestito dagli Alleati partì in direzione della Basilicata dalla stazione di Napoli. Durante il viaggio si ingrossò a dismisura, fermata dopo fermata. Pochi minuti dopo la mezzanotte il treno della morte entrò nella stazione di Balvano ma, come spesso accadeva in quel periodo, la linea elettrica a Salerno fu sospesa. Dopo cinquanta minuti di stazionamento, il treno ripartì sbuffando, spinto a vapore, dal carbone che alimentava le caldaie. A bordo, circa seicentocinquanta “passeggeri”. Entrò nella “Galleria delle armi”  e perse velocità fino ad arrestarsi completamente nel cuore dei due chilometri del traforo. Il fumo del carbone continuò ad uscire, creando una camera a gas che strinse tutti i poveri intrappolati che videro la luce fuori dal tunnel solo da morti. Tirati fuori dai primi soccorsi ben quattro ore dopo l’arresto del convoglio.
Ne seguì un’inchiesta sommaria, veloce e senza copertura mediatica, tra l’insabbiatura di americani e italiani. Sentenza: nessun responsabile! Una strage senza colpevoli e senza memoria. Napoletani avvolti dall’oblio, bollati come “viaggiatori di frodo”, dei miseri truffatori contrabbandieri. Non lo erano, e non erano neanche clandestini perché avevano pagato un regolare biglietto… per un treno merci, quindi un biglietto illegalmente emesso. Erano invece quegli uomini che ricostruivano l’Italia del dopoguerra, cancellati dalla storia.

Pietrarsa, 1863-2013. Napoli ricorda.

150 anni fa, a Pietrarsa, la prima strage del lavoro della storia d’Italia, ben prima di quella americana che inaugurò il 1 maggio nel mondo. Chi conosce questa storia, ha “apparecchiato” da anni questa data affinché una pagina dimenticata della storia nazionale venisse fuori e le istituzioni ricordassero.
Oggi, col patrocinio del Comune di Napoli e non solo, il Museo ferroviario di Pietrarsa diventa punto di ritrovo per ricordare in forma solenne e culturale. È ora che anche i sindacati si rechino presto a ricordare quei tragici fatti in quello straordinario e simbolico luogo che è Pietrarsa in un prossimo 1 maggio italiano, affinché tutti sappiano, finalmente.
Intanto, il delegato del Sindaco di Napoli Luigi de Magistris alla Commissione Toponomastica, Andrea Balìa, ha ottenuto di recente la titolazione di una strada o una piazza, in fase d’individuazione, ai “Martiri di Pietrarsa”.

Balvano, la strage dei napoletani occultata

Angelo Forgione – La “Galleria delle armi”. Un nome che a pochi dice qualcosa. Eppure c’è tutta una storia italiana in quel tunnel sulla vecchia linea ferroviaria statale Sicignano – Potenza. Lì, tra le rocce di Balvano, nell’antica Lucania ancora non violentata, nascondevano le armi i “briganti” meridionali imboscati sulle montagne del Sud Italia per combattere contro i poteri del neonato stato Italiano-piemontese. Lì, il 3 marzo 1944, sei mesi dopo le “Quattro Giornate”, circa 650 tra uomini, donne e bambini in fuga dalla fame di una Napoli piegata dalle vicende dell’occupazione nazista, già violentata dallo Stato italiano, persero la vita nel silenzio.
Cadaveri allineati lungo le rotaie appena fuori quella galleria al confine tra la Campania e la Basilicata. E poi gettati in una fossa comune. Il più grande incidente della storia delle ferrovie d’Europa, ma anche il meno noto, coperto dal silenzio per ragion di stato. Napoli si era liberata con le sue mani dai tedeschi e badava a sé stessa arrangiandosi, sotto il controllo degli Alleati, nell’assenza di Roma e del Nord ancora sotto scacco. In città regnava inevitabilmente la fame e la risorsa era il mercato nero. Qualcosa si trovava nelle campagne nell’entroterra, dove era più facile il baratto. Ogni giorno, fiumi di persone pellegrinavano su carri e treni da e verso il capoluogo per sfamarsi comprando merce in cambio di denaro ma anche oggetti di valore.
Pomeriggio del 2 marzo 1944: il treno merci 8017 con vagoni scoperti gestito dagli Alleati partì in direzione della Basilicata dalla stazione di Napoli. Durante il viaggio si ingrossò a dismisura, fermata dopo fermata. Pochi minuti dopo la mezzanotte il treno della morte entrò nella stazione di Balvano ma, come spesso accadeva in quel periodo, la linea elettrica a Salerno fu sospesa. Dopo cinquanta minuti di stazionamento, il treno ripartì sbuffando, spinto a vapore, dal carbone che alimentava le caldaie. A bordo, circa seicentocinquanta “passeggeri”. Entrò nella “Galleria delle armi”  e perse velocità fino ad arrestarsi completamente nel cuore dei due chilometri del traforo. Il fumo del carbone continuò ad uscire, creando una camera a gas che strinse tutti i poveri intrappolati che videro la luce fuori dal tunnel solo da morti. Tirati fuori dai primi soccorsi ben quattro ore dopo l’arresto del convoglio.
Ne seguì un’inchiesta sommaria, veloce e senza copertura mediatica, tra l’insabbiatura di Americani e Italiani. Sentenza: nessun responsabile!
Una strage senza colpevoli e senza memoria. Napoletani avvolti dall’oblio, bollati come “viaggiatori di frodo”, dei miseri truffatori contrabbandieri. Non lo erano, e non erano neanche clandestini perché avevano pagato un regolare biglietto… per un treno merci, quindi un biglietto illegalmente emesso. Erano invece quegli uomini che ricostruivano l’Italia del dopoguerra.
A distanza di circa 70 anni, un romanzo-verità, “la Galleria delle armi” scritto dallo psicologo psicoterapeuta napoletano Salvio Esposito (Marotta&Cafiero), fa luce su quell’evento, basandosi su storie vere con l’aiuto di atti che fino a poco tempo fa erano segretissimi.