L’anello di Carlo di Borbone

Angelo Forgione Era il 7 ottobre del 1759, Domenica, ed enorme fu la commozione dei cittadini napoletani, accorsi a salutare il re che aveva saputo dare a Napoli molto di più che un governo. Carlo di Borbone, alle 13 in punto, salpava dal porto di Napoli per navigare verso Barcellona, da dove avrebbe raggiunto Madrid per diventare Carlo III di Spagna. Amava così tanto Napoli che se fosse dipeso dalla sua volontà non l’avrebbe mai salutata. Ai napoletani lasciò una politica sociale ed economica in grande crescita, palazzi e teatri unici, delle inestimabili opere d’arte, a partire dalla parte emiliana della Collezione Farnese, e una nuova linfa, quella archeologica, che avrebbe permesso alla città di poter vivere per secoli di quelle scoperte che ancora oggi richiamano il mondo intero.
Prima di abbandonare Napoli volle visitare per l’ultima volta tutti i siti reali e le principali realizzazioni da lui promosse. Al Museo di Portici, dove erano raccolte le antichità rinvenute negli scavi archeologici, si sfilò un anello ritrovato personalmente a Pompei fatto con un cammeo rappresentante una maschera comica barbuta. Da qual momento lo aveva sempre portato al dito, ma in procinto di partire lo ripose tra i cammei e gli anelli del museo e disse: «Appartiene a Napoli. È patrimonio dello Stato».
In verità a Madrid portò con sè architetti, funzionari e vassalli napoletani fidati da affiancare agli spagnoli, e pare anche un po’ di sangue di san Gennaro, di cui era devotissimo.
Carlo non tornò mai più all’ombra del Vesuvio ma trascorse il resto della sua vita con la nostalgia della città che davvero amò di più.

Anello di Carlo di Borbone (MANN) / Dipinto di Antonio Joli (Prado)

Ferdinando di Borbone, protettore della cultura d’Europa

il Ferdinando di Canova al MANN

Angelo Forgione Ancora oggi Ferdinando di Borbone viene definito “il Re lazzarone” e descritto come un rozzo sovrano. Così la tradizione patriottica ce l’ha presentato, perché colpevole di essere profondamente napoletano e di essere capitato sul trono nell’epoca dei Lumi e delle rivoluzioni. E invece, pur mancandogli l’approfondimento dello studio, non gli fece affatto difetto l’intuito per ingrandire la dimensione culturale di Napoli, portandovi la parte marmorea della Collezione Farnese da Roma, rendendo pubbliche tutte le raccolte artistiche private di famiglia, istituendo il primo museo dell’Europa continentale e stimolando la crescita artistica di Napoli.
Gli incoraggiamenti all’arte concessi dal “Re lazzarone” furono tanti e incontrarono convinti elogi nei vari territori italiani, tra cui quello del letterato lombardo Carlo Castone della Torre di Rezzonico, che in una corrispondenza di fine Settecento commentò la realizzazione della scultura “Adone e Venere” di Canova per il marchese napoletano Francesco Berio, per la quale Ferdinando concesse l’esenzione del dazio doganale per l’importazione dell’opera dallo Stato Pontificio, e riconobbe alla capitale borbonica un insuperabile patrimonio classico, accresciuto negli ultimi anni:

“[…] non vi sarà discaro […] il sapere in qual pregio tengasi dall’illuminato governo un’opera sì bella, e quali facilità si concedano, e laudi, ed incoraggiamento a facoltosi personaggi, che con illustri monumenti cospirano a volgere quella deliziosissima capitale in un’Atene novella, avvegnacchè per quelli dell’antichità possa di già entrare in contesa coll’istessa Roma.”

Canova scolpì lo stesso Ferdinando in un’enorme statua per accogliere i visitatori del Museo borbonico, e lo rappresentò proprio nelle vesti di Minerva, protettrice delle arti con l’elmo della saggezza in capo, allegoria in onore di un sovrano che, raggruppando le collezioni di Antichità, aveva lanciato l’immagine neoclassica di Napoli, veicolando il messaggio borbonico di protezione delle arti e della tutela dell’antico in una cornice, quale quella del prestigioso museo, che rappresentava il contributo decisivo di Napoli e dei Borbone, Carlo e Ferdinando, per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. L’uno stimolò l’archeologia e l’altro la raccolta artistica, assicurando gran prestigio internazionale alla Città. Al padre, ben più magnificato del figlio, il merito enorme dei musei a cielo aperto, le città antiche riportate alla luce. Al figlio, quello di aver compiuto l’atto più colto nell’Europa di fine Settecento con la volontà di assegnare ai napoletani le collezioni di famiglia e di creare un museo che è ancora oggi il massimo riferimento culturale dell’antica capitale, l’esposizione di arte classica più bella e importante del mondo.
E cosa fecero i veri zotici, quelli del regno dei Savoia, quando conquistarono Napoli? Rimossero la colossale scultura dalla nicchia che la ospitava sullo scalone del Museo e la nascosero in un ambiente secondario, facendo uno sgarbo enorme anche alla memoria di Canova. Sulle pareti della scalinata fecero apporre delle epigrafi, alcune proprio contro colui che aveva voluto il museo stesso e altre di esaltazione di Giuseppe Bonaparte, Murat, Garibaldi e Vittorio Emanuele II.
Il ritorno della preziosa statua al suo posto è avvenuto solo nel 1997, per volontà di un impavido sovrintendente ai beni archeologici, Stefano De Caro, deciso a rendere giustizia tanto all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, che a Napoli scoprì la devozione per l’Antico e così divenne il più grande scultore neoclassico, quanto all’artefice iniziale del più grande e più importante contenitore di arte classica d’Occidente. E lo chiamano ancore “lazzarone”.

L’inutile fuga

Angelo Forgione Due uomini in fuga, senza scampo, in una lussuosa dimora con vista Golfo a qualche centinaia di metri da Pompei, rinascono dalle ceneri vesuviane grazie alla tecnica ottocentesca dei calchi in gesso di Giuseppe Fiorelli.
Ma davvero pensi che fossero questi signori così sprovveduti da decidere di vivere sotto un vulcano pronto ad esplodere? No, non sapevano, e alcun studioso li aveva avvertiti della minaccia. Per loro era un innocuo monte dalla vetta pianeggiante e dalle pendici fertilissime, ben diverso nell’aspetto da quel che conosciamo oggi. La quiete era durata circa otto secoli e Plinio il Vecchio, nel 77 dC, elencando i vulcani attivi di quel tempo in Naturalis Historia, non aveva incluso il Vesuvio. Si accorse dell’errore solo qualche mese dopo, vedendolo eruttare da Misenum, e da lì attraversò il Golfo verso la morte.

Tracce mirabili di una catastrofe non annunciata, e noi qui affascinati dalla storia di un’eruzione, la più famosa, che riemerge senza insegnarci la metafora di una Natura che è sovrana. Siamo noi i veri sprovveduti che la sfidano sapendo che ha già vinto, non i due fuggiaschi tra i tanti ignari vesuviani del tempo che fu.
No, non mi riferisco alla convivenza con il vulcano d’oggi, supermonitorato come nessuno al mondo. Parlo del riscaldamento globale e delle mutazioni climatiche. Parlo delle manipolazioni di ogni tipo e dei virus di cui siamo responsabili con le nostre attività. Parlo di tutto ciò che crediamo di poter controllare in nome del guadagno a breve termine e dell’eccessivo sfruttamento delle risorse comuni, sperando neanche tanto fortemente nella mano invisibile del fato, ignorando che quella conduce l’eroe delle tragedie greche verso l’inevitabile catastrofe. I fuggiaschi di Pompei siamo noi.

L’aspetto del Vesuvio dalla preistoria a oggi

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Angelo Forgione Napoli è città indissolubilmente legata alla fama del Vesuvio, il vulcano più conosciuto e monitorato al mondo, l’incombente e minaccioso monte descritto da Greci e Latini. Livio, Virgilio, Vitruvio, Strabone ed altri, scrissero di Vesbius, Vesvius, Vesuvius, nomi con la radice pre-indoeuropea ves, cioè montagna, e come tale lo definivano. Per loro, infatti, non era un vulcano, e non era quindi un pericolo, considerazione che spiega perché le popolazioni delle antiche città romane furono sorprese inaspettatamente dalla terribile eruzione del 79 dopo Cristo.
In tutti i film e documentari che raccontano quel giorno infernale il Vesuvio viene erroneamente presentato come un gigantesco vulcano che sovrasta Pompei e la Piana campana. Si tratta di un errore, di un falso storico da smentire, poiché a quell’epoca il vulcano era addirittura più basso rispetto a oggi, e non mostrava alcun cono o cratere ma aveva una vetta pressoché piatta. Tanto i Greci quanto i Romani costruirono nuove città non lontano da quello che a loro sembrava un’innocua e fertilissima montagna.

Il Vesuvio così come lo conosciamo noi, sinuoso e peculiare nel suo aspetto, ha iniziato a conformarsi proprio con la famossisima eruzione che seppellì Pompei, Ercolano, Oplonti e Stabia, quando il vulcano era quiescente da secoli e in una fase di depressione. Da lì iniziò a crescere, per poi tornare quiescente alla fine del tredicesimo secolo e a decrescere nuovamente, e ancora a riprendere attività vulcanica e quota dal Seicento fino ad arrivare al Vesuvio che vediamo oggi.

In epoca preistorica, il vulcano era ben più alto degli attuali 1.281 metri di altezza (1.335 prima dell’eruzione del 1906). Si formò con un’attività vulcanica iniziata 37.000 anni fa e durata fino a 19.000 anni or sono. Con un’eruzione avvenuta 18.300 anni fa cominciò il collasso dell’apparato vulcanico e la formazione della caldera, ovvero la parte bassa del vulcano preistorico, una sorta di recinto all’interno del quale, a partire dall’eruzione del 79 d.C., è fuoriuscita dalle viscere una nuova bocca. Quello che conosciamo come monte Somma, di fianco alla bocca vulcanica, è in realtà ciò che rimane del fianco settentrionale del recinto, ovvero l’unica parte ancora visibile dell’antichissimo Vesuvio preistorico.
L’eruzione del 1944 è stata l’ultima in ordine di tempo e ha segnato il passaggio del vulcano ad uno stato di attività quiescente a condotto ostruito.

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Che il vulcano fosse più basso e non temuto dalle antiche popolazioni vesuviane lo testimoniano le tante scritture di epoca classica. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, elenca i vulcani di quel tempo e non cita il Vesuvio. Nessuna traccia di attività si riscontra negli scritti degli autori del I secolo a.C., a parte Lucrezio Caro, che fa riferimento a un’attività idrotermale “dove fumano sorgenti di acque calde”. Diodoro Siculo sapeva della natura vulcanica del monte: “Si racconta che questa pianura si chiamasse Flegrea per un un monte che in passato eruttava un terribile fuoco come l’Etna in Sicilia. Quel monte ora si chiama Vesuvio e conserva molte tracce del fatto che nell’antichità era infiammato”. Anche Marco Vitruvio Pollione intuì la natura vulcanica del Vesuvio e pure dei Campi Flegrei in base alle proprietà termali: “Vi è del fuoco sotterraneo in queste località e questo può essere indicato dal fatto che nei monti di Cuma e di Baia sono state scavate caverne per sudare nelle quali i vapori caldi che nascono dal fuoco profondo perforano con veemenza la terra. Non di meno si pensa che nei tempi antichi fuochi ardessero e abbondassero sotto il monte Vesuvio, e che questi vomitasse fiamme sui campi circostanti”.
‪Strabone, nel 18 d.C., ‬ossia 61 anni prima dell’eruzione che cancellò le città romane all’ombra del vulcano, descrisse il “mons Vesuvius” nel suo Rerum Geographicarum. Non aveva mai sentito narrare di eruzioni avvenute nel corso della storia precedente, ma notò l’aspetto delle rocce, che sembravano bruciate dal fuoco, e intuì che fossero di origine vulcanica, attribuendo ad essa il motivo della mirabile fertilità delle pendici ma ritenendo il monte un ex vulcano ormai spento. È proprio il suo scritto a dirci che il Vesuvio era piatto in cima:

“Sovrasta a questi luoghi il monte Vesuvio, cinto tutto intorno da campi magnificamente coltivati ad eccezione della vetta, in gran parte piana, del tutto sterile e dall’aspetto cinereo, e presenta cavità cavernose di pietre fuligginose nel colore come se divorate dal fuoco, cosa che attesta che il monte in un primo tempo ardeva e aveva un cratere infuocato che poi si è spento quando il materiale igneo si è esaurito. Forse è proprio questa la causa della fertilità dei terreni circostanti, come a Catania la cenere decomposta dell’Etna”.

Poi l’eruzione improvvisa del 79 che segnò il risveglio del vulcano e un epigramma di Marco Valerio Marziale di qualche anno dopo in cui si legge che Bacco, più dei nativi colli di Nisa, aveva amato il Vesuvio, verdeggiante di vigneti ombrosi prima che tutto giacesse sommerso da fiamme e lapilli.

Vicenda napoletana di Canova, che ammirò i santi Sansevero più del Cristo velato

Angelo Forgione – Boom di visitatori per la mostra ‘Canova e l’Antico’ al Mann, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Cittadini e turisti non resistono al richiamo del gran maestro del Neoclassicismo, tornato nella città in cui maturò da giovane la sua tendenza verso l’arte classica, formalmente distante dai barocchismi descrittivi ormai al tramonto della stessa Napoli e di Roma.
La prima volta in cui vi mise piede era nel gennaio del 1780, e aveva 22 anni. Scese da Roma in viaggio d’istruzione, per visitare le ricchezze della nuova capitale delle antichità greco-romane, meta imprescindibile per qualsiasi artista di quel periodo anche per il richiamo degli scavi di Ercolano, Pompei e Paestum. Il suo secondo “Quaderno di viaggio” consente di percorrere l’itinerario della sua prima visita a Napoli.

Appena giunto, il trevigiano Canova passeggia per le vie della città, che gli appare “veramente situata in una delle più amene situazioni del mondo”. Passa solo un giorno e scrive: “[…] per tutto sono situazioni di Paradiso […]”.
Vede “il nuovo giardino pubblico, cosa veramente bellissima” (l’attuale Villa comunale), e resta incantato della “deliciosissima situazione di questo Paese”. Visita le chiese e i teatri, e sottolinea la straordinaria dimensione dell’Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga.

canova

Il 2 febbraio è in visita alla Cappella San Severo per ammirare le sculture volute da Raimondo de’ Sangro. È curioso di vedere la Pudicizia del connazionale veneto Antonio Corradini ma ne resta poco entusiasta, preferendole la velata del napoletano Giuseppe Sanmartino, il Cristo. Ma non è questa che apprezza di più, anche se si racconta che abbia provato ad acquistarla. Lo scrive, senza fonti, Gennaro Aspreno Galante nella sua ‘Guida sacra della città di Napoli’ del 1872, avvertendo che “pure i detrattori del Sammartino cercano invano difetti in quest’opera, ma il valente artista sarà sempre sicuro del fatto suo, da che il Canova esibì qualunque prezzo per acquistar questo Cristo”.

Con enfasi ancor più grande si tramanda che il Canova abbia anche dichiarato che avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore di questo marmo incomparabile. I suoi scritti ci fanno capire che si tratta di una delle tante suggestioni create attorno alla magnifica scultura cristica in cui carne e stoffa si fanno marmo, una delle più belle al mondo, sicuramente la più mistica e la più stupefacente agli occhi dell’osservatore, ma apprezzata non quanto altre due dal Canova:

“Questa matina si portassimo nella capella della casa di San Severino. Questa capella è ripiena di statue e depositi di marmo, vi è anco la statua velata fatta dal Coradini […].
Vi sono ancora un Cristo di figura al naturale, posto sopra un lenzuolo, e coperto da un vello, il qualle mi parve di più merito della statua del Coradini, questo Cristo è opera di Giuseppe Sanmartini ora vivente; ma le due statue che mi parve più meritevole furono, una Santa Rosa in gienochioni, e il Santo nella cappella di Facciata […].”

Dichiarato apprezzamento per il marmo di Sanmartino nel confronto delle velate, ma più attenzione per le rappresentazioni di Santa Rosalia e di Sant’Oderisio, entrambe del genovese Francesco Queirolo, pure autore del bellissimo Disinganno.
La prima, dedicata all’antenata di Raimondo di Sangro, morta alla metà del XII secolo e divenuta patrona di Palermo per aver salvato la città siciliana dalla peste del 1624. La seconda, dedicata all’altro antenato santo di famiglia.

Canova visita anche la pinacoteca di Capodimonte e il museo di Portici, dove sono riunite le antichità ritrovate negli scavi recenti.
Il 14 febbraio è a Pompei, “sito che si sta scavando presentemente”, e poi a Salerno e a Paestum. Non si fa mancare l’escursione sul Vesuvio e ai Campi Flegrei, presso l’antro della Sibilla, Baia e la Solfatara. Il 28 febbraio lascia Napoli per Caserta e per Capua, e da lì risale a Roma.

Ritorna altre volte a Napoli, da artista affermato, nella città con cui ha diverse relazioni professionali e che sa essere fondamentale per la sua maturazione. Qui trova in seguito le preziose sculture della Collezione Farnese trasferite da Roma, a rendere Napoli sempre più centro dell’arte classica in Europa. Ferdinando di Borbone ha lanciato l’immagine greco-romana della sua Capitale, nuova Atene e nuova Roma, in cui convivono i tesori antichi e le creazioni moderne. Ha rinunciato alla proprietà privata dell’eredità di famiglia e l’ha resa pubblica trasferendola nel nuovo Real Museo di Napoli (l’attuale Museo Archeologico Nazionale).

Canova è a Napoli nel 1787, per scolpire per il marchese Francesco Maria Berio il gruppo in marmo ‘Venere e Adone’ (oggi a Ginevra), destinato a un tempietto nel giardino del palazzo del marchese in via Toledo.

All’inizio dell’Ottocento, re Ferdinando vuole esser effigiato dall’ormai affermato artista veneto in vesti mitologiche. Il modello è pronto nel 1803. È un Ferdinando assai descrittivo in veste di Atena, protettrice delle arti. È stato infatti proprio il Sovrano a fondare il Museo, il primo dell’Europa continentale, e a volervi trasferire la collezione di antichità. Ma l’avvento sul trono napoletano di Giuseppe Bonaparte nel 1806 frena l’esecuzione. Piuttosto, il francese convoca immediatamente a Napoli Canova perché studi la collocazione in una piazza di un monumento equestre dedicato al fratello.

L’artista diventa un paladino della ricchezza partenopea quando, nell’ottobre del 1808, è chiamato a Parigi da Napoleone per realizzare il ritratto dell’Imperatrice Maria Luigia. Lì rifiuta di assumere incarichi fissi ed esprime all’Imperatore l’intenzione di tornare a Roma alla conclusione del lavoro. E si oppone al corso quando questi gli dice che nella capitale di Francia vi sono ormai tutti i capolavori antichi d’Europa, e che si è riservato per sé l’Ercole Farnese di Napoli, l’unico che manca. «Vostra Maestà, – gli risponde il trevigiano – lasci almeno qualche cosa all’Italia. I monumenti antichi formano collezioni a catena con una infinità d’altri che non si possono trasportare né da Roma né da Napoli». E Napoleone ribatte: «Ma noi faremo Roma capitale d’Italia, e vi aggiungeremo Napoli».

Il progetto del monumento equestre a Napoleone per Napoli lo eredita Gioacchino Murat nel 1809, che emette un bando per la realizzazione di una grande piazza classicheggiante per le assemblee pubbliche, un emiciclo porticato attraversabile davanti il Palazzo Reale, delimitato da due edifici gemelli. Al centro, la statua commissionata al Canova, che nel 1813 torna a Napoli per ritrarre Murat e la moglie Carolina.

Con la Restaurazione e il ritorno di Ferdinando di Borbone, la piazza viene realizzata ugualmente, con le necessarie modifiche al progetto, affidato a Pietro Bianchi, epigono luganese di Canova. Davanti alla basilica, sul cavallo già scolpito per la figura dell’Imperatore decaduto, il Canova suggerisce di porre l’immagine di Carlo di Borbone accoppiata a un monumento gemello dedicato all’erede Ferdinando. Entrambi i sovrani devono essere raffigurati con livree da imperatori dell’antica Roma, significando anche con l’anacronismo delle uniformi la rivendicazione napoletana del gusto neoclassico di impronta vesuviana, peraltro ben chiara nell’ispirazione al Pantheon romano della nuova basilica retrostante del Bianchi.

Al ritorno del legittimo sovrano sul trono napoletano, Canova riprende anche la scultura di Ferdinando rimasta in cantiere, e la spedisce via mare a Napoli alla fine del 1819. Nel 1821, finalmente, la gigantesca statua viene collocata nel Real Museo di Napoli, nel luogo indicato da Canova stesso: una nicchia al centro dello scalone monumentale.

Lo scultore veneto muore nell’ottobre 1822, prima di poter ultimare il monumento equestre a Ferdinando di Borbone per il Largo di Palazzo. Lo completa l’allievo designato per la finalizzazione delle opere incompiute, il catanese Antonio Calì. Giusto in tempo perché possa vederlo il Re, morto nel gennaio 1825.

La grande piazza reale di San Francesco di Paola, il Largo di Palazzo, viene solennemente inaugurata nel 1846, con netta impronta neoclassica, e diventa la piazza simbolo della Capitale. Lo resta anche ad Italia unita, quando i piemontesi rimuovono immediatamente la statua di Ferdinando dallo scalone del Museo. Vi torna solo nel secondo Novecento, a rendere giustizia all’artefice iniziale del più importante museo archeologico d’occidente e all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, “l’ultimo degli antichi, il primo dei moderni”.

per approfondimenti: Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017)

Nuovo record per i musei italiani nel 2017

Campania stabilmente seconda con interessante risultato della Reggia di Caserta


Angelo Forgione
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Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha presentato i numeri dei musei italiani del 2017, costantemente in crescita. Battuto ancora un record, quello del 2016, da 45.383.873 a 50.103.996 visitatori. Una crescita nella quale la Campania gioca un ruolo importante, coi suoi 8.782.715 visitatori e un +10,66 rispetto allo scorso anno. «La Campania – fa notare il ministro Dario Franceschini è ormai stabile al secondo posto della classifica delle regioni più virtuose: la rinascita di Pompei è stata sicuramente da traino ma sono state molto positive anche le altre esperienze delle gestioni autonome dalla Reggia di Caserta, al Museo archeologico Nazionale di Napoli, a Capodimonte, a Paestum».
Il Lazio resta la regione leader, dai 20.317.465 ingressi del 2016 ai 23.047.225 del 2017 (+13,44). Roma continua a fare da polo attrattivo internazionale, ma cresce Napoli con il suo polo tutto ancora da sfruttare appieno, motivando le lusinghiere previsioni di Franceschini per il suo ritorno nell’élite internazionale.
La Campania, dunque, si conferma seconda regione e rafforza il suo dato con circa 850mila ingressi in più rispetto al dato del 2016. Ancora molte le potenzialità inespresse, ma crescono gli Scavi di Pompei, quelli di Ercolano e Paestum, la Reggia di Caserta e il Museo Archeologico Nazionale. Segnali confortanti anche per il Museo di Capodimonte a Napoli, ancora attardato, coi suoi noti problemi logistici, ma finalmente nella top-30.
Classifica confermata anche per la Toscana, terza sullo zoccolo di Firenze, che torna a crescere dopo la flessione del 2016, toccando quota 7.042.018 (+10,22%). Inattacabili i tre gradini del podio, anche per il Piemonte e per la Lombardia, regioni dalla crescita molto più contenuta, soprattutto la seconda, che non ha goduto del dato offerto lo scorso anno da Mantova, la Capitale Italiana della Cultura 2016.
I più alti tassi di crescita si sono registrati in Liguria (+25,93%) e in Puglia (+19,48%), mentre male il dato dell’Abruzzo (-11,96%), delle Marche (-4,29%) e dell’Umbria (-5,32%)
2017_mibact_museiI dieci luoghi della cultura più visitati nel 2017 sono stati il Colosseo/Foro Palatino (7.036.104), gli Scavi di Pompei (3.382.240); gli Uffizi (2.219.122), le Gallerie dell’Accademia di Firenze (1.623.690), Castel S.Angelo (1.155.244), la Venaria Reale (1.039.657), il Circuito Museale Boboli e Argenti (1.000.482), il Museo Egizio di Torino (845.237), la Reggia di Caserta (838.654) e Palazzo Pitti (579.640). Tra i primi dieci siti, la miglior crescita è della Reggia di Caserta (+22,80%), anche se resta stabile al nono posto, con uno scarto di 201.003 visitatori rispetto alla Venaria Reale di Torino (lo scorso anno erano 328.963).
Oltre la top-10 vi sono la Galleria Borghese, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Ercolano, Villa d’Este e Paestum. Al 30° posto spunta l’importante Museo di Capodimonte di Napoli, del cui complesso primeggia invece ancora il Parco tra i luoghi della cultura gratuiti più visitati, secondo solo al Pantheon di Roma.
Nei dati non sono riportati il risultati di Sicilia, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, regioni a statuto speciale (ma lo sono anche la Sardegna e il Friuli V.G.) che gestiscono autonomamente i beni culturali.
Notizie dunque positive, ma è bene ampliare lo sguardo almeno all’Europa e chiarire che i nostri musei e siti culturali, nonostante la crescita, non attirano come altri giganti dell’esposizione internazionale. Se storniamo Colosseo e Pompei, che non sono propriamente dei musei, il primo tale, ossia gli Uffizi, con i suoi 2,2 milioni di visitatori, è lontano dal Louvre (circa 9 milioni di ingressi), dal British Museum (6,7), dalla National Gallery (6,4) e pure dai Musei Vaticani (6,2), che non appartengono allo Stato italiano.

Le Quattro Giornate di Napoli, l’inizio del declino morale d’Italia.

Angelo Forgione Era la mattina del 21 luglio 1941, ore seguenti il primo bombardamento degli Alleati anglo-americani su Napoli, quando i napoletani lessero un volantino di rivendicazione firmato dagli inglesi, su cui era scritto:

Noi inglesi, che mai finora fummo in guerra contro di voi, vi mandiamo questo messaggio.
Questa notte abbiamo bombardato Napoli. Non volevamo bombardare voi cittadini Napoletani perché non siamo in lite con voi. Noi vogliamo soltanto la pace con voi. Ma siamo stati costretti a bombardare la vostra città perché voi permettete ai Tedeschi di servirsi del vostro porto.
Finché partono da Napoli navi cariche di armi e materiali Tedeschi per le forze Germaniche in Libya, Napoli sarà ripetutamente bombardata.
Il bombardamento di questa notte è solo il primo rombo della tempesta che s’avvicina…

Una minaccia, insomma. Qualche giorno prima, il presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Roosevelt aveva scritto al primo ministro del Regno Unito Winston Churchill:

[…] Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l’Italia ad un incessante e sempre crescente bombardamento aereo. Queste misure possono da sole provocare un rivolgimento interno o un crollo.

Era iniziato l’accanimento bellico, una strategia psicologica, puramente terroristica a base di incursioni dal cielo finalizzate all’esasperazione popolare. Bisognava stimolare la sollevazione contro i tedeschi e la disapprovazione popolare nei confronti di Mussolini per la decisione di seguire la Germania di Hitler e trascinare l’Italia in una guerra proibitiva.
Roosevelt, tra il 1941 e il 1943, invitò più volte il primo ministro del Regno Unito Winston Churchill a sottoporre gli italiani ad un incessante e sempre crescente attacco aereo. Nell’ottobre del 1942, l’americano scrisse ancora all’inglese:

[…] deve essere nostro irrinunciabile programma un sempre maggior carico di bombe da sganciare sopra la Germania e l’Italia.

Nel luglio del ’43, sempre il presidente USA dichiarò:

Bombardare, bombardare, bombardare […] io non credo che ai tedeschi piaccia tale medicina e agli italiani ancor meno […] la furia della popolazione italiana può ora volgersi contro intrusi tedeschi che hanno portato, come essi sentiranno, queste sofferenze sull’Italia e che sono venuti in suo aiuto così debolmente e malvolentieri […]

volantino_alleatiLe bombe, dopo aver demolito i siti strategici, dovevano abbattere anche il morale della gente. Il piano, concertato tra Washington e Londra, fu accettato in modo occulto anche dalla Casa Reale Savoia a Roma e, soprattutto, dalla Massoneria italiana in cerca di riscatto dalla messa al bando fascista, cui era legato il maresciallo piemontese Pietro Badoglio, candidato a sostituire Mussolini alla guida del Governo, ruolo conferitogli poi, nel luglio del 1943, dal massone Vittorio Emanuele III, il quale ordinò l’arresto del Duce. Il Regno d’Italia concordò e siglò segretamente l’armistizio con gli Alleati anglo-americani, ma l’accordo fu reso noto solo l’8 settembre per insistere ancora qualche mese nella strategia psicologica, poiché la guerra non si poteva vincere senza convincere. Tutti corresponsabili di immotivate vessazioni sulla pelle dei napoletani pur di rovesciare il dittatore. Tra congiure di palazzo e bombardamenti sugli innocenti, Napoli fu messa letteralmente in ginocchio. Il porto fu raso al suolo e i monumenti risultarono gravemente danneggiati. Persino la Reggia di Caserta e gli scavi di Pompei furono ripetutamente, violentemente e selvaggiamente colpiti, perdendo reperti e preziosissimi dipinti.
Napoli, con tutto il Sud, fu colta di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, quando in città vi erano circa ventimila tedeschi. La situazione divenne di colpo caotica e il popolo, senza protezione alcuna, divenne ostaggio e vittima della furia vendicativa nazista. L’esacerbazione popolare diede soddisfazione agli Alleati con la rivolta delle Quattro giornate di Napoli del settembre 1943, in cui i partenopei, spazientiti dall’ordine di sfollare il centro urbano e rassicurati dall’avanzata degli anglo-americani da Salerno, poterono portare a compimento la cacciata dei nazifascisti tanto stimolata da Roosevelt. La Resistenza avrebbe trionfato nell’aprile del 1945, ma grazie alla positiva conclusione dell’operazione militare segreta “Sunrise”, occultata dalla storiografia ufficiale per non sminuire lo spirito partigiano, ma decisiva per la resa separata delle truppe tedesche in Italia e per risparmiare al Nord ulteriori distruzioni civili e industriali.
Migliaia di famiglie napoletane in lutto, un terzo degli edifici in macerie, il porto distrutto, mancanza di gas, carenza d’acqua e di viveri, condizioni igieniche pessime e tifo petecchiale insorto per la promiscuità nelle affollate cavità sotterranee adibite a ricoveri pubblici. In queste condizioni Napoli, la città più bombardata d’Italia (circa 200 raid di cui 120 a segno), inaugurò il suo dopoguerra molto prima che finisse la guerra e si inoltrò in un periodo senza terrore ma con mille angosce. Per ben un anno e mezzo, infatti, i napoletani furono costretti a badare a se stessi, rappresentando un mondo a parte, duramente martirizzato e umiliato, che si arrangiava alla meglio sotto il controverso controllo degli Alleati. La precoce liberazione segnò purtroppo l’avvio di una caduta morale e spirituale di un popolo che tanto ricco di dignità si era mostrato durante la cacciata dei nazisti.
Governatore di Napoli fu il colonnello americano Charles Poletti, riferimento per la mafia e già governatore in Sicilia, dove gli Alleati erano sbarcati e avevano sostituito i sindaci fascisti con mafiosi allontanati dal regime. Con atteggiamento utilitaristico, l’alto funzionario statunitense scelse come aiutante e interprete don Vito Genovese, socio del famigerato Lucky Luciano e boss di una delle cinque famiglie mafiose di New York, rifugiatosi in Italia per sfuggire a un processo per omicidio, passato opportunamente dalla parte degli antifascisti e resosi molto utile, grazie ai suoi particolari legami, allo sbarco sull’Isola degli Alleati, cioè all’inizio dell’invasione nazionale che portava la liberazione. Il boss, approfittando del razionamento dei viveri, fece prosperare il commercio clandestino dei generi alimentari a Napoli, coperto dagli ufficiali americani che ne favorivano gli affari.
La delinquenza dilagò enormemente. Centinaia di detenuti cui i tedeschi in fuga aprirono le celle nelle prigioni napoletane ebbero campo libero per depredare e alimentare la criminalità. La camorra fece un ulteriore salto di potere. Quando, nel 1945, la Criminal Investigation Division giunse a Napoli per indagare sulle connivenze tra la malavita locale e i militari americani, i loschi affari di don Vito Genovese si interruppero di fronte all’arresto e all’estradizione negli Stati Uniti. Il boss fu sottoposto al processo che aveva cercato di evitare fuggendo in Italia, durante il quale un testimone chiave morì avvelenato in circostanze “misteriose”. Don Vito fu assolto dalle accuse per mancanza di prove, e partì alla conquista dei vertici della mala statunitense. La sua repentina ascesa diede modo alla camorra napoletana di allacciare rapporti e collegamenti con la mafia d’America e con i poteri internazionali, orientando gli affari verso l’allettante traffico intercontinentale della droga. Riaffiorò più forte di prima la malavita organizzata, con drammatiche conseguenze morali e sociali nel futuro di Napoli, sulla cui pelle furono impresse le cicatrici di un lunghissimo periodo di anarchia e sostanziale autogestione.
Nella povertà napoletana degli anni Cinquanta guadagnò potere la camorra, ingannevolmente cancellata dal regime fascista ma maggiormente rinvigorita dal narcotraffico instaurato con le cosche statunitensi e dai rapporti con i politici repubblicani. Complici i clientelismi politici crescenti, le mafie del Sud aumentarono progressivamente il loro radicamento e la loro influenza sia nel tessuto sociale della plebe che negli ambienti più decisivi dell’amministrazione.
Molti malavitosi meridionali furono mandati al confino settentrionale dal ‘soggiorno obbligato’, una legge del 1956 con cui la classe politica del tempo pensò di allontanare dai territori d’origine i mafiosi senza condanna, nella convinzione che al Nord non sarebbero riusciti a ricreare una rete criminale. E invece l’operazione finì con il ribaltare l’assioma secondo cui le mafie erano esclusivo frutto della sottocultura meridionale e che il trapianto fosse impossibile in zone con un più alto tasso di civismo e di capitale sociale. A Milano e nei centri limitrofi furono relegati circa quattrocento uomini delle cosche, soprattutto calabresi, che sfruttarono le convenienti condizioni economiche del florido periodo postbellico e la maggiore autonomia d’azione rispetto alle lontane zone di origine, facendo di quei luoghi dei veri e propri quartieri generali del crimine organizzato. Nei favolosi anni Sessanta iniziarono ad allacciarsi i primi occulti rapporti fra mafiosi meridionali e imprenditori lombardi. Nella zona esplose il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, gestiti per lo più dalla ’ndrangheta, talora con l’appoggio entusiasta delle bande locali. Ben presto, il capoluogo lombardo divenne uno dei mercati più importanti per il traffico e il consumo di stupefacenti, e la nuova possibilità permise ai clan di acquisire ingenti capitali e liquidità utile a creare importanti legami con l’imprenditoria e la politica del posto. La zona si consacrò come cuore economico della malavita organizzata e si avviò a posizionarsi tra le peggiori d’Italia per numero di reati mafiosi.
Proprio in questi giorni si discute del maxi blitz contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia. “Milano come San Luca”, titolano i quotidiani di oggi, ma è così da decenni. Grazie alla “liberazione” americana, interessata a imporre la sua egemonia economica e commerciale in Europa, e alla fallimentare politica repubblicana d’Italia, per nulla diversa da quella del periodo monarchico, cioè da quell’ottantennio 1861-1945 in cui Napoli è passata dall’essere città più importante d’Italia, ordinata capitale, a emblema di un crollo morale ed economico tuttora drammaticamente in corso.

(brani essenziali dell’articolo tratti da Napoli Capitale Morale, Magenes 2017​)

Come Napoli divenne culla dell’archeologia moderna e del Neoclassicismo

Angelo Forgione Interessante puntata di Petrolio (Rai Uno) quella intitolata #petroliosulgolfo del 28/7/17. Tra bellezza portata alla luce e creata nel Settecento e brutture del Novecento (a buon intenditor poche parole; ndr), la trasmissione si è resa davvero istruttiva per chi non è conoscenza di un’incredibile ricchezza archeologica della terra napoletana, non a caso la culla dell’archeologia moderna, che ha davvero tutte le carte in regola per tornare ad essere capitale mondiale del turismo. Qualche precisazione però va fatta, a partire dalla distinzione proposta tra gli scavi borbonici in sotterranea e quelli moderni, con la voce fuori campo che ha così narrato: «più ci addentriamo nel tunnel, più si fa chiaro l’intento degli scavi borbonici, ben diversi dall’archeologia moderna». A seguire, la dichiarazione dello speleologo romano Marco Placidi: «questi andavano semplicemente alla ricerca di oggetti, di statue, che servivano semplicemente per essere o rivendute o regalate agli amici dei Borbone». Detta così, passa per qualcuno il messaggio di un’autorizzata attività esclusivamente predatoria, che non fu. Bisogna dunque chiarire il processo di nascita degli scavi per chiarire che i Borbone non persero nulla di veramente prezioso, e anzi arricchirono Napoli, ma furono semmai francesi e inglesi a derubare la città, saccheggiando in particolar modo le antiche statue greche e romane. William Hamilton, ambasciatore di Gran Bretagna presso i Borbone di Napoli dal 1764 al 1800, rifornì il British Museum di classicità pompeiane, e nei sotterranei della sua casa napoletana il Goethe, che gli fece visita nel 1787, scoprì una vasta e disordinata collezione di reperti archeologici, invitato a tacere e a non indagare oltre sulla loro provenienza dall’amico Jakob Philipp Hackert, pittore di corte. Nel 1799, il generale francese Championnet scrisse da Napoli al ministro dell’Interno del Direttorio di Parigi che alcune preziose statue in marmo e bronzo di Ercolano stavano per partire per Parigi. I francesi, prima di essere cacciati, non riuscirono a far partire in tempo il già imballato Ercole Farnese del Real Museo Borbonico, che restò anche il grande cruccio di Napoleone, il quale, nel 1810 ricevette Antonio Canova a Parigi e gli disse che gli mancava solo la statua napoletana e che stava per portarsela a Parigi. Anche lui non fece in tempo.

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Facciamo un po’ di chiarezza, riportando cronologicamente come la corte borbonica di Napoli cambiò il gusto del mondo.

  • 1738: l’ingegnere militare Rocque Joaquín de Alcubierre, archeologo del Genio Borbonico, sapendo di trovarsi in una plaga vulcanica colpita da violente eruzioni, chiede e ottiene dal re Carlo di Borbone l’autorizzazione per avviare degli scavi a Resina (l’attuale Ercolano). Partono i primi sondaggi, per i quali ci si affida agli artiglieri dell’esercito borbonico (tra cui Raimondo de’ Sangro, principe di San Severo), i quali sviluppano l’ingegneria mineraria, con cui si realizzano impressionanti sistemi di gallerie a grandissima profondità con impiego di esplosivi. Le cognizioni archeologiche non sono certamente adeguate al delicato compito, ci si trova di fronte a una scienza nuova tutta da indagare e codificare, e allora il difficile e approssimativo metodo di lavoro procede con sondaggi verticali fino al punto in cui si rinvengono tracce di edifici, avanzando poi in orizzontale con la realizzazione di stretti cunicoli durante la cui lavorazione è facile procurare danni spesso irreparabili ai preziosi reperti. Si cercano tesori sepolti, e non c’è ancora l’idea di riportare alla luce le antiche città distrutte dal Vesuvio. Comincia ad affiorare un inestimabile tesoro sotterrato da circa diciassette secoli, e ogni reperto viene trasferito alla Reggia di Portici, da poco edificata come residenza estiva della corte. Tutto deve essere consegnato a Carlo di Borbone (diversamente da quanto dice lo speleologo Placidi a Petrolio), il quale ha già trasferito da Parma e Piacenza la parte emiliana della preziosa Collezione Farnesiana, ereditata dalla madre Elisabetta Farnese.
  • 1745: due eruditi napoletani, l’abate Giacomo Martorelli e il canonico Alessio Mazzocchi, convincono Carlo di Borbone a dirottare gli artiglieri sulla collina di Civita, convinti che lì sotto ci sia l’antica città di Pompeii. Il primo scavo frutta, dopo cinque giorni, una parete affrescata e, dopo altri tredici, il primo scheletro.
  • 1748: riemerge Oplontis; un anno più tardi Stabiae; e poi Cuma, Puteoli e gli antichi resti di Capri.
  • 1750: Gli scavi cambiano scopo dopo che si comprende che a Resina si sta scavando nella Villa dei Papiri di Herculaneum. Il Re capisce che quelle antiche città, se esumate, possono diventare musei a cielo aperto capaci di attirare i viaggiatori del Grand Tour che difficilmente si spingono più a sud di Roma, una fonte di arricchimento non solo culturale per il Regno di Napoli. Cresce così l’impulso dato agli scavi e cospicui diventano i finanziamenti per ampliare le aree di lavoro. Vengono disegnate numerose piante di edifici e i reperti, inizialmente considerati di proprietà della famiglia reale, vengono dichiarati proprietà dello Stato.
  • 1752: Carlo di Borbone apre la strada per le Calabrie, che fornisce altri spunti col rinvenimento dei templi greci di Paestum. La riscoperta del classico fa così un ulteriore passo indietro nel tempo, dai Romani ai Greci. Altri finanziamenti vengono dirottati sul sito.
  • 1755: il Re istituisce la Reale Accademia Ercolanense, con la funzione di esaminare i reperti e fornire fondamenti scientifici all’archeologia, in modo da attrarre i maggiori studiosi del Vecchio Continente. Napoli diviene sempre più meta privilegiata di politica, cultura e scienza. L’Accademia produce volumi ricchi di informazioni e incisioni raffiguranti le preziosità portate alla luce, che fanno il giro delle corti, dei collezionisti e delle università dell’intera Europa. I modelli ercolanensi e pompeiani ispirano Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga, che ne recuperano pian piano gli elementi architettonici, riformulandoli nell’architettura della Reggia di Caserta e nel Real Albergo dei Poveri di Napoli.
  • 1758: Carlo di Borbone istituisce il Real Museo Ercolanense, unico in tutta Europa non solo per la quantità e la qualità dei reperti riuniti, ma anche per i laboratori sperimentali e l’insieme delle attività di studio e di restauro che vi si svolgono, tra le quali spiccano gli ingegnosi metodi via via tentati per srotolare i papiri carbonizzati e recuperati a Ercolano. Il Museo diviene ben presto meta obbligata di studiosi, intellettuali e amanti dell’arte. Alla Reggia di Portici, in quell’anno, giunge in visita il maggiore studioso dell’epoca, il bibliotecario tedesco Johann Joachim Winckelmann, che sfrutta il suo soggiorno alle falde del Vesuvio per codificare le intere strutture e i tessuti urbani dissotterrati.
  • 1759: Carlo di Borbone è costretto a lasciare Napoli per trattato stupilato con Vienna. Tocca a lui ereditare il trono di Madrid. Al porto di Napoli, prima di imbarcarsi per Barcellona, si sfila dal dito un anello rinvenuto durante gli scavi e lo consegna ai funzionari del primo ministro Bernardo Tanucci, affermando «non è roba mia, appartiene allo Stato di Napoli». Ormai gli scavi procedono in superficie e i primi tunnel sotterranei vengono chiusi.
  • 1764: Sulla scorta di quanto visto a Napoli, Winckelmann pubblica la Storia delle arti del disegno presso gli antichi, in cui proclama l’arte classica come ideale di perfezione. L’opera diffonde in tutt’Europa le notizie di quei rinvenimenti e contribuisce in maniera fondamentale a rendere le città-ruderi del Vesuviano una vera e propria moda continentale. Winckelmann codifica così l’archeologia moderna, nuova scienza di cui Napoli diviene ufficialmente culla. Nasce ufficialmente il Neoclassicismo, nuovo stile e passione illuministica che si diffonde velocemente, travolgendo e spazzando via il Barocco e tutte le correnti precedenti. La capitale del Regno diviene l’epicentro di un nuova moda delle arti che si propaga in Europa e poi nel mondo.
  • 1777: Ferdinando di Borbone, erede al trono di Napoli, toglie la proprietà privata a tutte le collezioni di famiglia appartenenti al suo ramo borbonico per renderle pubbliche e donarle alla città. Affida quindi a Ferdinando Fuga il compito di sistemare un edificio integralmente destinato alla cultura e alle arti universali, il primissimo dell’Europa continentale e il primo al mondo del genere. Nasce il Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico Nazionale di Napoli, la prima esposizione classica del pianeta, dove viene trasferita la parte archeologica romana della Collezione Farnesiana fin lì situata nelle terrene di Caracalla di Roma.
  • 1778: L’architetto e incisore Giovan Battista Piranesi diffonde in tutt’Europa l’immagine del Tempio di Era a Paestum, capace di condizionare tutti i teorici dell’architettura del continente, soprattutto quelli d’avanguardia. Milano, Parigi, San Pietroburgo e la stessa Napoli si fanno capitali della nuova edilizia neoclassica.
  • 1787: A Napoli arriva il tedesco Johann Wolfgang Goethe, e visita scavi e Museo Ercolanense, definendolo “l’alfa e l’omega di tutte le raccolte di antichità”. I suoi racconti contribuiranno a divulgare le bellezze di Napoli in tutto il Continente.
    Il processo è ormai compiuto. Napoli è la riconosciuta capitale della cultura classica, che impera in Europa. Da lì in poi inglesi e francesi si riversano sulle antichità vesuviane di Napoli per arricchire Londra e Parigi. In seguito alla confusione generata della rivoluzione del 1799 la maggior parte della raccolta del Museo Ercolanense viene trasferita nel Real Museo Borbonico di Napoli.

Nuovo record per i musei italiani nel 2016

Campania (in continua crescita) seconda regione, ma Capodimonte resta un problema

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Angelo Forgione
Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha presentato i numeri dei musei italiani del 2016, costantemente in crescita. Battuto il record del 2015, da 43.288 a 44.446.573 visitatori. «Una crescita – sottolinea soddisfatto il ministro Dario Franceschininella quale il Sud gioca un ruolo importante, con la Campania anche nel 2016 stabilmente al secondo posto nella classifica delle regioni con maggior numero di visitatori grazie agli oltre 8 milioni di ingressi registrati, un aumento del 14,2% sul 2015».
Il Lazio, stazionario, resta la regione leader, dai 19.750.157 ingressi del 2015 ai 19.653.167 del 2016. Roma continua a fare da polo attrattivo internazionale, ma cresce Napoli con il suo polo tutto ancora da sfruttare appieno, motivando le lusinghiere previsioni di Franceschini per il suo ritorno nell’élite internazionale.
La Campania, infatti, si conferma seconda regione e rafforza il suo dato con un milione di ingressi in più, da 7.052.624 visitatori a 8.075.331. Ancora molte le potenzialità inespresse, ma crescono gli Scavi di Pompei, quelli di Ercolano e Paestum, la Reggia di Caserta e il Museo Archeologico Nazionale.
Classifica confermata anche per la Toscana, terza sullo zoccolo di Firenze, che però perde quattrocentomila visitatori, da 6.738.862 a 6.394.728. Inattacabile il terzo gradino del podio, nonostante la crescita del Piemonte, da 1.903.255 visitatori a 2.464.023, e della Lombardia, da 1.552.121 a 1.791.931 anche grazie al dato di Mantova, che ha ospitato la Capitale Italiana della Cultura 2016.
Il più alto tasso di crescita si è registrato proprio in Piemonte (+31,4%), grazie al raddoppio degli ingressi alla Reggia di Venaria Reale, ma buoni aumenti hanno mostrato anche Calabria (+17,6%), Liguria (+17,5%), Veneto (+17%), Campania (+14,2%) e Lombardia (+8,3%).
I dieci luoghi della cultura più visitati nel 2016 sono stati il Colosseo/Foro Palatino (6.408.852), gli Scavi di Pompei (3.283.740); gli Uffizi (2.010.631), le Gallerie dell’Accademia di Firenze (1.461.185), Castel S.Angelo (1.234.443), la Venaria Reale (1.012.033), il Circuito Museale Boboli e Argenti (881.463), il Museo Egizio di Torino (852.095), la Reggia di Caserta (683.070) e la Galleria Borghese (527.937). Tra i primi dieci siti, il miglior salto è della Venaria Reale (+71%), passata dall’ottavo al sesto posto grazie a una serie di eventi ben comunicati con una buona campagna pubblicitaria. Il risultato è un numero di visitatori che è ben superiore all’ancor più bella e sicuramente più importante Reggia di Caserta (+37%), la quale pure ha guadagnato una posizione. Lo scarto, di fatto, è passato da 58.149 a 328.963 visitatori a favore della Venaria.
Nelle retrovie, incalzano la top-10 il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, passato dal 14simo all’11esimo posto, e la Villa d’Este a Tivoli. Resta ancora attardato l’importante Museo di Capodimonte a Napoli, coi suoi problemi logistici e fuori dalla top-30 nonostante il +33% di visitatori. Del complesso napoletano primeggia il Parco, che, tra i luoghi della cultura gratuiti, si conferma secondo solo al Pantheon di Roma.
Nei dati non sono riportati il risultati di Sicilia, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, regioni a statuto speciale (ma lo sono anche la Sardegna e il Friuli V.G.) che gestiscono autonomamente i beni culturali.
Notizie dunque positive, ma è bene ampliare lo sguardo almeno all’Europa e chiarire che i nostri musei e siti culturali, nonostante la crescita, non attirano come altri giganti dell’esposizione internazionale. Se storniamo Colosseo e Pompei, che non sono propriamente dei musei, il primo tale, ossia gli Uffizi, con i suoi 2 milioni di visitatori, è lontano dal Louvre (circa 9 milioni di ingressi), dal British Museum (6,7), dalla National Gallery (6,4) e pure dai Musei Vaticani (6,2), che non appartengono allo Stato italiano.

musei_2016

Quando Napoli cambiò il gusto del mondo

Angelo Forgione Il ritrovamento di Ercolano, Pompei e le altre città romane sepolte alle falde del Vesuvio impresse una svolta decisiva per l’intera cultura europea del Settecento, cambiando la sensibilità estetica e riaccendendo la passione per una nuova classicità che travolse ogni aspetto artistico e culturale, dall’architettura alla letteratura. Luigi Vanvitelli, alla corte di Napoli, chiuse l’epoca del Barocco e codificò il Neoclassicismo per il mondo.
Altri spunti alla rivoluzione architettonica fiorirono col rinvenimento dei templi greci di Paestum in occasione dell’apertura della strada per le Calabrie. La riscoperta del classico fece così un ulteriore passo indietro nel tempo, dai Romani ai Greci, col decisivo contributo dell’architetto incisore Giovan Battista Piranesi, che, nel 1778, diffuse in tutt’Europa l’immagine del Tempio di Era a Paestum, capace di condizionare tutti i teorici dell’architettura del continente, soprattutto quelli d’avanguardia.
Tutta l’Europa rivolse attenzione ai ritrovamenti napoletani, spinta dagli scritti dall’archeologo e storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann, che teorizzò la perfezione dell’arte classica greca e romana, da cui recuperare i principi. E l’architettura cambiò per tutti, Napoleone compreso.