L’anello di Carlo di Borbone

Angelo Forgione Era il 7 ottobre del 1759, Domenica, ed enorme fu la commozione dei cittadini napoletani, accorsi a salutare il re che aveva saputo dare a Napoli molto di più che un governo. Carlo di Borbone, alle 13 in punto, salpava dal porto di Napoli per navigare verso Barcellona, da dove avrebbe raggiunto Madrid per diventare Carlo III di Spagna. Amava così tanto Napoli che se fosse dipeso dalla sua volontà non l’avrebbe mai salutata. Ai napoletani lasciò una politica sociale ed economica in grande crescita, palazzi e teatri unici, delle inestimabili opere d’arte, a partire dalla parte emiliana della Collezione Farnese, e una nuova linfa, quella archeologica, che avrebbe permesso alla città di poter vivere per secoli di quelle scoperte che ancora oggi richiamano il mondo intero.
Prima di abbandonare Napoli volle visitare per l’ultima volta tutti i siti reali e le principali realizzazioni da lui promosse. Al Museo di Portici, dove erano raccolte le antichità rinvenute negli scavi archeologici, si sfilò un anello ritrovato personalmente a Pompei fatto con un cammeo rappresentante una maschera comica barbuta. Da qual momento lo aveva sempre portato al dito, ma in procinto di partire lo ripose tra i cammei e gli anelli del museo e disse: «Appartiene a Napoli. È patrimonio dello Stato».
In verità a Madrid portò con sè architetti, funzionari e vassalli napoletani fidati da affiancare agli spagnoli, e pare anche un po’ di sangue di san Gennaro, di cui era devotissimo.
Carlo non tornò mai più all’ombra del Vesuvio ma trascorse il resto della sua vita con la nostalgia della città che davvero amò di più.

Anello di Carlo di Borbone (MANN) / Dipinto di Antonio Joli (Prado)

160 anni fa Napoli non più capitale

Angelo Forgione 7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni esatti sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale, sostanzialmente, non è più tale.
In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.

Garibaldi arriva in città e si autoproclama “Dittatore delle Due Sicilie”. Ad accompagnarlo c’è anche fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano siciliano unitosi alla spedizione dei Mille e utilissimo per legittimare, attraverso la predicazione, l’impresa garibaldina presso le classi popolari e per favorire la coscrizione di volontari. Eppure il nizzardo è un massone, un rigidissimo anticlericale, e odia preti e uomini di Chiesa di ogni ordine e grado. Di spontaneo c’è poco di fronte ai grandi interessi enormi che lo travolgono nella sua incursione nel cattolico regno borbonico, e ben lo sanno i malviventi napoletani e siciliani di cui l’Eroe si serve per portarla a compimento. Sono proprio gli uomini della Bella Società Riformata, i modesti delinquentucoli in carriera della Napoli conquistata, a garantirne la sicurezza. Le rampanti canaglie, investite di poteri polizieschi dall’opportunista prefetto Liborio Romano, in cambio di un totale colpo di spugna dei casellari giudiziali e di lauti vitalizi, impongono la legge del più violento per sottomettere tutti i nemici dello spirito liberale e, al gran completo, accolgono Garibaldi alla strada dei Fossi, dove sorge la stazione ferroviaria. Loro a terra e i britannici nel Golfo sul legno Intrepid, di scorta al Generale sin dalla Sicilia e piazzatosi per mesi davanti al litorale di Santa Lucia, mentre il dittatore elargisce compensi e prebende ai malavitosi e promette cariche parlamentari a Don Liborio. In testa al corteo che segue la carrozza del “dittatore” figura proprio il questore capintesta “Tore ‘e Criscienzo”. Via Marina, Maschio Angioino, Largo di Palazzo (Plebiscito) con breve discorso. Poi su per la strada di Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri allo Spirito Santo, dal quale si affaccia e ne prende possesso come dimora.
Il giorno seguente, il Generale che detesta il Papa e che ha chiamato Pionòno (Pio IX) il suo asino vuole che si verifichi il prodigio settembrino di san Gennaro in sua presenza, perché ben sa che i favori del Patrono possono assicurargli quelli del popolo partenopeo. È già accaduto sessant’anni prima, con i militari francesi a “vigilare” sul compimento dello scioglimento del sangue.
Garibaldi e i suoi trovano la Cappella del Tesoro sbarrata. Niente da fare. E allora, in serata, accompagnato dal “doppia faccia” Liborio Romano e da tutti i camorristi di guardia, incrocia la processione della Madonna di Piedigrotta e, pur di ingraziarsi i cattolicissimi napoletani, si reca al Santuario di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia. Per volontà divina vengono sorpresi da un tremendo temporale che inzuppa il corteo. Quando arriva, il nizzardo si scappella davanti a tutti di fronte all’immagine della Vergine.
Tocca aspettare il 19 settembre, giorno del Santo patrono, per timbrare di rosso garibaldino il prodigio. «Il sangue deve liquefarsi e si liquefarà – urlano i predicatori garibaldini in largo di Palazzo – altrimenti a farlo liquefare ci penserà Garibaldi». E così è!

Quella dell’anno seguente è l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini. I Savoia la cancellano nel 1862 dopo aver decretato nel Febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della chiesa. È coinvolto ovviamente anche il santuario di Piedigrotta, i cui canonici vengono liquidati con un piccolo vitalizio.

7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale non è più tale.
In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.

[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.
Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]

Il 7 settembre del 1878, diciotto anni dopo il suo ingresso dittatoriale a Napoli, Garibaldi, usato e messo da parte da Vittorio Emanuele II, scrive una lettera alla patriota milanese Adelaide Cairoli, motivandole le dimissioni dalla carica di deputato al Parla­mento e mostrandosi pentito del suo apporto alla causa piemontese-lombarda in alcuni significativi passaggi:

[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.
Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]

per approfondimenti:
Napoli Capitale Morale
Made in Naples

Il bello di essere napoletani a “Napoletani Belli”

di Francesco Gala (redazione Radio CRC)

Lunedì 25 Marzo, alla trasmissione radiofonica “Napoletani Belli”, in onda dal lunedì al venerdì dalle 19 alle 21 su Radio CRC, ospite Angelo Forgione, quotato scrittore e giornalista al fianco del padrone di casa Ettore Petraroli.

Faccio lo scrittore – ha detto il protagonista della puntata – perché voglio rimettere a posto i conti con la storia, e Napoli è portatrice sana di storie. Una storia negata su questa città? Può essere lo stesso pomodoro, perché in passato i prodotti fatti con quest’ortaggio erano denigrati, oggi invece sono il simbolo dell’Italia nel mondo”.

Spazio a due napoletane belle: Beatrice Lizza, milanese che ama la nostra città e sta per trasferirvisi, ed Elisa Baroti, albanese che da sempre vive a Napoli.

Beatrice ha esordito così: “Sono napoletana d’origine ma sono nata e cresciuta a Milano. Volevo fare l’università a Napoli, però per motivi di lavoro ho rinunciato. Ora disferò per l’ultima volta le valigie per vivere a Napoli dopo due anni e mezzo. Il mio innamoramento è diventato vero e proprio amore”.

Anche Elisa ha raccontato il suo rapporto con la città partenopea: “Sono qui grazie ai miei genitori e devo dire che è il regalo più bello che mi potessero fare. Sono follemente innamorata della città in cui vivo. Sono abbastanza fortunata perché viaggio molto anche in Europa, però posso dire che questa città è speciale. Abbiamo cose meravigliose sotto il nostro naso e non ci rendiamo conto nemmeno di tutto questo”.

Forgione ha poi chiamato in causa Pasquale Cozzolino, ormai celebre chef napoletano, cha aperto un ristorante in America dal nome Ribalta. Un giorno ha preso parte ad una selezione per la cucina di Bill De Blasio, sindaco di New York, che dopo aver assaggiato la sua parmigiana ha detto: “Questi sono i sapori della mia infanzia”. Da quel momento Pasquale ne è diventato lo chef: “De Blasio non può mangiare pasta a casa perché la maglie glielo vieta, però di nascosto, ogni tanto, viene da me e la mangia. Per lui cucino io e la mia squadra, e lo facciamo nella residenza riservata. Sono lo Chef executive ed ogni settimana stilo il menù che poi viene approvato dal sindaco. Sono diventato ricco? La vita a New York è cara, dunque anche se lo stipendio è alto per gli italiani, qui in America è normale”.

Spazio poi a Tommaso Primo, celebre cantautore partenopeo: “Se faccio uso della sesta napoletana? È un accordo che non ho usato nell’ultimo disco, bensì in Flavia e il Samurai. Si usa tipicamente nella musica rock, però io cerco anche di usare altri generi. Quando suono qualcosa in napoletano la uso, in altri contesti evito. Su quest’accordo si è fondata la musica rock, Elvis ne è stato il fautore”.

Forgione racconta che il pomodoro lungo è arrivato a Napoli grazie all’intercessione di San Gennaro. Per questo motivo ha aperto il  microfono a Francesco Andoli: “Ho una risto-bottega dal nome “Januarius”. Ci troviamo nei pressi del Duomo. È un locale dedicato completamente al Santo ed è arredato in tema, e la cucina è tipicamente tradizionale. Dove va il pomodoro lungo? Nel ragù napoletano è d’obbligo”.

Il turismo a Napoli all’ombra di Milano

Angelo Forgione – Napoli speranzosa e soddisfatta per la crescita turistica, che non tocca i 2 milioni di presenze annue ed è lontana dai 9 milioni di Milano, la città italiana più visitata dai turisti di tutto il mondo, la quinta relativamente alla sola Europa, seguita da Roma (8) e Venezia (10). Questo è quel che dice la classifica del ‘Global Destination Cities Index‘ stilata da Mastercard.

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Napoli, pur con il trend favorevole degli ultimi anni, punta a raggiungere i 2 milioni entro il 2020 e si affida al passaparola e ai social, ma senza una strategia davvero adeguata per andare a prendersi i viaggiatori e per farsi trovare sufficientemente preparata. Pulizia delle strade deficitaria, trasporti insufficienti, istruzione linguistica inadeguata, monumenti fatiscenti e scarsamente illuminati a sera, canteri ovunque, inciviltà incidente, sicurezza percepita all’esterno molto scarsa.

Questione di immagine e di disponibilità economica, certo, ma anche di competenze manageriali. Il divario è tutto nelle condizioni in cui versano le gallerie gemelle delle due città, la ‘Vittorio Emanuele II’ di Milano, che è un salotto lussuoso, e la malandata ‘Umberto I’ di Napoli. E mentre il capoluogo lombardo, grazie all’Expo, ha riqualificato l’intera cloaca della Darsena, l’antico porto fluviale, rendendola punto di ritrovo di cittadini e turisti per passeggiate nel verde, Napoli è ancora alle prese con la trentennale stasi del paradiso stuprato di Bagnoli.

Non si dimentichino mai le parole dell’esperto di turismo Josep Ejarque agli Stati Generali del Turismo di Napoli del marzo 2017:

«San Gennaro ha mandato i turisti a Napoli anche se non è stato fatto niente per attrarli. Ora bisogna rimboccarsi le maniche per portarceli».

San Gennaro era ovviamente la fortuna, il caso, e quel caso era il terrorismo internazionale sommato all’approdo a Capodichino delle compagnie di volo Low-Cost.
Il fatto è che Napoli non è percepita come città d’arte ma come città peculiare e pittoresca. Chi la visita lo fa per godere dei suoi sapori e dei suoi colori, ma difficilmente è consapevole di trovarvi un immenso scrigno di monumenti, di musei e di cultura universale. I viaggiatori finiscono per innamorarsi della città, della sua umanità, dell’esperienza unica della napoletanità e del suo immenso patrimonio artistico-culturale, ma non trovano standard europei, non la capitale continentale del turismo che dovrebbe e potrebbe tornare ad essere. La bellezza di Napoli attenua le carenze, ma quella è un dono di Dio e della Storia. Quanto può bastare per trattenere l’esercito dei viaggiatori mandato da San Gennaro? Prima che tutto rischi di esaurirsi sarebbe opportuno capire che non siamo nel Settecento del Grand Tour, in cui i tesori culturali attiravano i viaggiatori europei, ma nel Duemila, epoca di spietata concorrenza che corre su binari meno attenti alla conoscenza. E senza servizi adeguati non tutti tornano. Attrarli in massa, in questo scenario approssimativo, è impossibile.

Tratto da Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017):
“Gli stereotipi italiani abbondano, e sono diventati anche i luoghi comuni degli stranieri circa l’Italia intera, nazione che si affanna a emanare di Milano un’immagine limitata alla sua benedetta modernità e di Napoli il racconto di un regno folcloristico e maledetto. Ad essere più penalizzata è certamente la capitale meridionale, capace di meravigliare il tradizionale turismo culturale ma snobbata dai nuovi flussi, quelli meno sapienti, che antepongono il lusso all’arte. Sono i più ricchi viaggiatori, quelli delle nuove frontiere dell’economia internazionale, che puntano sul centro lombardo non principalmente per ammirarne le meraviglie artistiche e le testimonianze della storia ma attratti dal Quadrilatero della moda, smaniosi di andar per negozi nelle vie dalla capitale dello shopping, e di portare a casa il più costoso made in Italy da ostentare. Gli altri, i viaggiatori con conti in banca più asciutti, desiderosi di scoprire l’Italia, approdano a Napoli cercando la napoletanità e l’autenticità, vogliosi di immergersi nell’humus locale, protesi ai sapori e ai colori della tradizione, spesso ignorando la più nobile ricchezza partenopea. Da qui sorge l’effetto sorpresa, il classico stupore che ci si porta via concludendo l’esperienza sensoriale e inaspettatamente intellettuale all’ombra del Vesuvio. Napoli finisce per piacere in maniera imprevista, pur con tutte le sue criticità moderne, e con l’essere considerata una destinazione irripetibile, non globalizzata, una città con un patrimonio materiale ed immateriale che la rende unica. Solo allora svaniscono pregiudizi e paure di ritrovarsi in un far west del Duemila, e prendono il sopravvento percezioni diverse sui reali valori della città vesuviana. Il problema sta proprio nell’attendere l’esperienza e il passaparola, e il non riuscire a comunicare al mondo dei viaggiatori che Napoli non è solo un posto peculiare di fortissima identità ma anche una delle principali città d’arte d’Italia.”

Il più gustoso prodigio di san Gennaro alla ristobottega Januarius

Angelo Forgione – C’è una storia inedita sulla fede in san Gennaro, una storia impensabile che ho ricostruito leggendo testi in lingua spagnola e scovando dipinti depositati negli archivi del Museo Nazionale d’Arte della Catalogna. È una storia che mi ha consentito di chiarire l’insospettabile origine del pomodoro lungo vesuviano, e che testimonia quanto ampia fosse l’ascendenza del Regno di Napoli nel mondo ispanico del luminosissimo periodo di Carlo di Borbone. È il più gustoso prodigio di san Gennaro, datato 1772, mai raccontato prima e scritto ne Il Re di Napoli, una storia che racconterò il 28 febbraio alla ristobottega Januarius, scelto ad hoc per il significato di un luogo tematico che, proprio di fronte al Duomo di Napoli e alla Reale cappella del tesoro di san Gennaro, propone una cucina identitaria attenta alla qualità.
Se pensate di non poter attendere il 22 marzo, giorno della presentazione del libro al megastore la Feltrinelli di Chiaia alla presenza di Alfonso Pecoraro Scanio, Marino Niola e Gino Sorbillo, fate un pensierino alla serata organizzata da Januarius, una gustosissima anteprima a tema e a prezzo fisso che offrirà anche un delizioso Spaghetto della Santissima Trinità (condito con tre qualità di pomodoro), un sorso di Aglianico e una copia autografata del libro.
È consigliata la prenotazione allo 081.014.59.80 oppure inviando un messaggio privato alla pagina Facebook Januarius.

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Il pomodoro dalle Americhe a Napoli

rdn_coverIl pomodoro, frutto venuto dalle Americhe che trova cittadinanza e dignità a Napoli. E da qui invade le cucine del mondo. Come?
Una bellissima storia raccontata da il Re di Napoli.

I primi sette minuti de ‘Il Re di Napoli’

Tratto da La Radiazza di Gianni Simioli (Radio Marte), la prima discussione sui contenuti del neonato il Re di Napoli.

Il Re di Napoli

rdn_coverIl Re di Napoli non è un libro di ricette ma un documentato saggio storico con due protagonisti: il pomodoro, prodotto simbolo della cucina italiana nel mondo, e i napoletani, che hanno insegnato a tutti come cucinarlo e mangiarlo.
Un viaggio dalle radici sudamericane della pianta al suo arrivo in Europa, passando per il Messico e poi la Spagna, fino ad approdare al vero artefice della distribuzione del purpureo frutto nel mondo: il Regno di Napoli.
La narrazione osserva le origini americane della bacca tonda e il contatto con l’Europa attraverso i Conquistadores che nel Cinquecento lo conducono a Siviglia, e dall’Andalusia alla “spagnola” Napoli.
Nel periodo setto-ottocentesco, la capitale borbonica opera una rivoluzione agricola fondamentale per le usanze alimentari, di cui il pomodoro è protagonista insieme alla pasta di grano duro.
 Da particolari rapporti diplomatici del Regno di Napoli, in nome di san Gennaro, ha origine il pomodoro vesuviano a bacca lunga, ovvero l’antesignano del San Marzano, che invade tutto. È un vero e proprio prodigio del Santo che coinvolge la pasta stessa, la Parmigiana di melanzane, il Ragù, le Lasagne e pure l’Amatriciana, piatti che poi, come la pizza, supereranno le diffidenze nordiche e diventeranno “italiani”. Di tutte queste pietanze se ne narra approfonditamente la vera genesi, fino alle definitive versioni, apprezzate anche oltre i confini nazionali.
Il racconto prosegue col pomodoro nel Regno d’Italia e l’irruzione del San Marzano, con la nascita dell’industria conserviera e del fenomeno piemontese Francesco Cirio al Sud, fino al sorgere del comparto di Parma, col suo pomodoro tondo Riccio. E ancora, il pomodoro nel periodo bellico, per finire con la narrazione dal dopoguerra al difficile presente, contraddistinto da una preoccupante crisi del lungo ‘Pomodoro pelato di Napoli’, simbolo di specificità territoriale che cresce solo al Sud. Ma perché solo qui?

Indice

Intoduzione – Il regno del gusto e del buon vivere

IIl pomodoro dalle Americhe all’Europa
Dall’Impero di Spagna ai territori d’Italia
L’introduzione napoletana nella dieta

IIIl pomodoro nel Regno di Napoli
 I maccheroni alla napoletana
Il Ragù napoletano
La Parmigiana di melanzane
La Salsa all’amatriciana

IIIIl pomodoro nel Regno d’Italia
Le Lasagne al pomodoro
La Pizza al pomodoro
L’industria conserviera e il fenomeno Cirio
Il pomodoro nell’industrializzazione italiana

IVIl pomodoro dal dopoguerra a oggi
Il grande affare mondiale
Le filiere italiane del Duemila

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torneo_ilredinapoli
tratto da la Repubblica del 23/01/21

L’aspirina e il falso legame con Napoli

Angelo ForgioneQualcuno racconta che la farmaceutica Roche, nel 1899, si sia ispirata alle vicende di sant’Aspreno di Napoli per dare il nome a un nuovo farmaco antinfiammatorio che oggi conosciamo come Aspirina. Aspreno fu il primo vescovo di Napoli e poi primo patrono cattolico, oggi secondo dopo san Gennaro, ed è invocato contro l’emicrania, che in vita guariva con le mani.

In realtà, il legame tra l’Aspirina e sant’Aspreno, per quanto plausibile per assonanza, è solo una fantasiosa leggenda diffusa negli ultimi anni sul web.
Premesso innanzitutto che si tratta di un farmaco di Bayer, e non di Roche, il nome Aspirina / Aspirin deriva piuttosto dal tedesco Acetyl Spirinsäure – A(cetyl)Spirin(säure) – , ovvero acido acetilsalicilico, sintesi chimica antinfiammatoria di ciò che precedentemente si otteneva per via naturale dalla Spirea (Filipendula ulmaria).
È bene, benissimo, raccontare Napoli e le sue innumerevoli storie universali, ma non è romanzando che si fa la nuova cultura.

aspirina

La dissanguata città dei sangui

Angelo Forgione – E prodigio fu compiuto! Penso che la ricorrenza di san Gennaro trascenda la religione e si insinui nell’identità del popolo napoletano perché da sempre questo popolo avverte lo scollamento da chi governa, e urla a “Faccia gialla” la propria speranza di soluzioni.
L’omelia del Cardinale di turno (Sepe da 12 anni) è inevitabilmente stuccevole, più o meno sempre la stessa, ricalcabile anno su anno. Un duplice appello, sangue sciolto alla mano, ad arrestare il sangue che scorre nelle strade e a creare lavoro per fermare l’emorragia di giovani. E questo rende di Napoli città di un’eterna attesa, sospesa tra speranza e fatalismo, ingredienti che spengono la progettualità e sui quali la politica nazionale impernia il mantenimento dello status quo. Non sono serviti ben sei ministri dell’Interno di origini napoletane e campane, tra il 1988 e il 1999, a ridurre il fenomeno criminale.
La grande metastasi, la camorra, non regredisce, e non regredisce perché è ammortizzatore sociale senza il quale una provincia così popolosa, alla quale non è dato sviluppo, diverrebbe una pericolosa polveriera sociale. E poi l’illegalità diffusa e il fievole senso civico, altri tumori che non possono essere attribuiti solo a chi muove i fili del palazzo. Il riscatto incarnato da san Gennaro dipende anche da una mentalità collettiva di popolo che non c’è, da un’idea di città che non esiste e dall’amore per un magnifico luogo troppo spesso maltrattato anche da chi si appella al Santo.
Mentre il sangue di Gennaro si scioglie, e non solo il suo, la città resta sempre raggrumata, ferma nel suo percorso verso la modernità, unicamente a specchiarsi nella sua bellezza sfregiata. Napoli, solida e immobile, ha bisogno di iniziare a sciogliersi! È ormai necessario.