Non prendetevela col pomodoro

Qualche mio affezionato lettore, ringraziandomi per quanto appreso dal mio Il Re di Napoli, mi ha riferito di averlo letto solo perché scritto da me, altrimenti non sarebbe mai andato in libreria per comprare un libro su “la grande storia del pomodoro”.
Qualcun altro, pure appassionato dei miei lavori, mi ha detto di averli letti tutti tranne quello sul pomodoro, ed è evidente che non ha afferrato che dietro c’è una racconto di “Napoli alla conquista del mondo”, e che è un libro di storia, non di cucina.

“Qualcuno va in libreria per comprare un libro sul pomodoro?” è la domanda posta su La Repubblica nello spazio dedicato a “Il torneo letterario di Robinson”, e Giorgio Dell’Arti spera proprio di sì, perché chi se la prende con il pomodoro, nel caso del mio libro “ha torto”.

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Il pomodoro dalle Americhe a Napoli

rdn_coverIl pomodoro, frutto venuto dalle Americhe che trova cittadinanza e dignità a Napoli. E da qui invade le cucine del mondo. Come?
Una bellissima storia raccontata da il Re di Napoli.

Il Re di Napoli

rdn_coverIl Re di Napoli non è un libro di ricette ma un documentato saggio storico con due protagonisti: il pomodoro, prodotto simbolo della cucina italiana nel mondo, e i napoletani, che hanno insegnato a tutti come cucinarlo e mangiarlo.
Un viaggio dalle radici sudamericane della pianta al suo arrivo in Europa, passando per il Messico e poi la Spagna, fino ad approdare al vero artefice della distribuzione del purpureo frutto nel mondo: il Regno di Napoli.
La narrazione osserva le origini americane della bacca tonda e il contatto con l’Europa attraverso i Conquistadores che nel Cinquecento lo conducono a Siviglia, e dall’Andalusia alla “spagnola” Napoli.
Nel periodo setto-ottocentesco, la capitale borbonica opera una rivoluzione agricola fondamentale per le usanze alimentari, di cui il pomodoro è protagonista insieme alla pasta di grano duro.
 Da particolari rapporti diplomatici del Regno di Napoli, in nome di san Gennaro, ha origine il pomodoro vesuviano a bacca lunga, ovvero l’antesignano del San Marzano, che invade tutto. È un vero e proprio prodigio del Santo che coinvolge la pasta stessa, la Parmigiana di melanzane, il Ragù, le Lasagne e pure l’Amatriciana, piatti che poi, come la pizza, supereranno le diffidenze nordiche e diventeranno “italiani”. Di tutte queste pietanze se ne narra approfonditamente la vera genesi, fino alle definitive versioni, apprezzate anche oltre i confini nazionali.
Il racconto prosegue col pomodoro nel Regno d’Italia e l’irruzione del San Marzano, con la nascita dell’industria conserviera e del fenomeno piemontese Francesco Cirio al Sud, fino al sorgere del comparto di Parma, col suo pomodoro tondo Riccio. E ancora, il pomodoro nel periodo bellico, per finire con la narrazione dal dopoguerra al difficile presente, contraddistinto da una preoccupante crisi del lungo ‘Pomodoro pelato di Napoli’, simbolo di specificità territoriale che cresce solo al Sud. Ma perché solo qui?

Indice

Intoduzione – Il regno del gusto e del buon vivere

IIl pomodoro dalle Americhe all’Europa
Dall’Impero di Spagna ai territori d’Italia
L’introduzione napoletana nella dieta

IIIl pomodoro nel Regno di Napoli
 I maccheroni alla napoletana
Il Ragù napoletano
La Parmigiana di melanzane
La Salsa all’amatriciana

IIIIl pomodoro nel Regno d’Italia
Le Lasagne al pomodoro
La Pizza al pomodoro
L’industria conserviera e il fenomeno Cirio
Il pomodoro nell’industrializzazione italiana

IVIl pomodoro dal dopoguerra a oggi
Il grande affare mondiale
Le filiere italiane del Duemila

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tratto da la Repubblica del 23/01/21

juorno.it: “Napoli Capitale Morale libro di vera conoscenza”

recensione di Napoli Capitale Morale a cura della redazione di juorno.itjuornopuntoit

“Napoli Capitale Morale” Così s’intitola l’ultimo libro di Angelo Forgione dopo  i grandi successi di Made in Naples e Dov’è la vittoriatutti editi da Magenes. Il sottotitolo è ancora più intrigante del titolo: Dal Vesuvio a Milano – storia di un ribaltamento nazionale tra Politica, Massoneria e Chiesa. Ancora un ottimo strumento fornito da Forgione per capire l’Italia, per comprendere le ragioni delle differenti velocità di Nord e Sud di oggi e per individuare le origini delle questioni meridionali irrisolte, ma anche per indirizzarsi verso le necessarie soluzioni, come nella tradizione per niente nostalgica dell’autore, che nei suoi lavori parte sempre dal passato ma per arrivare al presente, motivandolo, e poi provare a dare uno sguardo anche al futuro.
Nel titolo è chiaro il riferimento a Milano, la co-protagonista, ma è Napoli la prima attrice, perché oggi è la controversa metropoli del Sud ad aver bisogno di essere decifrata e capita. Forgione lo fa raccontandone il percorso storico, dal Quattrocento a oggi, ma tenendo d’occhio quello del capoluogo lombardo, che sembra non aver bisogno di approfondimenti. E invece ne ha, perché gli elementi dominanti della narrazione di entrambe si sono ridotti ai ritardi partenopei e ai progressi meneghini, alla criminalità organizzata napoletana e alla finanza milanese.
Il paradosso di Napoli è l’occultamento dei suoi valori positivi dietro l’immagine imposta del male; quello di Milano è l’eccessivo ingombro della sua immagine di città impegnata nel progresso.
Documentazione e passione vera affiorano dalla lettura di questo interessante saggio, ricco di fonti e spunti per capire come si sia passati da una capitale vera, la Napoli preunitaria dagli Angioini ai Borbone, a una capitale “morale” della nazione unita qual è Milano, che alla vigilia dell’unificazione era città subordinata a Vienna e a quell’Impero austriaco con cui Napoli aveva dialogato intensamente nel Settecento, allorché la corte asburgica aveva portato la cultura partenopea e le novità del Regno borbonico nel sottoposto Ducato lombardo. Dal 1861 in poi il rapporto è cambiato, le due città hanno smesso di rapportarsi ed è stata invece Milano ad anticipare tutti, tant’è che la sua galleria “Vittorio Emanuele” in ferro e vetro ha fatto da modello per la “Umberto I” di Napoli. Da periferica contea asburgica, il centro lombardo è cresciuto enormemente di rilevanza, fino ad affermare la sua identità di metropoli moderna ed europea e a diventare quel che era Napoli un secolo prima, ovvero meta di professionisti e talenti.
Forgione compie un interessantissimo percorso parallelo e intrecciato della storia di due città che fanno parte della stessa nazione, anche se non sembra, e lo fa con ricchezza di racconti e chiarimenti. Pur non essendo il presupposto dello scrittore, ne viene fuori anche un paragone pregno di riflessioni interessanti. Più che mai attuali quelle relative al ruolo della Massoneria e della Chiesa nei territori italiani, partendo dal Settecento, come pure quelle sulle manipolazioni mediatiche più recenti, di cui troppo spesso Napoli è vittima. Ma la lettura svela, tra tanti racconti, quel che si credeva di sapere e che invece non si sa ampiamente sui simboli culturali delle due città: il San Carlo e la Scala. Il padre del glorioso teatro milanese, Giuseppe Piermarini, non avrebbe mai potuto costruire quella sala e tutta la Milano neoclassica di fine Settecento se prima non fosse stato a imparare a Napoli alla cerchia di Luigi Vanvitelli. E fu un napoletano trapiantato a Milano a fondare Il Corriere della Sera, il quotidiano oggi più diffuso in Italia, e ancora un napoletano fu a definire Milano la “capitale morale”, ma con un significato ben diverso da quello che gli si è dato erroneamente dal dopoguerra in poi, con riferimento a Torino, non a Roma. Sempre un napoletano, nel primo Novecento, salvò dal fallimento la giovane fabbrica di automobili di Milano, creando il mito motoristico della “casa del biscione”, l’Alfa Romeo.
Un libro di vera conoscenza, insomma, davvero denso e completo, dal quale viene fuori tutta una realtà più concreta su Napoli, Milano e l’Italia impossibile da capire senza inoltrarsi nell’operazione ottimamente e opportunamente condotta da Angelo Forgione.

Addio a Giuseppe Galasso, grande storico ma non acuto meridionalista

Scompare Giuseppe Galasso. Napoli e l’Italia perdono un grande storico, figura d’alto profilo del mondo intellettuale nazionale. Tuttavia, della sua lezione non tutto è da promuovere. La sua visione della Questione meridionale, poco moderna, soffriva di una visione liberale di retaggio risorgimentale. Del resto, da Presidente della Società di Storia Patria, non poteva che essere uno schierato risorgimentalista.

Il ricordo a La Radiazza (Radio Marte).

 

Napoli Capitale Morale a Mattina 9

Due chiacchiere con Claudio Dominech su Napoli Capitale Morale e, più in generale, su Napoli, il Sud e l’Italia a ‘Mattina 9’ (Canale 9 Napoli).

‘Napoli Capitale Morale’ presentato a La Feltrinelli di Napoli

Affollata presentazione di Napoli Capitale Morale al megastore la Feltrinelli di Napoli. Il dibattito sui temi della storia e del presente, animato dall’autore, da Pino Aprile e da Agnese Palumbo, è stato moderato dallo speaker radiofonico Gianni Simioli. Angelo Forgione ha attraversato alcuni temi del saggio, stimolato dalle riflessioni e dalle domande di Agnese Palumbo, che ha sottolineato la grande completezza di informazioni e di racconto incontrate nella lettura, così come Pino Aprile, il quale ha sottolineato l’importanza di riconoscere come Napoli, fino al momento dell’Unità d’Italia, abbia fatto prima e meglio degli altri, compresa Milano, la capitale morale dell’Italia unita che viviamo. «Possibile che si lasci che il Real Teatro di San Carlo e la Galleria Umberto di Napoli si presentino nelle condizioni disastrose in cui versano ormai da anni, mentre la Scala e la Galleria Vittorio Emanuele II di Milano sono il simbolo dell’ineccepibile decoro milanese?». Lo ha “domandato” Forgione in uno dei momenti di grande coinvolgimento della platea, della quale hanno fatto parte anche Maria e Domenico Barbaja, discendenti di quel Domenico Barbaja, il più napoletano dei milanesi, che fece le fortune del Real Teatro di San Carlo nel primo Ottocento, uno dei tanti profili delineati in un libro che analizza nei dettagli il “ribaltamento nazionale” tra Napoli e Milano.

 

intervista di Davide Schiavon per NapoliToday

Spot D&G folk? A Napoli va bene così!

dolceegabbana_napoliAngelo Forgione Polemiche e pareri contrastanti circa gli spot di D&G girati nel Centro Storico Unesco di Napoli, e precisamente a piazza Sisto Riario Sforza, a ridosso della Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro. La firma è di Matteo Garrone, che ha riprodotto un mercatino rionale invaso dalla musica a ridosso del Duomo, nel quale si inoltrano Kit Harington nello spot uomo ed Emilia Clarke in quello per donna, attorniati da fan in delirio ad ogni passo che li accolgono con proverbiale calore partenopeo. E qui si tratta di scelta, di quale delle due anime di Napoli rappresentare. C’è chi sceglie quella nobile, come ha fatto il regista Ago Panini per la campagna del Ferrero Rocher, e chi quella plebea.
A qualcuno piace. Qualcuno storce il naso, e lo faccio anch’io. Qualcun altro grida allo scandalo e al dramma (ma quanta maleducazione contro Stefano e Domenico). Uno spot è pur sempre uno spot, e calca la mano su determinati concetti pur di colpire lo spettatore. Quello per Dolce&Gabbana va evidentemente nella direzione opposta a quello che ci si aspetterebbe dai due stilisti, cavalcando stereotipi e folclore che è la stessa Napoli, in qualche modo, ad offrire. I soggetti di certi spot, di prassi, vanno preventivamente sottoposti al vaglio delle amministrazioni che concedono i suoli cittadini per girarli. Il fatto è che nulla si intende fare per invertire una tendenza comunicativa su Napoli, e poco si fa per ri-affermare la sua realtà culturale, artistica e monumentale. Lo scorso anno, ad esempio, è stato approntato un Piano Strategico del Turismo, un documento programmatico del Comune con Aeroporto, Federalberghi, Unione degli Industriali e mondo universitario per provare a riprendersi il posto avuto fino a inizio Novecento tra le maggiori città d’arte, per rendere la città vesuviana una delle principali attrazioni europee, sfruttando il flusso turistico che la provvidenza ha iniziato a re-indirizzarle. Si chiama Napoli 2020, e ha una precisa strategia: non guarda all’aspetto più profondamente culturale, come auspicato dal ministro Franceschini nelle sue recenti previsioni per Napoli, ma punterà a sviluppare esclusivamente l’immagine folcloristica. Sì, proprio così. «Napoli non è percepita come città d’arte ma come città peculiare per personalità. I visitatori italiani la considerano una città affascinante e pittoresca, una destinazione unica. Noi rispondiamo a ciò che il mercato turistico sta cercando», disse lo spagnolo Josep Ejarque (FourTourism) in occasione della presentazione del Piano. «Dobbiamo convincere tutti che sia una città che bisogna visitare almeno una volta della vita», aggiunse il manager. Evidentemente si spera di farlo puntando sulla napoletaneria, che è più impattante e attraente, non sulla napoletanità, e lo spot di D&G/Garrone si inserisce perfettamente nel sentiero tracciato, offrendo ciò che i turisti cercano da Napoli, che piaccia o no.
Una curiosità: il protagonista maschile dello spot, Kit Harington, è lontano discendente di Sir John Harington, l’inventore del wc. Significati subliminali.

È il Napoli “più” di sempre la grande bellezza del calcio italiano

Angelo Forgione Napoli ai preliminari di Champions League. Così impone la classifica a una squadra che ha sgretolato tutti i suoi record, e non solo i suoi. Inutile snocciolarli, valga per tutti il punteggio in classifica: 86 punti. È stato il Napoli più produttivo della storia, con una media punti di 2.26 a partita, la più alta di sempre, superiore anche a quella del Napoli scudettato 1989/90, a quota 2.11 nella conversione dei tre punti per vittoria, e a quello del 1986/87 (1.90), ma anche al primissimo Napoli di Sarri (2.15).
Al traguardo, il Napoli degli 86 punti e della grande bellezza non ha vinto il tricolore, non la Coppa Italia, e neanche ha centrato la qualificazione diretta in Champions. Ma non si può non evidenziare che la prima Juventus di Conte, nel 2012, ha fatto bingo con 84 punti, il Milan di Allegri, l’anno prima, con 82, come l’Inter del triplete di Mourinho. Ad alzare la quota scudetto, evidentemente, è stata la fame dell’ambiziosissimo Andrea Agnelli, voglioso di dimostrare ai cugini Elkann di essere manager all’altezza (e loro replicano ora con la Ferrari) e assatanato nel voler cancellare ogni concorrenza, nel voler battere il record di tricolori consecutivi, compreso quello conseguito dal nonno Edoardo. Sì, la Juventus ha messo in bacheca l’ennesimo tricolore e la Roma ha tamponato, di riffa o di raffa, la rincorsa azzurra. E tutti a chiedere a Sarri e ai suoi cosa sia mancato al Napoli. È mancato in autunno l’assetto trovato in inverno. È mancato qualche punto delittuosamente perso per strada. È mancata la forza economica della Exor e forse anche il debito che la Roma, assai spinta dagli arbitri lungo tutta la stagione, ha con Goldman Sachs. Ma il gruppo napoletano sente di non essere inferiore a nessuno, e vuole riprovarci dall’inizio, ripartendo da dove è rimasto, con gli equilibri trovati, per giocarsi lo scudetto davvero.
L’Olanda di Crujiff insegna che non è necessario essere vincenti per lasciare il segno nel football. Questo Napoli, la grande bellezza del calcio italiano, un segno lo sta lasciando. «È la squadra che gioca il miglior calcio d’Italia, tra le più spettacolari d’Europa», dicono i più titolati, da Guardiola a Capello. Ma alla banda-Sarri il bollino HQ non basta più.
Intanto cala il sipario su una stagione iniziata col grande tradimento, mitigato dall’immediato impatto di Milik. Una quadratura subito trovata e presto persa, con la necessita di trovare rimedio al traumatico infortunio del polacco in nazionale. Gabbiadini dentro, a Crotone, ma immediatamente espulso per una follia a centrocampo. Opportunità fallita, e Sarri convinto che la soluzione non poteva essere il poco sereno attaccante in cui non credeva. C’era Mertens a scalpitare, che già dalla primissima doppietta di Pescara aveva lanciato sguardi fulminanti al mister. Un po’ di rodaggio, con la squadra ad applicarsi attorno al suo tecnico, e poi il sangue si è sciolto: da Gennaio in poi, il Napoli ha iniziato a crescere, fino a diventare una vera e propria macchina da guerra. Milik, uscito da indispensabile a ottobre, è rientrato da comparsa a febbraio.
Gioco spumeggiante e meccanismi perfetti, palla nascosta a occhi chiusi, goal a raffica a rendere meno gravi quelli subiti di troppo, e Mertens, il rimedio, più goleador di Higuain in bianconero. Quasi tutti gli avversari asfaltati e Napoli campione di primavera, cioè primissimo nel girone di ritorno, coperto di complimenti e consensi. Ma non può finire qui.
Per il sodalizio azzurro si tratta pur sempre del diciassettesimo podio della sua vita sportiva, il quinto nelle ultime sette stagioni, che vale l’ottava partecipazione consecutiva alle competizioni europee, record nazionale in fieri. Si tratta di un club ben assestato nell’élite del calcio italiano ma anche in quello europeo, molto più saldamente del Napoli di Ferlaino sotto il profilo finanziario. Eppure la piazza è divisa, in una sterile diatriba oppositiva nei confronti di uno scorbutico presidente che opera in un territorio in cui è improbo fare impresa ad alti livelli, un imprenditore tronfio proprio perché consapevole di cosa voglia dire fare Calcio d’alto livello al Sud. Una parte della tifoseria pretende di più, nella convinzione che siano solo la passione e l’ampiezza di seguito a determinare le opportunità di un club e non le condizioni territoriali, che invece generano i più importanti vantaggi e limiti, a seconda di dove si operi. Un altro presidente, quello degli scudetti nati da sacrifici insostenibili, sollecita il rischio d’impresa, quello stesso rischio che egli prese non sulla sua pelle ma su quella di un club e di una tifoseria che avrebbero poi pagato i trionfi con tre lustri di anonimato e un doloroso fallimento. Provare a vincere è intento nobile per un club del Sud, ma è giusto provarci con la certezza di non uscire mai dal Calcio che conta. Il Napoli di De Laurentiis vi è entrato di prepotenza, vi resterà senza rischi, e ora si è messo pure in testa di trionfare.
Se dipendesse dalla banda-Sarri, il campionato potrebbe cominciare domenica prossima. Bisognerà invece attendere agosto per dare il via alla nuova stagione, difficile e stimolante. Altro giro, altra corsa. Ci sarà da sabotare il potere, da inceppare il meccanismo sportivo-finanziario che regola la Serie A. La torta è davvero dolcissima. Manca la ciliegina. Il meglio deve ancora venire.

Stampa estera: “Autostima napoletana allo stadio”

Ancora un altro approfondimento da oltreconfine sull’identità meridionale e sui significati del calcio per i napoletani di oggi. Tratto dal portale informativo Playground, con redazione a Barcellona, la traduzione di un articolo, con voci di Angelo Forgione, Marco Rossano e Gennaro De Crescenzo.

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Autostima grazie al gol: così si prepara un esorcismo alla napoletana

Più che una città, una tribù. Più che una squadra, uno stato d’animo. Stufa degli insulti e dei luoghi comuni, Napoli mostra la sua forza politica.

“Vedi Napoli e poi muori scrisse Goethe nel XVIII secolo circa la bellezza attrattiva di Napoli.

Vedi Napoli e poi muori! … per il disgusto o per un colpo di pistola: così completerebbe oggi la frase un divertito antinapoletano. Entrambe si riferiscono alla città forse peggio narrata in Europa, che ora deve affrontare il Real Madrid con il suo migliore e simbolico esercito, la SSC Napoli.

L’immagine della città è ora camorra, rifiuti e degrado, mentre prima era la pizza, la musica e il sole. Quando vi è un forte potere della camorra, la delinquenza si mantiene più o meno bassa, è controllata. Quando vi sono arresti e detenzioni, mancano alternative. Per questo molte volte si “sostiene” la criminalità, perché garantisce una sicurezza simile a quella che qui in Spagna offre la Guardia Urbana”, ci dice Marco Rossano, sociologo residente a Barcellona da molti anni e uno dei 10.000 napoletani che saranno al Bernabeu.

Rossano fa parte della più grande comunità straniera a Barcellona: 25.000 italiani, di cui si stima che un terzo proviene da Napoli e dintorni. Quando gioca il Napoli è quasi impossibile trovare un posto al bar Blau. “Il calcio è molto importante per la nostra comunità. Noi ci riuniamo lì, parliamo in napoletano, mangiamo cibo napoletano, ascoltiamo musica napoletana e vediamo il Napoli”, riassume. Combattono così la “napolitudine”, una parola secca che definisce la nostalgia dei figli del Vesuvio che hanno lasciato la loro terra in direzione del nord o verso ovest.

È una ferita ingigantita dagli insulti. Tutti i napoletani vengono chiamati terroni e descritti con termini come cazzimma o scugnizzo, espressioni che alludono a comportamenti egoisti, quasi asociali.

Il cliché patisce il clima degli stadi italiani, soprattutto al Nord, dove a tutti i napoletani si augura la morte col coro xenofobo ‘Vesuvio, lavali col fuoco’. Anche per questo, la tifoseria partenopea è quella italiana che ha la fama di essere la più violenta.

Lo scrittore e ricercatore napoletanista Angelo Forgione smentisce questa reputazione con i dati. Gli ultimi dati dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive del Ministero dell’Interno sono chiari: le tifoserie più coinvolte in atti di violenza sono quelle della Lazio, con 5, Brescia con 4 e Ascoli e Roma con 3. Chi ha causato più feriti sono i tifosi dell’Ascoli, 17, seguiti da quelli della Roma (15), Lazio (14), Brescia (13), Inter (12) e Juventus (11). Nel totale annuale dei Daspo è in testa la tifoseria del Bari con 109 provvedimenti, poi i romanisti, i bresciani, gli juventini e infine i napoletani. E non dimentichiamo che Ciro Esposito, l’ultima vittima in ambito calcistico, era napoletano, e fu ucciso da un romanista di estrema destra, afferma l’autore di libri come Made in Naples e Dov’è la vittoria.

Napoli è intensa e ricca di simbolismi … che pure si è tentato di cancellare.

Uno delle peggiori umiliazioni è stata vedere i tifosi rivali del Nord, gli juventini, cantare ‘O surdato ‘nnammurato, l’inno della città, a mo’ di presa in giro. “Come se ci volessero levare anche questo, forse perché non hanno identità, me non c’è bisogno di ricordare a tutti che O Sole Mio non è una canzone italiana ma napoletana”, dice Rossano, che ammette che negli ultimi tempi, a causa degli attacchi, forse, i napoletani si sono chiusi. Questa chiusura, lontana dal diventare un localismo semplicistico e folcloristico, sta sviluppando correnti politiche e culturali che hanno fatto in modo che le bandiere borboniche del Regno delle Due Sicilie abbiano sostituito quelle italiane.

“I tifosi hanno adottato lo stemma delle Due Sicilie come simbolo identitario. Anche il club ha sposato la simbologia con felpe e magliette ufficiali che hanno fatto registrare un record di vendite”, dice Forgione. Di fatto, lo Stato sovrano borbonico, tra il 1734 e il 1861, ha fatto dell’Italia meridionale una delle nazioni più prospere di tutt’Europa.

Il Movimento Neoborbonico esiste dal 1993. Il suo obiettivo è quello di ricostruire la storia del Sud e l’orgoglio di essere meridionali, secondo il suo presidente Gennaro De Crescenzo. “Dal momento in cui sono stati cacciati i Borbone ed è nata l’Italia unita, il Sud ha perso tutta la sua grandezza culturale, economica e finanziaria, e ha acquisito un ruolo negativo”, ci dice De Crescenzo, che parla anche di un futuro “Sud indipendente e unito, o almeno confederato con il resto d’Italia.

Significa rivendicare una Casa Reale diffamata attualmente anche in Spagna? Rossano, anche fondatore del movimento politico MO! Unione Mediterranea, chiarisce: “Nessuno vuole far ritornare i Borbone, pur avendo fatto meglio di molti politici italiani. Rivendichiamo il momento in cui la nostra storia si è fermata. Quella bandiera è un simbolo dell’ultimo momento in cui siamo andati indipendenti”. Per Forgione, l’approccio alla tematica è simile. “Non rivendico di certo la monarchia borbonica ma faccio luce su ciò che ruota attorno la storia di Napoli. Rivendico semmai il ruolo di Napoli nella storia d’Italia e d’Europa, e cerco di riportarla al centro della cultura europea di oggi, il posto che la città merita.

Quando si pensa alle monarchie, si pensa alla destra, ma a noi non interessa la questione politica. Uno dei nostri slogan è ‘né di destra, né di sinistra: del Sud!’ “, afferma De Crescenzo.

Nei libri e in televisione – ma anche in aree accademiche – il revisionismo è, nelle parole di De Crescenzo, un “trend”. Non è difficile vedere lui stesso, o Forgione, o Pino Aprile (autore di un bestseller del revisionismo del Sud), tenere accesi dibattiti su argomenti tabù dell’unificazione italiana, ad esempio le pregioni piemontesi. Aprile, nel suo ultimo libro Carnefici, parla di più di mezzo milione di “uomini rubati al Sud” nel processo della nascita d’Italia. Molti pagarono con la propria vita.

Da allora, dice De Crescenzo, non abbiamo gli stessi diritti del resto degli italiani: lavoro, servizi, infrastrutture, opportunità o speranze. Prima non eravamo un popolo di emigranti. Oggi Napoli si identifica con la sporcizia e la malavita, con la camorra e con Gomorra, dice in riferimento al successo della fiction Sky basato sul libro di Saviano. “Tantissimo attenzione per questa Napoli e poca per la sua bellezza, forse perché un popolo umiliato è più facile da colonizzare”.

Emerge quindi il ruolo del Calcio Napoli come esercito disarmato, simbolico, dell’autostima della terza città d’Italia per grandezza. “Quando il Napoli sfidò il Chelsea in Champions League, l’allenatore Villas-Boas disse: «Il Napoli non è solo una squadra, ma è lo stato d’animo di un’intera città»”, dice Forgione. “Il club azzurro è l’unico vero gigante del Sud, l’unica squadra meridionale capace di lottare per i primi posti della Serie A, mentre il resto del Sud a stento si affaccia alla Serie A. Se poi consideriamo che il Sud-Italia e la Grecia sono i territori più poveri dell’Eurozona, e che il Napoli è l’unico club di questi due territori che disputa la Champions League, allora possiamo capire cosa significhi il Napoli nel calcio moderno.

Il Napoli è una nazionale, e chi lo nega nega la realtà di un luogo che con molta facilità appare irreale. Solo lì può accadere che qualcuno, dopo aver vinto lo scudetto 87, scriva davanti al cimitero per comunicare con i morti e dirgli ‘che vi siete perso’. Irreale e senza tempo, come la definizione che dei napoletani ha lasciato un ammirato Pasolini, figlio del Nord: “sono una grande tribù che ha deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili ed incorruttibili”.

Gli eroi della tribù sono molti, da Diego ad Hamsik, da Vinicio a Gennaro Iezzo, il portiere che accompagnò la squadra a toccare il fondo della Serie C1 e con la squadra risalì in A. Come Iezzo, il tempio del San Paolo non negozia il suo impegno per la causa. Con creatività, anche perché i tifosi del Napoli hanno reso celebre un coro che è di gran moda in altri campi, anche in Spagna.

E accaduto un anno e mezzo fa, quando una delle curve ha adottato un classico degli anni ottanta del pop italiano, L’estate Sta Finendo dei Righeira. Come un gigantesco esorcismo, appena scatta l’85° minuto le gambe dei calciatori tremano e la tribù canta:

Un giorno all’improvviso, mi innamorai di te
il cuore mi batteva, non chiedermi perché
di tempo ne é passato e sono ancora qua
e oggi come allora difendo la città.

Questa è, evidentemente, una canzone d’amore e di resistenza.