Il Coronavirus al Nord che uccide il Sud

Angelo Forgione Eccoci dunque vicini al traguardo del 18 maggio che chiuderà il lockdown nazionale. Tutti fermi per due mesi, anche se l’emergenza sanitaria non aveva e non ha uguali aspetti per tutti. Blocco giusto da Bolzano a Pantelleria, per evitare la “migrazione” dei contagi da Nord a Sud. Il focolaio del Covid-19 ha avuto origine in Lombardia, causa le negligenze sanitarie, le pressioni del mondo dell’industria e l’inquinamento atmosferico, espandendosi nelle regioni confinanti in pochi giorni. Ma il Coronavirus non ha sfondato al Sud, nonostante i timori, le cassandre e pure le invidie di qualche giornalaccio che a inizio marzo già esultava precocemente per il “Virus alla conquista del Sud” e per l’unità d’Italia, sperando nella presunta indisciplina dei meridionali che poi si è rivelata il solito stereotipo.
Ancora oggi le prime cinque regioni per contagi (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, Toscana) coprono tre quarti del totale dei casi e dei ricoverati in terapia intensiva e incidono per quattro quinti dei decessi. I nuovi casi continuano a riguardare il Nord, dove il tasso di letalità di tre regioni è oltre la media nazionale (13,9%). La Lombardia, secondo gli ultimi dati, è al 18,4%, la Liguria al 14,5%, l’Emilia Romagna al 14,3%, mentre al Sud il Molise è al 6,7%, la Basilicata al 6,8% e via fino al picco dell’Abruzzo con 11,4%.

coronavirus_fine_lockdown

In questo scenario di evidenza statistica ha senso parlare di una sola Italia? No, e il problema andrebbe affrontato con due regie separate e coordinate, una per il Nord e un’altra per il Centro-Sud, anche sulla base di un secondo presupposto, quello economico, perché gli indici dei Pil sono diversi ed è arcinoto quanto il Sud fosse in affanno già senza l’irruzione del Coronavirus, il cui tsunami pandemico lo affosserà ancora di più. Lo Svimez ha già avvisato che la probabilità di uscire dal mercato delle imprese meridionali è quattro volte superiore rispetto a quelle del Centro-Nord. L’impatto del Covid-19 sull’economia e sull’occupazione nel Mezzogiorno sarà certamente di gran lunga peggiore che altrove, perché il problema ora saranno le riaperture dei ristoranti e degli stabilimenti balneari, roba che anima il turismo, ciò di cui campa in buona sostanza il Meridione, a differenza del Settentrione, che è trainato anche dall’industria; ed è evidente che la stagione estiva sia fondamentale per le economie già fragili delle regioni del Sud, che stanno già implodendo per l’azzeramento delle prenotazioni turistiche e la chiusura di quelle attività commerciali e ristorative che ogni anno creano numerosi posti di lavoro durante l’alta stagione. Le disposizioni sanitarie per le riaperture costringeranno tantissimi ristoratori disperati a chiudere le loro attività anche di lungo corso, per non parlare delle difficoltà per i gestori di lidi, a molti dei quali non converrà aprire gli ombrelloni. C’è poi l’indotto dei matrimoni, un’economia stagionale prettamente meridionale completamente arenata. 17mila matrimoni cancellati solo tra marzo e aprile, e 50mila quelli che secondo le stime salteranno tra maggio e giugno. Bloccata una filiera fatta di sarti, operatori catering, wedding planner, fioristi, organizzatori di eventi, fotografi, location matrimoniali, musicisti, noleggiatori di auto da cerimonia, truccatrici e parrucchieri specializzati, che potranno rifarsi solo nei prossimi anni, ammesso che possano superare la crisi.

Eppure è evidente che il vero problema del Covid-19, rispetto ad altri virus, non è la letalità ma la contagiosità, che ha minacciato e allertato per l’affluenza nelle strutture sanitarie di una quantità di persone superiore alle disponibilità. Contagiosità che con il primo caldo, evidentemente, si sta già notevolmente attenuando, e si addolcirà decisamente, come sostengono diversi esperti, visto che i modelli fisico-matematici prevedono per l’estate in arrivo valori medi intorno ai 26°C, di un grado più alti della media. Qualche meteorologo l’ha già definita “la più calda estate di sempre”, e ci toccherà affrontarla con la mascherina alla bocca camminando per le strade roventi delle nostre città, con il rischio di non riuscire neanche a rimediare un posto sulla spiaggia. Dramma per il Sud, ma tutto ciò non conviene neanche al Nord, che può sì contare sulla ripresa industriale, ma ha comunque bisogno del potere d’acquisto dei meridionali. Il peggioramento della già fragile economia del Sud sottrarrà domanda alle imprese nordiche, per non parlare del sostegno ai redditi necessario che il governo dovrà offrire a milioni di cittadini, molti dei quali, soprattutto al Sud, sarebbero invece nelle condizioni di lavorare e fatturare senza bisogno di assistenza.
Il Sud turistico, dove il contagio, le temperature e l’inquinamento non sono come in Pianura Padana, è una risorsa per l’Italia tutta e la manovra più giusta sarebbe quella di spingerlo a una ripresa più veloce, almeno nella calda parentesi estiva. Invece, in un paese a due velocità, si è scelto di tenerlo zavorrato insieme al Nord.

La Commissione europea pare si stia attivando per salvare il turismo estivo e ha già invitato gli Stati membri a riaprire gradualmente le frontiere interne laddove la situazione sanitaria lo consenta, ma è chiaro che le problematiche di Italia e Spagna le condannino a restare fuori da eventuali “corridoi turistici” e dai flussi contingenti, che privilegeranno la spiagge e i ristoranti delle nazioni meno colpite come Grecia, Croazia, Malta e Portogallo. Eppure il Sud-Italia non ha problematiche maggiori di quei paesi, ed è chiaro anche da questo punto di vista che sconterà le problematiche del Nord, le colpe ampiamente conclamate della Lombardia e la volontà politica di non differenziare la ripresa in base alle diverse criticità per adottare un metro estivo uguale per tutti che porterà Nord e Sud a una recessione più profonda e i meridionali nel baratro.

dibattito con il giornalista e ristoratore Yuri Buono sullo scenario economico
che si prospetta a causa del Coronavirus

Il ‘Tartufo’ dell’antica gelateria… di Pizzo

Angelo Forgione – Alzi la mano chi non ha mai mangiato un ‘Tartufo’ gelato alla fine di un buon pranzo al ristorante. Bello gonfio, cremoso, dolce, come lo propone dal 1982 l’Antica Gelateria del Corso. Tutti con le braccia giù! È certamente uno dei classici dell’azienda di origine parmigiana. E invece no. Il cuore di gelato è roba della pasticceria calabrese, di Pizzo, per la precisione, la località famosa per la fucilazione del decaduto re di Napoli Gioacchino Murat alla caduta del cognato Napoleone nel 1815.
Un’intuizione casuale di un pasticcere messinese, Giuseppe De Maria, detto don Pippo, che in precisa data 14 giugno 1953 realizzò la prima casuale tiratura di quello che sarebbe diventato uno dei classici della tradizione gelatiera. In quel giorno si celebrò l’importante matrimonio della figlia maggiore dell’allora direttore del Banco di Napoli, il dottor Bruno Cirillo di Pizzo. Ricevimento nel Castello Murat, la fortezza in cui un secolo e mezzo prima era stato imprigionato il Re francese. Tantissime persone a festeggiare Carmen Cirillo e Guglielmo Ruggiero, molte provenienti da Napoli, dove i due giovani vivevano. Quelli, per il gelato, pure avevano palato fine, e allora grande fu la preoccupazione del mastro gelatiere Giuseppe quando si accorse di non disporre di stampi in numero sufficiente per confezionare il gelato per tutti e servirlo al cucchiaio. Per sopperire alla mancanza, usò le mani e racchiuse del cioccolato fondente fuso tra due emisferi di crema, uno alla nocciola e l’altro al cacao. Avvolse il tutto in fogli di carta alimentare e pose a raffreddare. Ne vennero fuori dei blocchetti solidi, poi serviti con una spolverata di polvere di cacao. Il dolce improvvisato riscosse un enorme successo tra i commensali e così nacque quel che fu battezzato con il nome di “Tartufo”.
Col tempo, il successo della creazione artigianale calabrese divenne sempre maggiore, e perciò l’industrializzazione settentrionale, dopo circa trent’anni, la fece sua. L’estate del 1982, quella in cui la Nazionale di Bearzot vinse i Mondiali di Spagna, gli italiani fecero la conoscenza con i ‘Tartufi’ neri e bianchi dell’Antica Gelateria del Corso, l’azienda protesa alla conquista del settore della ristorazione. Con l’idea di don Pippo fece breccia nelle italiche abitudini, e di gran moda divenne la versione affogato al caffè. La filosofia del ‘Tartufo’, un anno dopo, venne applicata perfino ai panettoni industriali: chi non ricorda il celebre ‘Tartufone’ Motta? Un marchio che, con la sua divisione gelati, era commercializzata proprio da Antica Gelateria del Corso.
Nel 2012, la nota azienda dei dessert, ormai passata in mano alla Nestlè, ha bellamente festeggiato i 30 anni del Tartufo a proprio marchio, spacciando per invenzione di un proprio mastro gelatiere, evidentemente di Parma, quella che era stata tre decenni prima l’invenzione di un mastro gelatiere di Messina, così attirandosi le ire dei calabresi.
L’originale ‘Tartufo di Pizzo’ aveva già 29 anni, e oggi ne ha 66, con tanto di marchio Igp approvato dalla Regione Calabria e dal Ministero delle politiche agricole, e con la fama ormai giunta anche oltreoceano. Negli Stati Uniti, lo scorso anno, il prestigioso quotidiano New York Times ha dedicato all’invenzione del gelato da tavola di Pizzo un articolo con illustrazioni a fumetti a cura di Tony Wolf, secondo cui il ‘Tartufo” sarebbe stato servito per la prima volta in occasione della visita di un discendente di Vittorio Emanuele II, giunto a Pizzo nel 1952 per un matrimonio, un anno prima di quello di Carmen e Guglielmo. Il romantico narratore americano deve aver subito anch’egli il fascino della manipolata storia dell’origine della pizza ‘margherita’, creata, secondo la credenza diffusa, dal pizzaiolo napoletano Raffaele Esposito in onore della regina d’Italia, Margherita di Savoia, in visita a Napoli. Anche in quel caso, un’eccellenza artigianale del Sud catturata dall’industria alimentare del Nord a caccia di enormi profitti.

tartufo-di-pizzo-1-800x1014

Il pomodoro dalle Americhe a Napoli

rdn_coverIl pomodoro, frutto venuto dalle Americhe che trova cittadinanza e dignità a Napoli. E da qui invade le cucine del mondo. Come?
Una bellissima storia raccontata da il Re di Napoli.

Il Re di Napoli

rdn_coverIl Re di Napoli non è un libro di ricette ma un documentato saggio storico con due protagonisti: il pomodoro, prodotto simbolo della cucina italiana nel mondo, e i napoletani, che hanno insegnato a tutti come cucinarlo e mangiarlo.
Un viaggio dalle radici sudamericane della pianta al suo arrivo in Europa, passando per il Messico e poi la Spagna, fino ad approdare al vero artefice della distribuzione del purpureo frutto nel mondo: il Regno di Napoli.
La narrazione osserva le origini americane della bacca tonda e il contatto con l’Europa attraverso i Conquistadores che nel Cinquecento lo conducono a Siviglia, e dall’Andalusia alla “spagnola” Napoli.
Nel periodo setto-ottocentesco, la capitale borbonica opera una rivoluzione agricola fondamentale per le usanze alimentari, di cui il pomodoro è protagonista insieme alla pasta di grano duro.
 Da particolari rapporti diplomatici del Regno di Napoli, in nome di san Gennaro, ha origine il pomodoro vesuviano a bacca lunga, ovvero l’antesignano del San Marzano, che invade tutto. È un vero e proprio prodigio del Santo che coinvolge la pasta stessa, la Parmigiana di melanzane, il Ragù, le Lasagne e pure l’Amatriciana, piatti che poi, come la pizza, supereranno le diffidenze nordiche e diventeranno “italiani”. Di tutte queste pietanze se ne narra approfonditamente la vera genesi, fino alle definitive versioni, apprezzate anche oltre i confini nazionali.
Il racconto prosegue col pomodoro nel Regno d’Italia e l’irruzione del San Marzano, con la nascita dell’industria conserviera e del fenomeno piemontese Francesco Cirio al Sud, fino al sorgere del comparto di Parma, col suo pomodoro tondo Riccio. E ancora, il pomodoro nel periodo bellico, per finire con la narrazione dal dopoguerra al difficile presente, contraddistinto da una preoccupante crisi del lungo ‘Pomodoro pelato di Napoli’, simbolo di specificità territoriale che cresce solo al Sud. Ma perché solo qui?

Indice

Intoduzione – Il regno del gusto e del buon vivere

IIl pomodoro dalle Americhe all’Europa
Dall’Impero di Spagna ai territori d’Italia
L’introduzione napoletana nella dieta

IIIl pomodoro nel Regno di Napoli
 I maccheroni alla napoletana
Il Ragù napoletano
La Parmigiana di melanzane
La Salsa all’amatriciana

IIIIl pomodoro nel Regno d’Italia
Le Lasagne al pomodoro
La Pizza al pomodoro
L’industria conserviera e il fenomeno Cirio
Il pomodoro nell’industrializzazione italiana

IVIl pomodoro dal dopoguerra a oggi
Il grande affare mondiale
Le filiere italiane del Duemila

► pagina facebook

 

 

torneo_ilredinapoli
tratto da la Repubblica del 23/01/21

Il Rapporto Svimez 2017 conferma: il Sud non è palla al piede

Angelo Forgione Un mese fa, a Quinta Colonna, dati alla mano, dissi che il Sud non è affatto palla al piede del Nord, parlando di interdipendenze tra le due parti del Paese che finiscono per favorire l’economia settentrionale, nonostante il passivo nordico dei trasferimenti statali e dai residui fiscali.
Il Rapporto SVIMEZ 2017, oggi presentato a Roma, conferma e rafforza la realtà nascosta. La stretta interdipendenza tra Sud e Nord sta generando una crescita dei vantaggi settentrionali.
Nel rapporto si legge appunto che “la visione che identifica semplicisticamente i residui fiscali negativi delle regioni meridionali con lo spreco di risorse pubbliche indebitamente sottratte al Nord, infatti, non solo non è dimostrata dalle evidenze empiriche ma è parziale. L’interdipendenza tra le economie del Nord e del Sud implica anche corposi vantaggi al Nord nella forma di flussi commerciali, essendo ancora il Mezzogiorno un importante mercato di sbocco della produzione settentrionale: la domanda interna del Sud, data dalla somma di consumi e investimenti, attiva circa il 14% del PIL del Contro-Nord”. Inoltre, i trasferimenti statali si sono ridotti del 10% tra il 2012 e il 2014, e quasi la metà ritornano al Settentrione. Mettiamoci pure che con la raccolta del risparmio negli sportelli bancari del Sud si coprono i finanziamenti fatti alle aziende del Nord. Infine, 200mila laureati del Sud vanno via, per un vantaggio del Centro-Nord stimato in 30 miliardi. Senza dimenticare la spesa per migrazione sanitaria.
Nessuna novità, solo conferme.

Il mio intervento a ‘Quinta Colonna’:
https://www.facebook.com/AngeloForgioneOfficial/videos/10154874884335423/

Rapporto SVIMEZ 2017:
http://www.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2017/2017_11_07_linee_app_stat.pdf

Come i meridionali sono diventati juventini

Angelo Forgione Il calcio è una straordinario termostato sociale, capace di regolare la temperatura del popolo. I potentati economici l’hanno sempre usato, sin dal principio, per ingrandire i loro affari, accrescere il proprio consenso e sedare le proteste operaie. In Italia, il binomio Juventus-Fiat ha sempre rivestisto significati particolari, come, ad esempio, negli anni del “miracolo economico”, quando migliaia di meridionali salirono a Torino per produrre automobili. La storia dei compressori Fiat per frigoriferi con cui fu acquistato Pietro Anastasi, un vero e proprio blitz per strapparlo di forza all’Inter, è solo la punta dell’iceberg di una strategia industriale attuata dalla famiglia Agnelli per far diventare juventini i meridionali.
Con la chiusura delle frontiere dopo la disfatta della Nazionale italiana contro la Corea nel 1966, la Serie A parlò italiano dal 1967 al 1980. La Juventus iniziò a pescare al Sud, da dove provenivano gli operai che ingrossavano la comunità operaia di Torino. Alla fine degli anni Sessanta, il capoluogo piemontese era diventato la terza più grande città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo. I calciatori del Sud divennero allora fondamentali per la strategia di fidelizzazione del tifo.
Furono proprio i meridionali di Torino, quelli che stavano costruendo le fortune economiche degli Agnelli, a iniziare a tifare in massa per la squadra del padrone, trasmettendo la juventinità ai parenti rimasti al Sud, sui quali faceva facilmente presa tutto ciò che gravitava attorno al miraggio della ricchezza e del successo settentrionale. Il Torino divenne la squadra dei torinesi, la Juventus quella dei lavoratori provenienti dal meridione. La squadra bianconera dominò gli anni Settanta, ingrandendo la sua tifoseria con nuove generazioni di fedelissimi immigrati – figli e parenti – che si identificarono con le vittorie della “zebra”, sul cui blocco fu costruita la Nazionale che vinse i Mondiali del 1982. La Juventus si rese così la squadra d’Italia, e il suo nome, che non era quello di una città e non imponeva il cliché del campanile, agevolò il processo di diffusione della sua popolarità.
Oggi, la gran massa di tifosi meridionali che sostiene la Juventus deriva da quell’eredità familiare e dalla fascinazione del potere esercita in tutti gli abitanti delle province del calcio, cui riesce facile
poter dire la propria scudetti alla mano.

Maggiori approfondimenti su Dov’è la Vittoria (Magenes)

De Laurentiis: «Gli Agnelli hanno costruito un impero»

Angelo Forgione Chiarissime le dichiarazioni di Aurelio De Laurentiis rilasciate a Sky dopo la vittoria del Milan ai rigori sulla Juventus nella finale di Supercoppa.

«Il gap con la Juventus esiste solo societariamente, loro hanno una storia immensa perchè immensa è la storia della loro famiglia. Il vero re d’Italia è stato Agnelli, e prima Valletta. La Juve è una goccia nell’oceano di una famiglia immensa. È roba da far paura, ma di cosa stiamo parlando? Dal punto di vista del potere economico non ce n’è per nessuno, nemmeno per gli arabi, i cinesi, i club inglesi, spagnoli o tedeschi.
Quando la mattina apro i giornali e leggo che il PIL può aumentare, mi cascano le braccia. Non si può parlare di calcio e stadi quando la situazione generale è questa. Il Sud, leggevo su un quotidiano, sta prendendo coscienza di se stesso. Dico da tempo che Napoli è una testa di serie di tutto il Meridione, sino a Palermo».

Il presidente del Napoli, circa gli Agnelli, parla di “Regno d’Italia”, e poi di economia meridionale e di rappresentanza calcistica del Sud in Europa, riferendosi chiaramente al fatto che l’unica squadra competitiva dei territori più poveri del Continente (Sud-Italia e Grecia) è il Napoli.
Parole in perfetta sintonia con il mio Dov’è la Vittoria, soprattutto nello specifico del capitolo “Il Regno d’Italia“.

Il Sud che tifa per la Juventus e per le squadre di Milano

Come ha fatto la Juve a essere la squadra più tifata d’Italia? Perché al Sud si tifa per le squadre del Nord? Le risposte le ho date alla testata Vesuvio Live, così come di seguito riportato.

Slegare il Calcio dalla storia comprometterebbe una corretta comprensione degli attuali equilibri sportivi ed economici che regolano la geografia del sistema pallone in Italia. Riavvolgere il nastro degli eventi rappresenta l’unica soluzione per rispondere a domande che non sempre trovano una risposta adeguata.

L’impresa di chiarire alcuni fondamentali aspetti storico-sportivi e sociologici è riuscita ad Angelo Forgione, giornalista, scrittore e ricercatore storico napoletano che ha affrontato questi temi nel suo recente libro Dov’è la Vittoria.

Come ha fatto la Juve a essere la squadra più tifata d’Italia?

C’entra il mondo dell’industria, cui è legato a doppio filo il Calcio sin dai sui principi britannici. Ne ho scritto approfonditamente nel mio libro Dov’è la Vittoria, in cui chiarisco come tutto questo abbia influito in un Paese come l’Italia, squilibrato economicamente come nessun altro.

La Juventus ha iniziato a ingrossare il suo seguito nel dopoguerra. Fino al 1949, anno della scomparsa del Grande Torino, contava 7 scudetti, solo 1 in più dei granata, la cui superiorità schiacciante fu improvvisamente interrotta dalla tragedia di Superga. L’Inter e il Bologna ne avevano 5 e il Milan 3. Ne vantava addirittura 9 il Genoa, e 7 la Pro Vercelli, ma il loro prestigio era legato ai primi campionati, quelli in cui il tricolore si disputava solo tra squadre del “triangolo industriale”.
Sparito il Grande Torino, che tra l’altro era nato come Torino-Fiat quando la famiglia Agnelli si era disinteressata della Juventus, i bianconeri, riacquistati da Gianni Agnelli nel 1948, si ritrovarono in competizione con Inter e Milan negli anni del “miracolo economico” italiano, quando si realizzò la più grande migrazione di massa mai verificatasi nella nostra penisola: milioni di persone si spostarono dal Mezzogiorno, abbandonando i campi agricoli per andare a lavorare nelle fabbriche del Nord. I nuovi residenti dell’area piementese, cioè pugliesi, siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, trovarono ostilità e cartelli con scritte discriminatorie, e dovettero trovarsi dei riferimenti locali da sposare per farsi accettare. Il Calcio divenne il modo più immediato per combattere l’emarginazione, il veicolo più immediato per sentirsi più integrati. La Juventus, fino a quel momento sostenuta prevalentemente dalla buona borghesia torinese, divenne improvvisamente la squadra dei proletari immigrati, mentre il Torino divenne la squadra dei torinesi.

Il club bianconero, a quel punto, capì di doversi dare un’immagine che risultasse familiare ai lavoratori meridionali della Fiat e iniziò a rastrellare talenti del Sud, in un campionato in cui le frontiere erano chiuse. E così, nel maggio del ‘68 chiuse il primo acquisto geopolitico della storia calcistica italiana prelevando dal Varese il catanese Pietro Anastasi, nonostante il giovane centravanti fosse già promesso all’Inter. Gianni Agnelli lo strappò di forza ai nerazzurri con un blitz improvviso. Il presidente del Varese, Giovanni Borghi, era il patron della Ignis, produceva l’articolo del momento, il rivoluzionario frigorifero, e i compressori glieli forniva proprio la Fiat. L’offerta dell’Avvocato non si poteva proprio rifiutare. E il prezzo del calciatore, in parte, fu pure pagato con merce. Anastasi, nel trapasso tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta, divenne l’idolo del popolo degli emigranti del Sud e la sua foto in maglia bianconera entrò prepotentemente nelle case torinesi di periferia come in quelle siciliane. Così come la foto del sardo Cuccureddu, del palermitano Furino e del leccese Causio, una significativa rappresentanza meridionale nei 5 scudetti juventini degli anni Settanta che accrebbe la sempre maggiore simpatia dei tanti appassionati nel Mezzogiorno per la Juventus. Il suo nome, che non era quello di una città e non imponeva il cliché del campanile, agevolò il processo di diffusione della popolarità bianconera.

I meridionali di Torino, quelli che costruivano le fortune economiche della famiglia Agnelli, trasmisero la juventinità ai parenti rimasti al Sud, sui quali fece facilmente presa tutto ciò che gravitava attorno al miraggio della ricchezza e del successo settentrionale.
La Juventus dominò gli anni Settanta e i primi Ottanta, ingrandendo la sua tifoseria con nuove generazioni di fedelissimi immigrati – figli e parenti – che si identificarono con le vittorie della “zebra”. Le convocazioni dei calciatori juventini nella Nazionale italiana divennero massicce e sul cosiddetto “blocco-Juve” fu costruita la Nazionale che giunse quarta ai Mondiali del 1978 e vinse quelli del 1982. Ben nove juventini scesero in campo in Argentina e sei furono titolarissimi nella trionfale spedizione in Spagna. La Juventus, così, si rese definitivamente la squadra d’Italia, la nazione campione del mondo.

Perché al Sud si tifa per le squadre del Nord?

Discorso delicato, soprattutto a Napoli, e anche di questo parlo nel mio libro con un’analisi sociologica che provo a sintetizzare. Le tre principali scintille d’innesco della fede sportiva sono legate all’identificazione antropologica: l’eredità patriarcale, la fascinazione richiamata dal proprio territorio e quella evocata dal successo. Quest’ultima è quella porta a tifare per la Juventus, ma anche per il Milan e l’Inter, perché sono i club che storicamente hanno scritto cicli vincenti. I più piccoli amano e desiderano vincere, a tutti i costi, e del resto modificano spudoratamente le regole dei loro giochi pur di riuscirvi. In loro si sviluppa molto presto la voglia di affermarsi e per questo preferiscono la sensazione appagante della vittoria e rifiutano quella deludente della sconfitta.

Se primeggiare è il primo istinto del piccolo tifoso non c’è da stupirsi che la Juventus, la squadra italiana che vanta più titoli nazionali, sia anche quella che vanta più sostenitori, nonostante i ripetuti scandali più o meno recenti, la revoca degli scudetti e la retrocessione d’ufficio del 2006.

Il Sud, come il Centro e il Nord-Ovest d’Italia, sceglie le squadre blasonate di Torino e Milano perché è pieno di ragazzini che non accettano di legarsi alle squadre delle proprie città e delle proprie province per non autocondannarsi all’impossibilità di competere per la vittoria. Questi giovani tifosi barattano la loro identità col potere, pur di recitare un ruolo da protagonista in pubblico, perché il tifo costituisce un elemento primario di riconoscimento e di affermazione sociale. E difficilmente, crescendo, sono in grado di mettere in discussione le proprie scelte infantili.
Solo le città con identità forti e squadre di un certo rango, come Napoli, Roma e Firenze, riescono ad arginare il fenomeno. E infatti lo juventinismo, il milanismo e l’interismo attecchiscono molto di più nei piccoli e medi centri che non riescono a emergere nel Calcio che conta. Cosa volete che scelgano i bambini di Siracusa, Olbia, Matera, Teramo, Macerata e di altre città e province che la Serie A non la vedono mai? Questi giovani devono necessariamente fare una scelta che consenta loro di partecipare, di non sentirsi totalmente esclusi, e per convenienza inconscia si affezionano alle squadre vincenti, oppure a quella che sta compiendo un ciclo vincente al momento dell’esplosione della passione calcistica.
Poi ci sono i tifosi di quei distretti che rappresentano realtà calcistiche di un certo rilievo ma che però sono storicamente incapaci di recitare un ruolo primario, come ad esempio Bari, alla cui fede locale è spesso accostata quella per una delle tre grandi storiche. In questi centri è spesso ostentata una fedeltà sdoppiata, una duplice passione: per la squadra locale, che non ha legami stretti con la vittoria, e per quella in grado di vincere, che non ha legami stretti col territorio.

Ecco perché Juventus, Milan e Inter sono le squadre degli appassionati territorialmente “decentrati”, quelli che vivono nelle province senza una grande storia calcistica.

La mancanza di un preciso radicamento geografico della tifoseria bianconera fa della Juventus l’emblema del tifo apolide, ancor più dell’Inter e del Milan, che almeno si dividono Milano, mentre Torino è ampiamente granata. I colori bianconeri intercettano circa il 35% degli appassionati sparsi, un tifoso italiano su tre. Con sensibile distacco, l’Inter e Milan si contendono la seconda piazza, col 14%. Dietro le tre “industriali” segue il Napoli al 13% e poi la Roma al 7%, non a caso le altre due grandi città e le due grandi squadre poco vincenti perché non appartenenti a territori di storia industriale ma che però riescono ad accendere la fascinazione delle loro fortissime identità.

In definitiva, il meridionale che tifa per le squadre del Nord è nella stragrande maggioranza dei casi vittima di un’inazione infantile che paralizza in una posizione confortevole. Il fatto è che tutto questo determina anche vantaggi economici essenziali per le tre big. Basti ricordare che la ripartizione dei diritti televisivi è contrattata in modalità collettiva e che il 25% è frazionato in base alla classifica delle tifoserie per quantità. Più sostenitori hanno i club, più soldi portano a casa, al netto del merchandising e della bigliettazione allo stadio. Potete facilmente immaginare quanti soldi Juventus, Milan e Inter intaschino grazie al seguito che raccolgono al Sud.

Bonghi nell’Ottocento, oggi Cantone. Napoli fa Milano “capitale morale”

ll presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, ha ricevuto dalle mani del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, il Sigillo della Città. «È una soddisfazione per un terrone – ha detto il magistrato napoletano – essere insignito di un’onorificenza della città più importante d’Italia, quella che ha sempre avuto l’idea di essere la capitale morale della Repubblica. Milano si è riappropriata di questo ruolo, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere. Il modello Milano messo in campo per l’Expo ha mostrato sinergie che a Roma mancano».
Cantone e Pisapia, dunque, proprio mentre l’Expo di Milano volge al termine, hanno in qualche modo decretato il compimento positivo della missione di pulizia della fase organizzativa dell’esposizione meneghina, dopo il grave danno di immagine generato dalle vicende giudiziarie legate agli appalti. Cantone, il salvatore della moralità di Patria, ha probabilmente evitato che quel danno fosse ancor più grande, ma è impensabile che un paragone con Roma possa bastare per riabilitare Milano e porre fine a un periodo buio esploso con la Tangentopoli di Mani Pulite degli anni Novanta.
Oggi, in concomitanza dell’Expo dell’alimentazione, un napoletano restituisce a Milano il ruolo di “capitale morale del Paese”, 134 anni dopo un altro napoletano che, in occasione di un’altra esposizione milanese, quella industriale del 1881, quella lusinghiera definizione la coniò scrivendola per la prima volta sulle pagine del giornale che dirigeva. Da Ruggero Bonghi a Raffaele Cantone, la storia si ripete, ed è sempre un napoletano a mettere Milano alla guida della Nazione.

La pastiera di Verona, una vecchia storia

Riesplode oggi un caso vecchio (già trattato nel 2011)

Angelo Forgione – Aprile 2014: tutti a parlare della pastiera industriale di Verona, la “deliziosa torta con grano saraceno” che di vera pastiera non ha nulla. Questo prodotto non solo non è fresco ma non è neanche nuovo. È infatti sul mercato da molti anni, e ne accennai già nel dicembre 2011 nel videoclip “Nord palla al piede” (al minuto 12:37) con cui evidenziai le interdipendenze economiche tra Settentrione e Meridione e smontai la propaganda leghista, e non solo leghista, che ha fulcro nella “fiaba” del Sud-zavorra. Un videoclip che, tra l’altro, ebbe la “benedizione” dell’ex-dirigente RAI Enrico Giardino, scomparso lo scorso ottobre, ricercatore di soluzioni ed alternative rispetto agli schemi dominanti, impegnato nella battaglia per la libertà di informazione, nella demistificazione delle menzogne mediatiche e delle ipocrisie della politica nazionale ed internazionale, che in un suo articolo scrisse: “I nostri governanti lasciano fare e assecondano l’arbitrio padronale. Desertificando e immiserendo il Sud produttivo, ci vengono a dire, mentendo, che il Sud è la “la palla al piede dell’Italia”. E’ una spudorata menzogna, come dimostra con i numeri e con un video illuminante il blog di Angelo Forgione”.
Il prodotto veronese è il simbolo della flessione del mercato dei dolci industriali che invadono piccola e grande distribuzione nelle festività religiose (e non solo). Una flessione che neanche la forte riduzione dei prezzi ha arginato. E le aziende hanno dovuto spingere sull’innovazione e sulla comunicazione. Su queste direttrici anche Melegatti ha premuto l’acceleratore con una serie di investimenti mirati e ha ampliato la sua offerta per supplire ai classici prodotti che non tirano più. E così sono nate le novità, “scippando” anche i nomi delle tradizioni forti e lontane, quelle che rievocano qualità e bontà.
Il dibattito è scoppiato quando il direttore del Corriere del Mezzogiorno Antonio Polito ha scritto un editoriale in cui ha definito questa storia “una semplificazione perfetta dei problemi del Mezzogiorno” e ha puntato il dito sullo scarso senso d’impresa del Meridione. Il suddetto videoclip di approfondimento è già sufficiente per andare più a fondo rispetto al problema (ne consiglio la visione). Polito ha scritto che “nessuno qui da noi, con capitale del Mezzogiorno, con lavoratori napoletani, producendo reddito che resta al Sud, abbia avuto la stessa semplicissima idea della Melegatti o abbia trovato i mezzi per metterla in pratica: trasformando cioè l’artigianato in industria e la tradizione in marketing”. Ed è qui che si sviluppa il nuovo dibattito. Un dolce del genere, per gli ingredienti richiesti, non può diventare un prodotto industriale, e neanche potrebbe mai essere messo sul mercato da un’azienda napoletana e – credo – neanche meridionale. Il rispetto della tradizione è qualcosa che impone delle strategie a chi si propone al pubblico, che deve mettere mano al portafogli solo quando convinto di ciò che acquista. La soluzione della questione, che vale anche per indebolire le convinzioni di Polito, la offre la D’Amico, con sede legale a Napoli e stabilimenti a Pontecagnano Faiano, nel Salernitano, che un prodotto-pastiera industriale l’ha messo sul mercato, ma non ha umiliato nome, preparazione e tradizione, realizzando un kit in scatola in cui sono racchiusi i prodotti essenziali per la facile preparazione di una vera pastiera napoletana: grano già cotto, aroma millefiori, zucchero a velo e, in più, un ricettario tradizionale. Tutta un’altra storia!
Diciamolo serenamente che lo spirito imprenditoriale al Sud ha ampi margini di crescita così come problemi endemici da risolvere, ma è comunque vivo. Il vero problema non è l’innovazione e neanche la minore produzione ma la distribuzione, in gran parte in mano al Nord, autentico ostacolo allo sdoganamento dei prodotti industriali del Sud. Quanti kit pastiera di D’Amico arrivano a Verona?