I Borbone a mangiar gelati

Angelo Forgione Napoli è stata, nel Settecento, la città che ha dato impulso all’arte sorbettiera, di cui i napoletani divennero veri maestri. Il medico napoletano Filippo Baldini, nel 1775, pubblicò il trattato De’ sorbetti, nel quale, per primo, sostenne la tesi della salubrità dei cibi gelati contro tutti i medici che, invece, a quel tempo, li sconsigliavano.
La rinomanza dei sorbetti e dei sorbetti gelati di Napoli, cioè dei gelati per come li conosciamo oggi, era testimoniata da un numero enorme di caffettieri e gelatieri che, come le monache nei conventi, affinavano i procedimenti di preparazione per ottenere un prodotto superiore.

Anche se non esistevano macchine del ghiaccio e macchinari di refrigerazione, per Napoli capitale tutto questo non era un problema perché esisteva una vera e propria economia del freddo che, portando in città la neve del Faito e di altre cime, stupiva tutti i viaggiatori del Grand Tour già dal Settecento.

Stampi settecenteschi, ora oggetti d’antiquariato da collezione, ma anche illustrazioni nei primi libri di pasticceria, rivelano che in quel periodo proprio le monache erano rinomate specialiste nella realizzazione dei pezzi duri, lavorazioni a forma di medaglione ma anche con fantasiose sembianze di frutta, di animali, di cibi vari e di ogni cosa, dipinti e decorati una volta estratti dagli stampi per farne creazioni talmente realistiche che i commensali potevano essere tratti nell’inganno di mangiare una pesca per poi scoprire che si trattava di un pezzo gelato al gusto di arancia. Insomma, una produzione artigianale che anticipava di un paio di secoli quella industriale. Ce ne dà testimonianza il viaggiatore britannico John Moore, autore di A view of society and manners in Italy, con una lettera scritta da Napoli nel 1778 in cui raccontò di aver presenziato alla visita di Ferdinando e Maria Carolina di Borbone alle suore del convento di san Gregorio Armeno:

(traduzione)
"In un convento la compagnia fu sorpresa, condotta in un grande salone, di trovarvi una tavola preparata con un abbondantissimo pasto freddo, fatto di diversi arrosti, prosciutti, pollame, cacciagione, pesce e vari altri piatti. Sembrò piuttosto inopportuno l’aver preparato un simile banchetto immediatamente dopo pranzo, poiché quelle visite reali si facevano generalmente di pomeriggio. La Badessa pregò le Loro Maestà di sedersi, mentre le suore rimasero in piedi dietro per servire gli ospiti reali. La Regina scelse una fetta di tacchino freddo, che una volta tagliata, era invece un bel pezzo di gelato al limone, con la forma e l’apparenza di un tacchino arrosto. […] La giovialità e il buon umore del Re, l’affabile e attraente contegno delle sorelle reali e la soddisfazione che illuminava il volto grassottello della Madre Badessa, dettero alla scena un’aria di giocondità […]."

Giacomo Leopardi, a Napoli, divenne avido di sorbetti, spumoni, coviglie e pezzi duri locali.
Furono proprio i maestri gelatieri di Napoli, lungo tutto l’Ottocento, a diffondere l’arte del gelato in Italia.
Domenico Pepino, nel 1884, se ne andò a Torino e apri la sua “Vera gelateria artigiana napoletana” nella diffidente città piemontese, la prima del posto e ancora operante.
Il Trattato di Gelateria, primo moderno sull’argomento, fu pubblicato nel 1911 dal perugino Giuseppe Enrico Grifoni, gelataio che aveva appeso i segreti del mestiere a Napoli e aperto una fortunata gelateria a Bologna. Giosuè Carducci lo soprannominò “il napoletano di Bologna”, perché di napoletano aveva solo la capacità di fare gelati.

Stupiti? Lo sarete completamente leggendo le tante storie di Napoli svelata (A. Forgione – Magenes, 2022).

Monte Faito, il freezer dei napoletani quando non esisteva il freezer

Angelo Forgione Avete mai sentito il detto napoletano “Te piace ‘o vino cu ‘a neve” (“ti piace il vino con la neve”)?
È un’espressione piuttosto antica che fa riferimento al periodo in cui non esisteva la corrente elettrica, e ovviamente neanche i frigoriferi e i congelatori, e allora le famiglie facoltose acquistavano il ghiaccio fatto con la neve. Sì, proprio la neve, vera e propria manna dal cielo per i napoletani, fatta trasportare dalle montagne fino a Napoli e nei centri abitati del Golfo per raffreddare le bevande d’estate e per conservare i cibi. Portare la neve dalle impervie alture sino ai territori urbanizzati, evitando che si sciogliesse, richiedeva tecniche laboriose e un lavoro stancante, che facevano gli abitanti delle comunità montane, ma anche chi la trasportava via mare fino ai depositi cittadini, presso i quali ci si approvvigionava. Proprio per questo motivo l’espressione “Te piace ‘o vino cu ‘a neve” fa riferimento al lusso consentito dai sacrifici altrui e la si rivolge a quelli a cui piacciono le cose facili, quelli che beneficiano della fatica degli altri.
Ma di quale fatica si trattava? Per descriverla, estraggo qualcosa da una ben più ampia narrazione fatta nel capitolo “Ai napoletani piace freddo” di Napoli svelata.

Già nel Cinquecento, quando bere bevande ghiacciate risultava irrazionale ed era anche sconsigliato da alcuni medici, i napoletani freddavano il vino con la neve. A fine secolo, il militare e poeta napoletano Giovan Battista Del Tufo decantò questa assai peculiarità partenopea:

“[…] qui bisogna affirmare che le cose di Napoli son rare. Bever freddo con la neve da Napolitani. […]”

Il filosofo domenicano Tommaso Campanella, nei dialoghi de La città del Sole del 1602, scrisse:

“[…] Non bevono annevato, come i Napoletani. […]”

Lo scrittore francese Jean Jaques Bouchard, viaggiatore in visita a Napoli nel 1633, nel suo Journal de voyage dans le Royame de Naples, descrivendo le abitudini dei napoletani, scrisse:

“[…] gli è indispensabile procurarsi la neve anche nel cuore dell’inverno, e si priverebbero del pane piuttosto che di essa, che è il primo dei segni e differenze essenziali tra il pasto cavalleresco e quello plebeo. […] “

Il principale serbatoio di Napoli erano il Faito e il Sant’Angelo a Tre Pizzi, le cime più alte della catena dei Monti Lattari, dove la neve veniva stipata nelle cosiddette “neviere”, fosse artificiali di deposito ben ombreggiate dalle folte faggete (da cui il monte Faito prende il nome) e appositamente isolate con terreno, paglia, foglie e frasche utili al ghiacciamento. La neve ghiacciata veniva poi trasportata nottetempo a valle, verso Castellammare di Stabia ma anche Vico Equense, per essere inviata via mare in analoghi magazzini di spaccio di Napoli e della penisola sorrentina.

Grazie a questa industria naturale del ghiaccio, i napoletani non solo poterono conservare cibi e freddare bevande d’estate ma divennero veri maestri dell’arte del sorbetto. Il francese Enrico II, duca di Guisa, nelle sue memorie del 1647, al tempo della rivolta di Masaniello, riportò che in Napoli i sorbetti di ogni genere erano deliziosi e migliori che in qualsiasi altro paese. E a fine secolo, il cuoco marchigiano Antonio Latini, operante per lungo tempo a Napoli, scrisse:

“[…] qui in Napoli pare ch’ogn’uno nasca, col genio, e con l’istinto di fabricar Sorbette; […].

Nel Settecento borbonico, con Napoli sempre più affermata capitale culturale d’Europa, l’appalto della neve fu assegnato ai Gesuiti, che avevano l’obbligo di una fornitura capillare a tutta la città. E se nei secoli precedenti i blocchi di ghiaccio venivano condotti dalla cima del Faito a valle impiegando i muli, il sistema di trasferimento fu velocizzato con la realizzazione di un sistema teleferico a funi, descritto da Richard Keppel Craven, uno dei tanti viaggiatori inglesi del Grand Tour in visita a Napoli nel primo Ottocento:

“Un altro promontorio separa Vico da Castellammare, situata sotto la parte più alta della catena montuosa che delimita il golfo di Napoli. […] Questo punto è di fatto il ghiacciaio che rifornisce la capitale di un articolo di indispensabile necessità durante tutto l’anno. […] Il modo con cui è trasportato da queste grandi altezze è tanto semplice quanto singolare e rapido. Diverse funi di gran lunghezza sono tese in direzione inclinata dall’alto verso il basso. I blocchi di neve ghiacciata, accuratamente imballati con foglie secche e fascine di sottobosco, vengono sospesi su queste funi per mezzo di staffe curvate, e il loro stesso peso li spinge a valle con una velocità incredibile. Ad ogni terminale staziona un ragazzo che compie le operazioni di carico e scarico, mentre un altro conduce i blocchi alle imbarcazioni, pronte tutto il giorno per caricarli e trasportarli direttamente a Napoli. Questa operazione dura pochi minuti, mentre una qualsiasi altra modalità di trasporto richiederebbe alcune ore, poiché i sentieri della montagna sono pericolosamente ripidi e ardui.”

Così Napoli capitale fu riconosciuta come la città del sorbetto, tanto amato da Giacomo Leopardi, e poi della sua evoluzione, il gelato. Ma anche città decisamente più sicura di Londra e Parigi, perché il prodotto ghiacciato divenne sempre più accessibile alle classi popolari e dunque, come testimoniarono gli stessi viaggiatori del Gran Tour, i “lazzaroni” bevevano limonata ghiacciata mentre i poveri delle altre grandi e fredde città bevevano gin e cognac.

Con lo sviluppo tecnologico, la fabbricazione del ghiaccio, sempre più facile e domestica, annullò la necessità di procurarsi la neve ghiacciata, mandando nel dimenticatoio la neve ghiacciata per conservare i cibi deperibili e per ristorarsi d’estate nonostante l’assenza di elettricità e processi meccanici di refrigerazione, pagando quel lusso che era consentito da una lavorazione oggi insospettabile ma che ha rappresentato fonte di reddito per le comunità dei Monti Lattari.

Le “naviere” sono ancora lì, nascoste nelle folte faggete del Monte Faito. Non servono più, ma sono censite e sono un richiamo emozionante per chi ama capire la storia e anche l’ingegno di un popolo.

per approfondimenti: Napoli svelata (Magenes, 2022)

clicca qui per guardare il video illustrativo

Napoli, la capitale del sorbetto e del gelato

Giacomo Leopardi mangia un gelato a Napoli – tratto dal film “Il giovane favoloso” di Mario Martone

Angelo Forgione  Qualcuno sostiene che il gelato sia nato a Firenze, nel Cinquecento. Eppure i sorbettieri fiorentini, nell’Ottocento, non conquistarono Giacomo Leopardi come quelli napoletani. Il disadattato poeta marchigiano si sentì a suo agio solo seduto a trangugiare avidamente quantità spropositate di specialità ghiacciate di Napoli. Il suo sorbettiere preferito, don Vito Pinto, era all’angolo tra il largo della Carità e la strada di Toledo. Il suo amico Ranieri, in vecchiaia, scrisse che l’arte sorbettiera napoletana era stato il principale motivo per cui non volle allontanarsi da Napoli. Giacomo era davvero avido di sorbetti, spumoni, coviglie e pezzi duri (ghiaccioli ante-litteram) che, insieme alle limonate ghiacciate, rendevano Napoli famosa come la città dei “gelati sorbetti”, e sin dal Seicento. Una città affollatissima in cui si consumavano cibi e bevande ghiacciate in gran quantità, quando non esistevano macchine del ghiaccio e macchinari moderni di refrigerazioni. Ma per Napoli capitale tutto questo non era un problema perché esisteva una vera e propria economia del freddo che stupiva tutti i viaggiatori del Grand Tour già dal Settecento. A quel tempo, i medici sconsigliavano il consumo di bevande fredde, mentre Filippo Baldini, professore di Medicina presso la Regia Università di Napoli e medico di corte, diede alle stampe il trattato De’ Sorbetti, primo libro scientifico in cui furono esaltate le proprietà benefiche di alimenti ghiacciati.

Nel 1840, il viaggiatore tedesco Carlo Augusto Mayer scrisse nel suo diario Neapel und die Neapolitaner:
“(…) in nessun luogo si fanno gelati così eccellenti e a buon mercato come a Napoli. D’estate e d’inverno se ne fanno di tutti i frutti, o più liquidi in bicchieri, o più solidi in pezzi rotondi; oppure – e questo è il trionfo dell’arte – simili a una spuma”.

Il primo moderno trattato di Gelateria, pubblicato nel 1911, è del perugino Giuseppe Enrico Grifoni, artigiano che apprese i segreti del mestiere a Napoli e poi aprì una gelateria a Bologna. Giosuè Carducci lo soprannominò “il napoletano di Bologna”, anche se di napoletano non aveva nulla, a parte l’arte del gelatiere.

Un’altra storia da conoscere tra le tante di una fattivissima città in cui la neve, tra il Seicento e l’Ottocento, era un bene di prima necessità come il pane. Stupiti? Lo sarete completamente scoprendo, se vorrete, come ce la si procurava in uno dei 15 capitoli di Napoli svelata, quello dedicato alla storia del gelato e dalla rinomata gelateria artigianale napoletana.

NAPOLI SVELATA – Belle vicende della Storia partenopea dalle origini a oggi

Napoli e i suoi dintorni, luoghi di un popolo che da sempre sfida due vulcani distruttivi ma forieri di prosperità. Un territorio particolare e complesso per natura e umanità, unico per identità e assai ricco di storie perché possa essere capito con facilità. Un mondo a sé, custode di un immenso patrimonio intellettuale e storico, frutto dell’influenza di varie culture e delle molteplici vicende di cui è stato teatro nel corso dei millenni.
Napoli, città porosa proprio come il tufo su cui poggia, ha assorbito e poi restituito con linguaggio proprio e idee nuove. Qui, tra i tanti ingegni, sono fioriti la viticoltura italiana con i suoi vini, la vulcanologia e l’archeologia. Qui sono state stimolate l’igiene ambientale e personale. Qui sono stati sperimentati e affinati i primi vaccini. Qui sono state perfezionate eccellenti maestrie, qualcuna superata, qualcun’altra in via di estinzione e altre ancora, come la sartoria maschile, solidamente apprezzate nel mondo. Qui, tra particolari usanze alimentari, si è diffuso il mangiare e bere ghiacciato. Qui sono germogliati il cinema, la cultura sportiva e persino il dogma dell’Immacolata Concezione. Una città tra le più antiche d’Europa, fondamentale nella trasmissione della cultura greca alla società romana e di importanza sempre crescente dal Rinascimento in poi, fino a diventare una delle maggiori capitali d’Europa, prima di decadere nell’Italia politicamente unita. Una città da vedere prima di morire, ma anche da capire. Se ne saprà “qualcosa” in più dopo aver letto Napoli svelata, 15 grandi storie napoletane da conoscere a fondo, frutto di un lavoro lungo e davvero molto approfondito.

Indice

Introduzione
Il melodioso richiamo della Sirena
una terra da ascoltare

1 – Un popolo vulcanico
la vita attorno ai crateri nella patria della vulcanologia

2 – La terra del vino
storia della viticoltura italica e delle sue origini campane

3 – La culla dell’archeologia
la riscoperta della classicità e la Napoli di Canova

4 – Ai napoletani piace freddo
l’antica passione per il ghiacchiato, dal sorbetto al gelato

5 – Ai napoletani piace scuro
dall’usanza della cioccolata alla tradizione del caffè

6 – Il sacro dolce di Napoli
leggende ed evoluzioni di sua maestà la Pastiera

7- Una città acqua e sapone
complessa vicenda dell’igiene napoletana

8 – Grandi, grossi e vaccinati
Napoli protagonista nella scoperta dell’immunizzazione

9 – La Madonna li accompagna
la Fede di Napoli per la definizione del dogma dell’Immacolata

10 – L’irripetibile arte del piqué di tartaruga
un’estinta maestria di gran pregio alla corte di Napoli

11 – L’eleganza cucita addosso al mondo
l’eccellenza dell’alta sartoria maschile napoletana

12 – Le pelli si trattano con i guanti
principio e quasi estinzione dei rinomati guantai napoletani

13 – Napoli sana in corpo sano
la tradizione sportiva partenopea, dalla città greca a oggi

14 – Una vera cine-città
Napoli culla della cinematografia e primo set d’Italia

15 – Vedi Napoli e poi muori… giustiziato
origine incerta del popolare detto sulla Città

Il ‘Tartufo’ dell’antica gelateria… di Pizzo

Angelo Forgione – Alzi la mano chi non ha mai mangiato un ‘Tartufo’ gelato alla fine di un buon pranzo al ristorante. Bello gonfio, cremoso, dolce, come lo propone dal 1982 l’Antica Gelateria del Corso. Tutti con le braccia giù! È certamente uno dei classici dell’azienda di origine parmigiana. E invece no. Il cuore di gelato è roba della pasticceria calabrese, di Pizzo, per la precisione, la località famosa per la fucilazione del decaduto re di Napoli Gioacchino Murat alla caduta del cognato Napoleone nel 1815.
Un’intuizione casuale di un pasticcere messinese, Giuseppe De Maria, detto don Pippo, che in precisa data 14 giugno 1953 realizzò la prima casuale tiratura di quello che sarebbe diventato uno dei classici della tradizione gelatiera. In quel giorno si celebrò l’importante matrimonio della figlia maggiore dell’allora direttore del Banco di Napoli, il dottor Bruno Cirillo di Pizzo. Ricevimento nel Castello Murat, la fortezza in cui un secolo e mezzo prima era stato imprigionato il Re francese. Tantissime persone a festeggiare Carmen Cirillo e Guglielmo Ruggiero, molte provenienti da Napoli, dove i due giovani vivevano. Quelli, per il gelato, pure avevano palato fine, e allora grande fu la preoccupazione del mastro gelatiere Giuseppe quando si accorse di non disporre di stampi in numero sufficiente per confezionare il gelato per tutti e servirlo al cucchiaio. Per sopperire alla mancanza, usò le mani e racchiuse del cioccolato fondente fuso tra due emisferi di crema, uno alla nocciola e l’altro al cacao. Avvolse il tutto in fogli di carta alimentare e pose a raffreddare. Ne vennero fuori dei blocchetti solidi, poi serviti con una spolverata di polvere di cacao. Il dolce improvvisato riscosse un enorme successo tra i commensali e così nacque quel che fu battezzato con il nome di “Tartufo”.
Col tempo, il successo della creazione artigianale calabrese divenne sempre maggiore, e perciò l’industrializzazione settentrionale, dopo circa trent’anni, la fece sua. L’estate del 1982, quella in cui la Nazionale di Bearzot vinse i Mondiali di Spagna, gli italiani fecero la conoscenza con i ‘Tartufi’ neri e bianchi dell’Antica Gelateria del Corso, l’azienda protesa alla conquista del settore della ristorazione. Con l’idea di don Pippo fece breccia nelle italiche abitudini, e di gran moda divenne la versione affogato al caffè. La filosofia del ‘Tartufo’, un anno dopo, venne applicata perfino ai panettoni industriali: chi non ricorda il celebre ‘Tartufone’ Motta? Un marchio che, con la sua divisione gelati, era commercializzata proprio da Antica Gelateria del Corso.
Nel 2012, la nota azienda dei dessert, ormai passata in mano alla Nestlè, ha bellamente festeggiato i 30 anni del Tartufo a proprio marchio, spacciando per invenzione di un proprio mastro gelatiere, evidentemente di Parma, quella che era stata tre decenni prima l’invenzione di un mastro gelatiere di Messina, così attirandosi le ire dei calabresi.
L’originale ‘Tartufo di Pizzo’ aveva già 29 anni, e oggi ne ha 66, con tanto di marchio Igp approvato dalla Regione Calabria e dal Ministero delle politiche agricole, e con la fama ormai giunta anche oltreoceano. Negli Stati Uniti, lo scorso anno, il prestigioso quotidiano New York Times ha dedicato all’invenzione del gelato da tavola di Pizzo un articolo con illustrazioni a fumetti a cura di Tony Wolf, secondo cui il ‘Tartufo” sarebbe stato servito per la prima volta in occasione della visita di un discendente di Vittorio Emanuele II, giunto a Pizzo nel 1952 per un matrimonio, un anno prima di quello di Carmen e Guglielmo. Il romantico narratore americano deve aver subito anch’egli il fascino della manipolata storia dell’origine della pizza ‘margherita’, creata, secondo la credenza diffusa, dal pizzaiolo napoletano Raffaele Esposito in onore della regina d’Italia, Margherita di Savoia, in visita a Napoli. Anche in quel caso, un’eccellenza artigianale del Sud catturata dall’industria alimentare del Nord a caccia di enormi profitti.

tartufo-di-pizzo-1-800x1014

Pizza cibo della felicità, poi la pasta

“Pizza” e “spaghetti” non sono solo le parole italiane più note e pronunciate nel mondo. Secondo una recente indagine demoscopica condotta da Doxa/Deliveroo, la pizza è il piatto perfetto per rendere migliore la giornata per il 42% degli italiani, davanti alla pasta, scelta dal 33% degli interpellati. Bronzo per le grigliate di carne, al 30%. Poi il gelato con il 21% dei consensi, davanti ai formaggi (10%), ai salumi (9%) e al panino, che si posiziona a pari merito con il sushi (7%).

La pizza è dunque il piatto del sorriso per quasi un italiano su due. Il quasi sparisce al Sud e nelle Isole, dove la percentuale sale al 51%. Ma anche la pasta non fa affatto malumore.

Risultati del sondaggio facilmente anticipati scrivendo Il Re di Napoli:

Eccola qui la quintessenza della creatività dei napoletani, che non hanno inventato né pizza né pasta, ma ne hanno saputo fare simboli cominciando dal versarvi ‘a pummarola ‘ncoppa, prima di tutti, dicendo al mondo «e così sia!». E così è stato che pizza e pasta sono diventati i prodotti più amati in assoluto, e se la prima è più famosa per le sue tante declinazioni prodotte in ogni parte del pianeta, la seconda è la vera regina del Made in Italy in tavola, l’unico alimento per il quale l’Italia detiene il primato mondiale per esportazione. Un mondo senza Napoli, evidentemente, sarebbe stato un po’ meno piacevole.

Già, perché grandissima parte di pizze e maccheroni sono conditi con il pomodoro, contenente serotonina, l’ormone del buonumore. Ed ecco che un ringraziamento alla cucina napoletana per il sapore e per l’umore distribuiti risulta davvero doveroso.

pizza

Il gusto “Regno delle Due Sicilie” vince il GelatoFestival

Angelo Forgionegelato_5Domenica 17, alla tappa napoletana del GelatoFestival che si è svolta al quartiere Vomero di Napoli, ho avuto la fortuna di assaporare un prodotto veramente eccezionale: il gusto “Regno delle Due Sicilie”, un sensorial tour dalla Sicilia alla Campania, con pistacchio di Bronte, cioccolato di Modica, nocciola di Giffoni IGP e Arancia bionda di Sorrento.
Ideato e proposto dai simpatici Oreste e Marcella Mantovani, della gelateria Gelatosità di Napoli, il suo nome potrebbe indicare un giudizio di parte. Il fatto è che il festival prevedeva una gara tra tutti i gusti proposti dalle varie gelaterie, e il mio è stato solo uno dei tanti voti della giuria popolare che hanno decretato vincitore per plebiscito il gusto delle Due Sicilie, mentre la giuria tecnica premiava ex aequo il napoletano Marco Infante di Casa Infante con il gusto “Terramia” e Pina Moltierno di Caserta con il gusto “Desir Noir”.
La vittoria di tappa manda ora i fratelli Mantovani alla finalissima europea di ottobre di Firenze, ultimo evento del Tour 2015 che proclamerà il miglior gelatiere d’Europa. Il gusto “Regno delle Due Sicilie” ci sarà. Anche in gelateria, si spera.

Il “Cornetto”, geniale idea napoletana

Angelo Forgione – È il 13 dicembre 1903 quando Italo Marchioni, un marchigiano residente a New York, riceve il brevetto statunitense per l’invenzione del “cono” per il gelato che già vende dal 1896. L’ha servito per anni in bicchieri di vetro, ma i clienti americani non glieli restituiscono. Occorre qualcosa da usare e gettare, e lui crea qualcosa da usare e mangiare. E però il gelato, sciogliendosi, spugna la cialda. Pazienza, per circa sessant’anni.
E così si arriva al 1959, in pieno miracolo industriale italiano, anno in cui il gelataio napoletano Spica ha la geniale idea di “impermeabilizzare” la superficie interna del cono-cialda rivestendola con uno strato di olio, zucchero e cioccolato. È la salvezza della croccantezza del cono di Marchioni, che Spica brevetta e battezza col nome di Cornetto, perché è noto quanto il simbolo apotropaico sia parte della tradizione partenopea.
Poi, nel 1974, piomba il colosso industriale anglo-olandese Unilever ad acquisire il brevetto di Spica. Gli stranieri, proprietari del marchio italiano Algida, che inizialmente hanno prodotto il Cremino, puntano sul Cornetto, che diviene il prodotto di punta e dilaga nel mondo sotto gli altri marchi del gruppo. Ed è sempre dal territorio napoletano di Caivano, dalla fabbrica di gelati più grande d’Europa e la seconda in assoluto, che ancora oggi parte la produzione italiana del “cuore di panna”, portandosi dietro il primato di gelato industriale più venduto nel globo e le sue origini partenopee. Del resto, i napoletani avevano inventato pure il gelato artigianale. Si chiamava “sorbetta al latte“. Ma questa è un’altra storia, anzi no.

cornetto-algida-napoletano