I Borbone a mangiar gelati

Angelo Forgione Napoli è stata, nel Settecento, la città che ha dato impulso all’arte sorbettiera, di cui i napoletani divennero veri maestri. Il medico napoletano Filippo Baldini, nel 1775, pubblicò il trattato De’ sorbetti, nel quale, per primo, sostenne la tesi della salubrità dei cibi gelati contro tutti i medici che, invece, a quel tempo, li sconsigliavano.
La rinomanza dei sorbetti e dei sorbetti gelati di Napoli, cioè dei gelati per come li conosciamo oggi, era testimoniata da un numero enorme di caffettieri e gelatieri che, come le monache nei conventi, affinavano i procedimenti di preparazione per ottenere un prodotto superiore.

Anche se non esistevano macchine del ghiaccio e macchinari di refrigerazione, per Napoli capitale tutto questo non era un problema perché esisteva una vera e propria economia del freddo che, portando in città la neve del Faito e di altre cime, stupiva tutti i viaggiatori del Grand Tour già dal Settecento.

Stampi settecenteschi, ora oggetti d’antiquariato da collezione, ma anche illustrazioni nei primi libri di pasticceria, rivelano che in quel periodo proprio le monache erano rinomate specialiste nella realizzazione dei pezzi duri, lavorazioni a forma di medaglione ma anche con fantasiose sembianze di frutta, di animali, di cibi vari e di ogni cosa, dipinti e decorati una volta estratti dagli stampi per farne creazioni talmente realistiche che i commensali potevano essere tratti nell’inganno di mangiare una pesca per poi scoprire che si trattava di un pezzo gelato al gusto di arancia. Insomma, una produzione artigianale che anticipava di un paio di secoli quella industriale. Ce ne dà testimonianza il viaggiatore britannico John Moore, autore di A view of society and manners in Italy, con una lettera scritta da Napoli nel 1778 in cui raccontò di aver presenziato alla visita di Ferdinando e Maria Carolina di Borbone alle suore del convento di san Gregorio Armeno:

(traduzione)
"In un convento la compagnia fu sorpresa, condotta in un grande salone, di trovarvi una tavola preparata con un abbondantissimo pasto freddo, fatto di diversi arrosti, prosciutti, pollame, cacciagione, pesce e vari altri piatti. Sembrò piuttosto inopportuno l’aver preparato un simile banchetto immediatamente dopo pranzo, poiché quelle visite reali si facevano generalmente di pomeriggio. La Badessa pregò le Loro Maestà di sedersi, mentre le suore rimasero in piedi dietro per servire gli ospiti reali. La Regina scelse una fetta di tacchino freddo, che una volta tagliata, era invece un bel pezzo di gelato al limone, con la forma e l’apparenza di un tacchino arrosto. […] La giovialità e il buon umore del Re, l’affabile e attraente contegno delle sorelle reali e la soddisfazione che illuminava il volto grassottello della Madre Badessa, dettero alla scena un’aria di giocondità […]."

Giacomo Leopardi, a Napoli, divenne avido di sorbetti, spumoni, coviglie e pezzi duri locali.
Furono proprio i maestri gelatieri di Napoli, lungo tutto l’Ottocento, a diffondere l’arte del gelato in Italia.
Domenico Pepino, nel 1884, se ne andò a Torino e apri la sua “Vera gelateria artigiana napoletana” nella diffidente città piemontese, la prima del posto e ancora operante.
Il Trattato di Gelateria, primo moderno sull’argomento, fu pubblicato nel 1911 dal perugino Giuseppe Enrico Grifoni, gelataio che aveva appeso i segreti del mestiere a Napoli e aperto una fortunata gelateria a Bologna. Giosuè Carducci lo soprannominò “il napoletano di Bologna”, perché di napoletano aveva solo la capacità di fare gelati.

Stupiti? Lo sarete completamente leggendo le tante storie di Napoli svelata (A. Forgione – Magenes, 2022).

Monte Faito, il freezer dei napoletani quando non esisteva il freezer

Angelo Forgione Avete mai sentito il detto napoletano “Te piace ‘o vino cu ‘a neve” (“ti piace il vino con la neve”)?
È un’espressione piuttosto antica che fa riferimento al periodo in cui non esisteva la corrente elettrica, e ovviamente neanche i frigoriferi e i congelatori, e allora le famiglie facoltose acquistavano il ghiaccio fatto con la neve. Sì, proprio la neve, vera e propria manna dal cielo per i napoletani, fatta trasportare dalle montagne fino a Napoli e nei centri abitati del Golfo per raffreddare le bevande d’estate e per conservare i cibi. Portare la neve dalle impervie alture sino ai territori urbanizzati, evitando che si sciogliesse, richiedeva tecniche laboriose e un lavoro stancante, che facevano gli abitanti delle comunità montane, ma anche chi la trasportava via mare fino ai depositi cittadini, presso i quali ci si approvvigionava. Proprio per questo motivo l’espressione “Te piace ‘o vino cu ‘a neve” fa riferimento al lusso consentito dai sacrifici altrui e la si rivolge a quelli a cui piacciono le cose facili, quelli che beneficiano della fatica degli altri.
Ma di quale fatica si trattava? Per descriverla, estraggo qualcosa da una ben più ampia narrazione fatta nel capitolo “Ai napoletani piace freddo” di Napoli svelata.

Già nel Cinquecento, quando bere bevande ghiacciate risultava irrazionale ed era anche sconsigliato da alcuni medici, i napoletani freddavano il vino con la neve. A fine secolo, il militare e poeta napoletano Giovan Battista Del Tufo decantò questa assai peculiarità partenopea:

“[…] qui bisogna affirmare che le cose di Napoli son rare. Bever freddo con la neve da Napolitani. […]”

Il filosofo domenicano Tommaso Campanella, nei dialoghi de La città del Sole del 1602, scrisse:

“[…] Non bevono annevato, come i Napoletani. […]”

Lo scrittore francese Jean Jaques Bouchard, viaggiatore in visita a Napoli nel 1633, nel suo Journal de voyage dans le Royame de Naples, descrivendo le abitudini dei napoletani, scrisse:

“[…] gli è indispensabile procurarsi la neve anche nel cuore dell’inverno, e si priverebbero del pane piuttosto che di essa, che è il primo dei segni e differenze essenziali tra il pasto cavalleresco e quello plebeo. […] “

Il principale serbatoio di Napoli erano il Faito e il Sant’Angelo a Tre Pizzi, le cime più alte della catena dei Monti Lattari, dove la neve veniva stipata nelle cosiddette “neviere”, fosse artificiali di deposito ben ombreggiate dalle folte faggete (da cui il monte Faito prende il nome) e appositamente isolate con terreno, paglia, foglie e frasche utili al ghiacciamento. La neve ghiacciata veniva poi trasportata nottetempo a valle, verso Castellammare di Stabia ma anche Vico Equense, per essere inviata via mare in analoghi magazzini di spaccio di Napoli e della penisola sorrentina.

Grazie a questa industria naturale del ghiaccio, i napoletani non solo poterono conservare cibi e freddare bevande d’estate ma divennero veri maestri dell’arte del sorbetto. Il francese Enrico II, duca di Guisa, nelle sue memorie del 1647, al tempo della rivolta di Masaniello, riportò che in Napoli i sorbetti di ogni genere erano deliziosi e migliori che in qualsiasi altro paese. E a fine secolo, il cuoco marchigiano Antonio Latini, operante per lungo tempo a Napoli, scrisse:

“[…] qui in Napoli pare ch’ogn’uno nasca, col genio, e con l’istinto di fabricar Sorbette; […].

Nel Settecento borbonico, con Napoli sempre più affermata capitale culturale d’Europa, l’appalto della neve fu assegnato ai Gesuiti, che avevano l’obbligo di una fornitura capillare a tutta la città. E se nei secoli precedenti i blocchi di ghiaccio venivano condotti dalla cima del Faito a valle impiegando i muli, il sistema di trasferimento fu velocizzato con la realizzazione di un sistema teleferico a funi, descritto da Richard Keppel Craven, uno dei tanti viaggiatori inglesi del Grand Tour in visita a Napoli nel primo Ottocento:

“Un altro promontorio separa Vico da Castellammare, situata sotto la parte più alta della catena montuosa che delimita il golfo di Napoli. […] Questo punto è di fatto il ghiacciaio che rifornisce la capitale di un articolo di indispensabile necessità durante tutto l’anno. […] Il modo con cui è trasportato da queste grandi altezze è tanto semplice quanto singolare e rapido. Diverse funi di gran lunghezza sono tese in direzione inclinata dall’alto verso il basso. I blocchi di neve ghiacciata, accuratamente imballati con foglie secche e fascine di sottobosco, vengono sospesi su queste funi per mezzo di staffe curvate, e il loro stesso peso li spinge a valle con una velocità incredibile. Ad ogni terminale staziona un ragazzo che compie le operazioni di carico e scarico, mentre un altro conduce i blocchi alle imbarcazioni, pronte tutto il giorno per caricarli e trasportarli direttamente a Napoli. Questa operazione dura pochi minuti, mentre una qualsiasi altra modalità di trasporto richiederebbe alcune ore, poiché i sentieri della montagna sono pericolosamente ripidi e ardui.”

Così Napoli capitale fu riconosciuta come la città del sorbetto, tanto amato da Giacomo Leopardi, e poi della sua evoluzione, il gelato. Ma anche città decisamente più sicura di Londra e Parigi, perché il prodotto ghiacciato divenne sempre più accessibile alle classi popolari e dunque, come testimoniarono gli stessi viaggiatori del Gran Tour, i “lazzaroni” bevevano limonata ghiacciata mentre i poveri delle altre grandi e fredde città bevevano gin e cognac.

Con lo sviluppo tecnologico, la fabbricazione del ghiaccio, sempre più facile e domestica, annullò la necessità di procurarsi la neve ghiacciata, mandando nel dimenticatoio la neve ghiacciata per conservare i cibi deperibili e per ristorarsi d’estate nonostante l’assenza di elettricità e processi meccanici di refrigerazione, pagando quel lusso che era consentito da una lavorazione oggi insospettabile ma che ha rappresentato fonte di reddito per le comunità dei Monti Lattari.

Le “naviere” sono ancora lì, nascoste nelle folte faggete del Monte Faito. Non servono più, ma sono censite e sono un richiamo emozionante per chi ama capire la storia e anche l’ingegno di un popolo.

per approfondimenti: Napoli svelata (Magenes, 2022)

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Napoli, la capitale del sorbetto e del gelato

Giacomo Leopardi mangia un gelato a Napoli – tratto dal film “Il giovane favoloso” di Mario Martone

Angelo Forgione  Qualcuno sostiene che il gelato sia nato a Firenze, nel Cinquecento. Eppure i sorbettieri fiorentini, nell’Ottocento, non conquistarono Giacomo Leopardi come quelli napoletani. Il disadattato poeta marchigiano si sentì a suo agio solo seduto a trangugiare avidamente quantità spropositate di specialità ghiacciate di Napoli. Il suo sorbettiere preferito, don Vito Pinto, era all’angolo tra il largo della Carità e la strada di Toledo. Il suo amico Ranieri, in vecchiaia, scrisse che l’arte sorbettiera napoletana era stato il principale motivo per cui non volle allontanarsi da Napoli. Giacomo era davvero avido di sorbetti, spumoni, coviglie e pezzi duri (ghiaccioli ante-litteram) che, insieme alle limonate ghiacciate, rendevano Napoli famosa come la città dei “gelati sorbetti”, e sin dal Seicento. Una città affollatissima in cui si consumavano cibi e bevande ghiacciate in gran quantità, quando non esistevano macchine del ghiaccio e macchinari moderni di refrigerazioni. Ma per Napoli capitale tutto questo non era un problema perché esisteva una vera e propria economia del freddo che stupiva tutti i viaggiatori del Grand Tour già dal Settecento. A quel tempo, i medici sconsigliavano il consumo di bevande fredde, mentre Filippo Baldini, professore di Medicina presso la Regia Università di Napoli e medico di corte, diede alle stampe il trattato De’ Sorbetti, primo libro scientifico in cui furono esaltate le proprietà benefiche di alimenti ghiacciati.

Nel 1840, il viaggiatore tedesco Carlo Augusto Mayer scrisse nel suo diario Neapel und die Neapolitaner:
“(…) in nessun luogo si fanno gelati così eccellenti e a buon mercato come a Napoli. D’estate e d’inverno se ne fanno di tutti i frutti, o più liquidi in bicchieri, o più solidi in pezzi rotondi; oppure – e questo è il trionfo dell’arte – simili a una spuma”.

Il primo moderno trattato di Gelateria, pubblicato nel 1911, è del perugino Giuseppe Enrico Grifoni, artigiano che apprese i segreti del mestiere a Napoli e poi aprì una gelateria a Bologna. Giosuè Carducci lo soprannominò “il napoletano di Bologna”, anche se di napoletano non aveva nulla, a parte l’arte del gelatiere.

Un’altra storia da conoscere tra le tante di una fattivissima città in cui la neve, tra il Seicento e l’Ottocento, era un bene di prima necessità come il pane. Stupiti? Lo sarete completamente scoprendo, se vorrete, come ce la si procurava in uno dei 15 capitoli di Napoli svelata, quello dedicato alla storia del gelato e dalla rinomata gelateria artigianale napoletana.