Monte Faito, il freezer dei napoletani quando non esisteva il freezer

Angelo Forgione Avete mai sentito il detto napoletano “Te piace ‘o vino cu ‘a neve” (“ti piace il vino con la neve”)?
È un’espressione piuttosto antica che fa riferimento al periodo in cui non esisteva la corrente elettrica, e ovviamente neanche i frigoriferi e i congelatori, e allora le famiglie facoltose acquistavano il ghiaccio fatto con la neve. Sì, proprio la neve, vera e propria manna dal cielo per i napoletani, fatta trasportare dalle montagne fino a Napoli e nei centri abitati del Golfo per raffreddare le bevande d’estate e per conservare i cibi. Portare la neve dalle impervie alture sino ai territori urbanizzati, evitando che si sciogliesse, richiedeva tecniche laboriose e un lavoro stancante, che facevano gli abitanti delle comunità montane, ma anche chi la trasportava via mare fino ai depositi cittadini, presso i quali ci si approvvigionava. Proprio per questo motivo l’espressione “Te piace ‘o vino cu ‘a neve” fa riferimento al lusso consentito dai sacrifici altrui e la si rivolge a quelli a cui piacciono le cose facili, quelli che beneficiano della fatica degli altri.
Ma di quale fatica si trattava? Per descriverla, estraggo qualcosa da una ben più ampia narrazione fatta nel capitolo “Ai napoletani piace freddo” di Napoli svelata.

Già nel Cinquecento, quando bere bevande ghiacciate risultava irrazionale ed era anche sconsigliato da alcuni medici, i napoletani freddavano il vino con la neve. A fine secolo, il militare e poeta napoletano Giovan Battista Del Tufo decantò questa assai peculiarità partenopea:

“[…] qui bisogna affirmare che le cose di Napoli son rare. Bever freddo con la neve da Napolitani. […]”

Il filosofo domenicano Tommaso Campanella, nei dialoghi de La città del Sole del 1602, scrisse:

“[…] Non bevono annevato, come i Napoletani. […]”

Lo scrittore francese Jean Jaques Bouchard, viaggiatore in visita a Napoli nel 1633, nel suo Journal de voyage dans le Royame de Naples, descrivendo le abitudini dei napoletani, scrisse:

“[…] gli è indispensabile procurarsi la neve anche nel cuore dell’inverno, e si priverebbero del pane piuttosto che di essa, che è il primo dei segni e differenze essenziali tra il pasto cavalleresco e quello plebeo. […] “

Il principale serbatoio di Napoli erano il Faito e il Sant’Angelo a Tre Pizzi, le cime più alte della catena dei Monti Lattari, dove la neve veniva stipata nelle cosiddette “neviere”, fosse artificiali di deposito ben ombreggiate dalle folte faggete (da cui il monte Faito prende il nome) e appositamente isolate con terreno, paglia, foglie e frasche utili al ghiacciamento. La neve ghiacciata veniva poi trasportata nottetempo a valle, verso Castellammare di Stabia ma anche Vico Equense, per essere inviata via mare in analoghi magazzini di spaccio di Napoli e della penisola sorrentina.

Grazie a questa industria naturale del ghiaccio, i napoletani non solo poterono conservare cibi e freddare bevande d’estate ma divennero veri maestri dell’arte del sorbetto. Il francese Enrico II, duca di Guisa, nelle sue memorie del 1647, al tempo della rivolta di Masaniello, riportò che in Napoli i sorbetti di ogni genere erano deliziosi e migliori che in qualsiasi altro paese. E a fine secolo, il cuoco marchigiano Antonio Latini, operante per lungo tempo a Napoli, scrisse:

“[…] qui in Napoli pare ch’ogn’uno nasca, col genio, e con l’istinto di fabricar Sorbette; […].

Nel Settecento borbonico, con Napoli sempre più affermata capitale culturale d’Europa, l’appalto della neve fu assegnato ai Gesuiti, che avevano l’obbligo di una fornitura capillare a tutta la città. E se nei secoli precedenti i blocchi di ghiaccio venivano condotti dalla cima del Faito a valle impiegando i muli, il sistema di trasferimento fu velocizzato con la realizzazione di un sistema teleferico a funi, descritto da Richard Keppel Craven, uno dei tanti viaggiatori inglesi del Grand Tour in visita a Napoli nel primo Ottocento:

“Un altro promontorio separa Vico da Castellammare, situata sotto la parte più alta della catena montuosa che delimita il golfo di Napoli. […] Questo punto è di fatto il ghiacciaio che rifornisce la capitale di un articolo di indispensabile necessità durante tutto l’anno. […] Il modo con cui è trasportato da queste grandi altezze è tanto semplice quanto singolare e rapido. Diverse funi di gran lunghezza sono tese in direzione inclinata dall’alto verso il basso. I blocchi di neve ghiacciata, accuratamente imballati con foglie secche e fascine di sottobosco, vengono sospesi su queste funi per mezzo di staffe curvate, e il loro stesso peso li spinge a valle con una velocità incredibile. Ad ogni terminale staziona un ragazzo che compie le operazioni di carico e scarico, mentre un altro conduce i blocchi alle imbarcazioni, pronte tutto il giorno per caricarli e trasportarli direttamente a Napoli. Questa operazione dura pochi minuti, mentre una qualsiasi altra modalità di trasporto richiederebbe alcune ore, poiché i sentieri della montagna sono pericolosamente ripidi e ardui.”

Così Napoli capitale fu riconosciuta come la città del sorbetto, tanto amato da Giacomo Leopardi, e poi della sua evoluzione, il gelato. Ma anche città decisamente più sicura di Londra e Parigi, perché il prodotto ghiacciato divenne sempre più accessibile alle classi popolari e dunque, come testimoniarono gli stessi viaggiatori del Gran Tour, i “lazzaroni” bevevano limonata ghiacciata mentre i poveri delle altre grandi e fredde città bevevano gin e cognac.

Con lo sviluppo tecnologico, la fabbricazione del ghiaccio, sempre più facile e domestica, annullò la necessità di procurarsi la neve ghiacciata, mandando nel dimenticatoio la neve ghiacciata per conservare i cibi deperibili e per ristorarsi d’estate nonostante l’assenza di elettricità e processi meccanici di refrigerazione, pagando quel lusso che era consentito da una lavorazione oggi insospettabile ma che ha rappresentato fonte di reddito per le comunità dei Monti Lattari.

Le “naviere” sono ancora lì, nascoste nelle folte faggete del Monte Faito. Non servono più, ma sono censite e sono un richiamo emozionante per chi ama capire la storia e anche l’ingegno di un popolo.

per approfondimenti: Napoli svelata (Magenes, 2022)

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Il rinomato sorbetto di Napoli, vero antenato del gelato

Angelo Forgione – Siamo certi di sapere proprio tutto di un simbolo del made in Italy nel mondo qual è il gelato? La genesi di questo prodotto è davvero lunga, complessa e incerta, e attraversa la storia e la geografia, partendo dagli antichi babilonesi e dagli egiziani, che consumavano già ghiaccio tritato o neve con la frutta. Furono gli arabi, nel IX secolo, a portare in Sicilia lo Sherbeth (bevanda fresca), un infuso a base di acqua, zucchero, erbe e spezie che veniva ghiacciato con l’aggiunta di sale. La variante siciliana, italianizzata in “Sorbetto”, prevedeva l’uso della neve dell’Etna e delle Madonie.
Nonostante nel Cinquecento sia stato l’artista fiorentino Bernardo Buontalenti a introdurre l’uso dell’uovo per l’invenzione della “crema fiorentina”, anche detta “gelato buontalenti”, il sorbetto divenne una vera maestria dei napoletani, tant’è che il marchigiano Antonio Latini, scalco (capocuoco) al servizio del reggente spagnolo del viceregno di Napoli Esteban Carillo Salsedo, attribuì proprio ai napoletani un’abilità speciale nella preparazione dei Sorbetti: “(…) qui in Napoli pare ch’ ogn’uno nasca col genio e con l’istinto di fabricar Sorbette”. Lo scrisse ne Lo Scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, pubblicato tra il 1692 e il 1694, a pochi anni dalla sua morte; un trattato di cucina in cui racchiuse tutta la sua esperienza sul campo, tra Roma, le Marche e Napoli. Particolare attenzione fu posta alla cucina napoletana, compresi i sorbetti, tra cui la “Sorbetta al latte”: “una caraffa e mezza di latte, mezza d’acqua, tre libbre di zucchero, once sei di cedronata o cocuzza trita”. È un sorbetto cui si aggiungeva il latte, ovvero l’antenato del gelato. Il palermitano Francesco Procopio aveva già aperto a Parigi il primo caffè-sorbetteria della storia, il tuttora famosissimo caffè Procope.
Nel 1775, il medico Filippo Baldini pubblicò a Napoli il “De’ Sorbetti”, primo libro completamente dedicato al particolare prodotto, classificato in tre tipi: subacido (alla frutta), aromatico (alla cannella, al cioccolato, al caffè) e lattiginoso. Iniziò così a diffondersi la distinzione tra sorbetto e gelato, il primo a base d’acqua, il secondo a base di latte. La città partenopea, tra le grandi capitali europee, era ormai rinomata per la qualità e la quantità di gelati e sorbetti, di cui era notoriamente ghiotto Giacomo Leopardi, e i Borbone presero a concedere titoli nobiliari anche a maestri artigiani di queste specialità.
La storia moderna del gelato la scrive Filippo Lenzi, alla fine del Settecento, aprendo la prima gelateria in terra americana. Il gelato ebbe un tale successo negli States che fu l’americano William Le Young a brevettare, a metà dell’Ottocento, la sorbettiera a manovella, precedentemente escogitata da Nancy Johnson. Si trattava di un meccanismo grazie al quale la miscela, mantenuta in continuo movimento, si raffreddava in maniera uniforme dando un composto finale cremoso invece che granuloso.
Nel primo Novecento, il bellunese Italo Marchioni, nato a Vodo di Cadore ed emigrato negli Stati Uniti, registrò il brevetto della tazza di cialda, con tanto di manico, adatta a contenere il gelato, per sostituire i bicchieri di vetro. Capitava frequentemente che i medesimi non venissero restituiti, o che si rompessero accidentalmente scivolando dalle mani dei clienti. Dal bicchiere al cono, il passo fu breve. Solo che il gelato, sciogliendosi, spugnava la cialda. E rieccoci a Napoli, nel 1960, quando il gelataio napoletano Spica ebbe la geniale idea di “impermeabilizzare” artigianalmente la superficie interna del cono rivestendola con uno strato di olio, zucchero e cioccolato. Il brevetto di Spica lo acquistò nel 1974 il colosso industriale anglo-olandese Unilever. Nacque così il “Cornetto”, re dei gelati industriali.