––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione — Con il restauro interno in corso al Real Teatro di San Carlo di Napoli spuntano i colori originali (azzurro e argento brunito) della sala di Antonio Niccolini, non settecentesca ma inaugurata nel 1817, dopo l’incendio devastante dell’anno precedente e completamente diversa da quella del 1737, eccetto proprio i colori. Azzurro e argento brunito con riporti in oro sostituiti e coperti con rosso e solo oro per volontà di Ferdinando II tra il 1844 e il 1854, prima dell’avvento dei Savoia, come spiego al Corriere del Mezzogiorno (articolo), che aveva ipotizzato un’operazione d’epoca postunitaria. I colori rinvenuti resteranno visibili almeno sul palco reale. Prima del discusso restauro del 2008, il commissario straordinario Salvatore Natasi, l’architetto Elisabetta Fabbri e l’ex soprintendente speciale Nicola Spinosa considerarono l’opportunità di riportare tutta la sala ai colori originari, ma poi decisero di non procedere. Spuntati anche alcuni gigli borbonici sull’arco del boccascena, e il Movimento Neoborbonico chiede di tenerli in vista.
Storia e simulazione dei colori originali ►clicca qui
Per approfondimenti sulla storia e le trasformazioni del San Carlo: Napoli Capitale Morale (A. Forgione, Magenes, 2017)
Angelo Forgione – Casamicciola funestata nei secoli dai continui fenomeni dinamici (terremoti e frane). Lo sapevano gli esperti al servizio di Carlo di Borbone, nella prima metà del Settecento, che consigliarono al Re di proibire le costruzioni in quella precisa zona di Ischia.
Non sono riuscito a individuare il decreto carolino, e non ci riuscirono neanche i membri della Commissione parlamentare che, immediatamente dopo il terremoto del 28 luglio 1883, si occuparono dei provvedimenti a favore dei danneggiati dal disastroso sisma. Ma in quegli atti parlamentari riportarono che la notizia proveniva dal credibilissimo professorLuigi Palmieri, beneventano di Faicchio, uno dei maggiori scienziati italiani dell’Ottocento, pioniere della protezione civile, direttore dell’Osservatorio Vesuviano dal 1856 e inventore in quell’anno del sismografo elettromagnetico per la rilevazione delle vibrazioni indotte dalla dinamica interna del Vesuvio, strumento adottato nel 1873 dall’Ufficio Meteorologico Centrale giapponese di Tokyo, a testimonianza delle profonde radici napoletane della vulcanologia e della sismologia. A Palmieri è intitolato un cratere sulla Luna e l’Osservatorio Sismico di Pesco Sannita che dal 1984 opera nel settore del rilevamento sismico dell’Appennino molisano, sannita ed irpino.
Palmieri seguì il terremoto ischitano del 1883 e le distruzioni che resero Casamicciola tristemente nota, introducendola nel lessico comune della Nazione. “È successa una casamicciola”, si dice, per quel violento sisma dopo il quale lo scienziato della Valle Telesina fu fondamentale per indirizzare la Commissione parlamentare ai provvedimenti da attuare a ridosso del monte Epomeo. Negli atti si legge la necessità “che alcune zone dell’isola sieno abbandonate e che certi metodi di costruzione sieno proibiti, come pure il costruire con pericolo sovrastante di frana o su ciglio insostenuto e pronto a scoscendere”. E laddove si fosse consentito costruire, lo si sarebbe dovuto fare con il “sistema baraccato”, introdotto un secolo prima, nel 1784, da Ferdinando di Borbone, figlio di Carlo, alla luce delle conseguenze del terremoto del Febbraio 1783 di Messina e Reggio Calabria. “Sistema baraccato” che il CNR, nel 2013, ha indicato come metodo antisismico da recuperare, quando io ne avevo già scritto in Made in Naples.
Dopo il terremoto, a Casamicciola si ricostruì, diversamente da come aveva “suggerito” Carlo di Borbone attraverso Luigi Palmieri, ma almeno con il “sistema braccato”. Alcune di quelle costruzioni, quelle ancora esistenti, sono state le uniche a restare in piedi dopo il terremoto del 2017.
Sul monte Epomeo furono realizzate delle opere ingegneristiche di prevenzione, a partire dai muretti a secco sulla falsa riga delle “parracine ischitane” d’antichissima epoca greca (Ischia fu la primissima terra di approdo dei coloni greci), per realizzare terrazzamenti sulla parete montuosa e scalettarla, in modo da rallentare la discesa di acque e detriti.
E ancora non abbiamo capito che Casamicciola è in una posizione talmente critica da renderla sostanzialmente inabitabile, come disse Carlo di Borbone.
Ma il problema è diffuso. L’Italia di oggi, il paese europeo più soggetto a frane e terremoti, continua a costruire selvaggiamente e male, spesso eludendo persino le norme antisismiche dove non si dovrebbe e dove non esiste neanche più quel governo del territorio per evitare frane ed esondazioni.
Quello che è successo a Casamicciola e altrove non è più solo colpa della natura imprevedibile ma anche dell’uomo, dell’antropizzazione selvaggia e del dissesto idrogeogico, sempre più insostenibili con il cambiamento climatico, che è anch’esso causato dall’uomo.
Eravamo molto più al sicuro nell’Ottocento, anche se i vocabolari, alla voce “borbonico”, traducono in “retrogrado”. Macché!
Per approfondimenti: Made in Naples (Magenes, 2013) – capitolo “Il governo del territorio”.
Angelo Forgione – Napoli è stata, nel Settecento, la città che ha dato impulso all’arte sorbettiera, di cui i napoletani divennero veri maestri. Il medico napoletano Filippo Baldini, nel 1775, pubblicò il trattato De’ sorbetti, nel quale, per primo, sostenne la tesi della salubrità dei cibi gelati contro tutti i medici che, invece, a quel tempo, li sconsigliavano. La rinomanza dei sorbetti e dei sorbetti gelati di Napoli, cioè dei gelati per come li conosciamo oggi, era testimoniata da un numero enorme di caffettieri e gelatieri che, come le monache nei conventi, affinavano i procedimenti di preparazione per ottenere un prodotto superiore.
Anche se non esistevano macchine del ghiaccio e macchinari di refrigerazione, per Napoli capitale tutto questo non era un problema perché esisteva una vera e propria economia del freddo che, portando in città la neve del Faito e di altre cime, stupiva tutti i viaggiatori del Grand Tour già dal Settecento.
Stampi settecenteschi, ora oggetti d’antiquariato da collezione, ma anche illustrazioni nei primi libri di pasticceria, rivelano che in quel periodo proprio le monache erano rinomate specialiste nella realizzazione dei pezzi duri, lavorazioni a forma di medaglione ma anche con fantasiose sembianze di frutta, di animali, di cibi vari e di ogni cosa, dipinti e decorati una volta estratti dagli stampi per farne creazioni talmente realistiche che i commensali potevano essere tratti nell’inganno di mangiare una pesca per poi scoprire che si trattava di un pezzo gelato al gusto di arancia. Insomma, una produzione artigianale che anticipava di un paio di secoli quella industriale. Ce ne dà testimonianza il viaggiatore britannico John Moore, autore di A view of society and manners in Italy, con una lettera scritta da Napoli nel 1778 in cui raccontò di aver presenziato alla visita di Ferdinando e Maria Carolina di Borbone alle suore del convento di san Gregorio Armeno:
(traduzione) "In un convento la compagnia fu sorpresa, condotta in un grande salone, di trovarvi una tavola preparata con un abbondantissimo pasto freddo, fatto di diversi arrosti, prosciutti, pollame, cacciagione, pesce e vari altri piatti. Sembrò piuttosto inopportuno l’aver preparato un simile banchetto immediatamente dopo pranzo, poiché quelle visite reali si facevano generalmente di pomeriggio. La Badessa pregò le Loro Maestà di sedersi, mentre le suore rimasero in piedi dietro per servire gli ospiti reali. La Regina scelse una fetta di tacchino freddo, che una volta tagliata, era invece un bel pezzo di gelato al limone, con la forma e l’apparenza di un tacchino arrosto. […] La giovialità e il buon umore del Re, l’affabile e attraente contegno delle sorelle reali e la soddisfazione che illuminava il volto grassottello della Madre Badessa, dettero alla scena un’aria di giocondità […]."
Giacomo Leopardi, a Napoli, divenne avido di sorbetti, spumoni, coviglie e pezzi duri locali. Furono proprio i maestri gelatieri di Napoli, lungo tutto l’Ottocento, a diffondere l’arte del gelato in Italia. Domenico Pepino, nel 1884, se ne andò a Torino e apri la sua “Vera gelateria artigiana napoletana” nella diffidente città piemontese, la prima del posto e ancora operante. Il Trattato di Gelateria, primo moderno sull’argomento, fu pubblicato nel 1911 dal perugino Giuseppe Enrico Grifoni, gelataio che aveva appeso i segreti del mestiere a Napoli e aperto una fortunata gelateria a Bologna. Giosuè Carducci lo soprannominò “il napoletano di Bologna”, perché di napoletano aveva solo la capacità di fare gelati.
Stupiti? Lo sarete completamente leggendo le tante storie di Napoli svelata (A. Forgione – Magenes, 2022).
Il 10 maggio del 1734, alle ore 15.30 circa, Carlo di Borbone giunse a Napoli da Aversa. La città tornò ad essere capitale di un regno autonomo. Il nuovo re smontò da cavallo nella zona di Portacapuana, dove si accomodò su un baldacchino per essere benedetto al canto del Te Deum da alcuni frati. Poi pranzò, si riposò e alle 19 fu accompagnato al Duomo per la benedizione del cardinale Pignatelli ai piedi di San Gennaro, al quale fece omaggio di una preziosa croce di rubini. Compiuta la cerimonia, il sovrano raggiunse a cavallo il suo nuovo alloggio a Palazzo Reale. NAPOLI CAPITALE
Il 10 maggio del 1987, alle ore 17:47, fu fischiata la fine della partita di calcio Napoli-Fiorentina. Il Napoli divenne Campione d’Italia, ed iniziò la più pazza festa per uno scudetto nella storia del calcio italiano. La città divenne un solo mare azzurro. La maglia azzurra numero 10 si fissò per sempre nel 10 maggio quale numero predestinato a guidare alla vittoria non solo una squadra ma un intero popolo, guidato da suo re, simbolo di una festa che durò per giorni nelle strade della città. NAPOLI CAMPIONE
Il 10 maggio del 2022, alle ore 18.30, a La Feltrinelli di Napoli, presento “Napoli svelata”, il mio nuovo libro, con Maurizio De Giovanni e Domenico Sepe. Quale data migliore? NAPOLI SVELATA
Angelo Forgione– È di Ippolito Cavalcanti, napoletano di Afragola, il primato divulgativo della ricetta della gloriosa Parmigiana di melanzane, altra gloria della cucina napoletana nonostante sulle sue origini vi sia ancora molta confusione. Fu nell’appendice dedicata alla cucina casareccia napoletana della prima edizione della Cucina teorico-pratica, quella del 1837, che spuntò la preparazione delle “Molignane a la Parmisciana”, tradotta in italiano (“Milinsane alla parmigiana”) sette anni dopo nella quarta edizione del trattato, quella del 1844.
Il formaggio Parmigiano, molto usato nei territori borbonici nei dintorni di Napoli, era già ampiamente contemplato nelle ricette napoletane, e a fine Seicento figurava anche tragli ingredienti della Pastiera. Lo stesso Cavalcanti, nella parte in lingua italiana della sua pubblicazione, fece specifico riferimento al “formaggio pareggiano” per preparare diversi ortaggi “alla Parmeggiana”, un modo di cucinare che faceva riferimento ai territori del Ducato di Parma e Piacenza per le modalità di approntamento: ortaggi affettati, infarinati, fritti, accomodati con Parmigiano e poi cotti. Da questa commistione, nelle cucine di Napoli, nella prima metà dell’Ottocento, nacque la divina Parmigiana di melanzane, preceduta da quella di zucchine.
Del resto, Carlo di Borbone, figlio della parmigiana Elisabetta Farnese, era stato Duca di Parma e Piacenza. Esattamente da quel territorio si era slanciato alla conquista del trono di Napoli. Al Sud, volle continuare ad avere sulla sua tavola il burro e il formaggio Parmigiano, e fece quindi arrivare dai territori di provenienza alcuni esperti casari per avviare la produzione in loco di un Parmigiano “casertano”, tra i primi esempi di imitazione alimentare, se non il primo, anche se a quell’epoca non esisteva la denominazione di origine protetta e il Disciplinare di produzione.
Da quel periodo in poi la produzione di Parmigiano calò sensibilmente in Emilia, a causa di due fattori: le continue guerre nei ducati, con conseguenti requisizioni militari delle campagne, e l’espulsione nel 1768 dal Ducato di Parma dei Gesuiti, che detenevano la produzione del particolare formaggio. Poi, a inizio Ottocento, con l’irruzione del regime napoleonico e le ulteriori requisizioni, la crisi del Parmigiano si acuì drammaticamente. Non se ne trovava quasi più, ma ciò non ostacolò Ferdinando di Borbone, vero stimolatore di un’epocale rivoluzione agricola attorno alla capitale Napoli, nel Casertano e nel Salernitano, da cui originarono, tra le tante eccellenze, la produzione e la conservazione della mozzarella di bufala, quella della pasta di grano duro e la coltivazione del pomodoro lungo. Mentre le popolazioni delle zone settentrionali d’Italia pagavano duramente lo squilibrio nutritivo dato da un massiccio consumo di polenta di sorgo o di mais, priva di vitamine e aminoacidi, e facevano i conti con la terribile pellagra, l’offerta nutritiva napoletana andava ampliandosi per impulso del Re, impegnato anche più del padre a rendere Napoli territorio non solo di consumo ma anche di produzione, attraverso la valorizzazione produttiva di una rete di aziende agricole che andavano creando la matrice per quelle che oggi sono considerate a pieno titolo eccellenze alimentari del territorio campano e anche italiano.
L’irreperibilità del formaggio emiliano, così utile alla cucina borbonica, non fu un insormontabile problema per i cuochi napoletani, dacché Ferdinando implementò la produzione del Parmigiano “casertano” presso la Real Tenuta di Carditello.
Jakob Philipp Hackert, il pittore tedesco convocato nel 1786 per affrescare i siti reali, di Carditello scrisse: “(…) c’è anche un allevamento, in parte per le mucche che allora erano più di duecento. Nella masseria si faceva buon burro e formaggio parmigiano. (…)”
In un avviso pubblicato sul Giornale del Regno delle Due Sicilie del 10 gennaio 1826 si informava che dalle vacche svizzere del Real Sito di Carditello venivano fuori sufficienti quantità di latte “pel formaggio ad uso parmeggiano” (e per il butiro/burro).
La ripresa produttiva del secondo Ottocento, il supporto delle nuove tecnologie di inizio Novecento e lo slancio del secondo dopoguerra hanno finito per lanciare il Parmigiano su scala internazionale. Oggi, per essere DOP, deve essere prodotto nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova, alla destra del fiume Po. Se lo si producesse nel Casertano, come al tempo dei Borbone, sarebbe un Parmigiano falsificato. Eppure, anche grazie alla disponibilità di quel formaggio taroccato, nelle cucine di Napoli, è nata quella meraviglia che è la Parmigiana di melanzane.
Recentemente il professor Alberto Grandi, docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, è salito alla ribalta per alcune sue dichiarazioni eclatanti sull’origine dei cibi italiani più famosi, sostenendo tra l’altro che il Parmigiano, sparito in un buco di 150 anni tra il 1700 e il 1850 (per i motivi che ho elencato precedentemente, ndr), è riapparso alla fine del XIX secolo nel Wisconsin, nominato Parmesan. E invece, nelle sue ricerche, il Parmigiano scomparso doveva trovarlo dalle parti di Napoli, dove non è mai mancato, piuttosto che concentrarsi sull’emigrazione degli italiani in America di fine secolo.
Angelo Forgione– “Napoli è la dea della bellezza. La voglia di cantare dei napoletani deriva dalla loro natura di artisti. Perché disprezzare i mandolini che venivano suonati anche da Cimarosa e Vivaldi? Il Conservatorio S. Pietro a Maiella contiene un enorme patrimonio musicale, è un forziere inesauribile dove l’incuria e l’ignoranza hanno fatto marcire cose inestimabili. Qualsiasi paese al mondo avrebbe attinto a questo patrimonio per creare una stagione speciale d’arte. Napoli dovrebbe diventare, almeno per quattro o cinque mesi all’anno, Turistlandia, un posto cioè dove tutti potrebbero arrivare guidati dalla grande vela della musica, dell’arte e della bellezza.”
Così si espress, negli anni Novanta, la romana Lina Wertmüller. Una decina d’anni dopo, nel 2008, in piena crisi dei rifiuti a Napoli, si scagliò contro le tv che “amplificavano” quel disastro. Non riteneva giusto oscurare, nonostante i problemi, quanto di meraviglioso s’era prodotto e si produceva a Napoli, città che definì “una perla antica”.
Si chiude il suo sipario. Si chiudono i suoi occhi dietro a quegli iconici occhiali bianchi, espressione di un’anticonformismo e di una diversità che riscontrava nel popolo napoletano, lei che si vantava di essere stata espulsa da ben undici scuole in gioventù. Ed era proprio la Napoli diversa e anticonformista, anche impertinente, che le piaceva raccontare, senza alcun timore della critica per certi azzardi. Non ne risparmiava neanche quando poteva accennare alla storia della Città, del Sud, dell’Italia. Ardimentosa nel 1981, dico 1981, a raccontare la verità nel suo docufilmÈ una domenica sera di novembre, realizzato per la Rai in occasione del terremoto irpino dell’anno precedente. E quando, sul finire degli anni Novanta, girò Ferdinando e Carolina si rese conto di persona della spoliazione di Napoli, di come porcellane, specchi e mobili settecenteschi delle regge borboniche fossero stati trasferiti nelle residenze sabaude, sostituiti da un brutto riarredo tardo-ottocentesco. Lo denunciò qualche anno più tardi alla trasmissione Passepartout (Rai) di Philippe Daverio: «Per somma beffa, dovendo ricostruire le ambientazioni napoletane originali del Settecento, ritrovammo gli arredi a Torino, nelle regge dei Savoia».
Angelo Forgione– Era il 7 ottobre del 1759, Domenica, ed enorme fu la commozione dei cittadini napoletani, accorsi a salutare il re che aveva saputo dare a Napoli molto di più che un governo. Carlo di Borbone, alle 13 in punto, salpava dal porto di Napoli per navigare verso Barcellona, da dove avrebbe raggiunto Madrid per diventare Carlo III di Spagna. Amava così tanto Napoli che se fosse dipeso dalla sua volontà non l’avrebbe mai salutata. Ai napoletani lasciò una politica sociale ed economica in grande crescita, palazzi e teatri unici, delle inestimabili opere d’arte, a partire dalla parte emiliana della Collezione Farnese, e una nuova linfa, quella archeologica, che avrebbe permesso alla città di poter vivere per secoli di quelle scoperte che ancora oggi richiamano il mondo intero. Prima di abbandonare Napoli volle visitare per l’ultima volta tutti i siti reali e le principali realizzazioni da lui promosse. Al Museo di Portici, dove erano raccolte le antichità rinvenute negli scavi archeologici, si sfilò un anello ritrovato personalmente a Pompei fatto con un cammeo rappresentante una maschera comica barbuta. Da qual momento lo aveva sempre portato al dito, ma in procinto di partire lo ripose tra i cammei e gli anelli del museo e disse: «Appartiene a Napoli. È patrimonio dello Stato». In verità a Madrid portò con sè architetti, funzionari e vassalli napoletani fidati da affiancare agli spagnoli, e pare anche un po’ di sangue di san Gennaro, di cui era devotissimo. Carlo non tornò mai più all’ombra del Vesuvio ma trascorse il resto della sua vita con la nostalgia della città che davvero amò di più.
Anello di Carlo di Borbone (MANN) / Dipinto di Antonio Joli (Prado)
Angelo Forgione– Il discusso Green Pass, senza girarci troppo intorno, è il nuovo motore per convincere al trattamento vaccinico gli incerti che non vogliano essere colpiti da forti limitazioni, cioè il modo per introdurre surrettiziamente un obbligo vaccinale virtuale. È sempre accaduto, nella storia delle vaccinazioni, che si utilizzassero metodi alternativi per spingere le persone a sottoporvisi, partendo dall’Ottocento, in epoca di prime inoculazioni della storia, quelle contro il terribile vaiolo, quando le paure erano ben più diffuse di quanto non lo siano oggi. A quel tempo, il nemico da combattere era la malattia infettiva più feroce di sempre, decisamente più contagiosa e letale del Covid. Prima della scoperta assoluta del metodo di immunizzazione si contavano ogni anno 400.000 morti da virus “variola”, soprattutto fanciulli. Ne moriva uno su tre di quelli contagiati, e solo negli stati italiani ne risultavano colpiti sei giovani su dieci. Chi si salvava, restava comunque sfigurato, e spesso cieco.L’epocale scoperta fu fatta in una campagna inglese, inoculando in un bambino di otto anni del pus estratto dalle pustole sviluppate da una mungitrice di vacca che aveva contratto il vaiolo bovino, più blando di quello umano. Il ragazzino non sviluppò il vaiolo in forma grave, quella umana, ma contrasse l’assai meno pericoloso “variola vaccinae”. Da qui il nome che arriva fino a noi, un aggettivo divenuto sostantivo, con cui si procedette alle prime inoculazioni anche nei territori italiani.
Partendo da un’epidemia scoppiata nel 1801 a Palermo e contrastata da alcuni medici inglesi, il primo programma di vaccinazionedi massa della Penisola italiana fu avviato nel più grande e popoloso stato preunitario, il Regno di Napoli e Sicilia, dove il re, Ferdinando di Borbone, per inoculare bambini, orfanelli e trovatelli, istituì nel 1802 una “Direzione vaccinica” nel Real Albergo dei Poveri di Napoli, con succursali nelle altre province del Sud. E però, in un periodo di arretratezza culturale della popolazione, la paura per quel nuovo metodo che immetteva nel braccio un virus di origine bovina non era inferiore a quella per il vaiolo. Il metodo, per la commistione tra animale e uomo, veniva considerato un insulto alla natura dagli ambienti più conservatori, che diffondevano enormi timori con la previsione di apocalittiche conseguenze per le persone appena inoculate con il vaiolo bovino, dai cui corpi sarebbero dovute spuntare intere teste di mucca o anche solo corna, code e zoccoli. Nulla di tutto questo si verificò, ovviamente, ma per le paure di eventuali conseguenze mortali, per l’avversione di certi ambienti religiosi per i quali infettare volontariamente le persone sane significava andare contro la volontà di Dio e anche per la divisione dei medici sull’opportunità dell’inoculazione, nei primi due decenni dell’Ottocento non si fece vaccinare che il quindici percento della popolazione napoletana.E allora, nonostante le problematiche che l’inoculazione poteva comportare, Ferdinando di Borbone decise di imprimere una svolta, stabilendo cioè nel 1821, per la prima volta nei territori italiani, che la vaccinazione fosse obbligatoria, almeno per i bambini, i più esposti al rischio. La legge prevedeva la misura di interdizione dalla pubblica amministrazione dei cittadini disertori, che così non avrebbero potuto richiede alcunché ai ministeri e avrebbero perso il posto in graduatoria se avevano già chiesto sussidi. Sempre per legge, toccava ai parroci, fin lì restii a diffondere la pratica vaccinica, di imbonire e convincere i fedeli, dovendo “incolpare” i genitori più riluttanti a sottoporre i loro figli alla vaccinazione. C’era poi l’incentivo economico di una sorta di lotteria di Capodanno per ogni distretto, affidata agli stessi parroci, che alla fine di ogni anno dovevano provvedere ad estrarre a sorte un nome ogni cento vaccinati, vincitore di un premio in denaro.Il decreto numero 141 del 6 novembre 1821 riguardante la “inoculazione del vajuolo vaccino” era chiarissimo:
“Abbiamo risoluto di decretare, e decretiamo quanto segue.Art. 1. Tutti coloro i quali han tenuto la riprensibile condotta di trascurare la vaccinazione onde preservare la propria prole, o gl’individui della famiglia ch’essi governano, non potranno godere di alcun tratto della nostra sovrana munificenza, sotto qualunque titolo. Le loro petizioni non avranno corso ne’ nostri reali ministeri, né saranno accolte in qualsivoglia amministrazione, se non sieno accompagnate dal documento, che il petizionario è stato vaccinato, e che convive in famiglia i di cui individui o sono stati vaccinati, o hanno sofferto il vajuolo naturale prima del presente decreto. […] Art. 7. I parrochi e tutti coloro che preseggono alla istruzione morale del popolo, dovranno inculcare l’uso del vajuolo vaccinico, e far rilevare nelle istruzioni catechistiche ed omelie qual grave colpa commettasi da’ genitori che lasciano esposta la vita de’ figliuoli al pericolo del vajuolo umano.”
L’obbligo di vaccinazione produsse evidenti effetti. Un rapporto riguardo l’attività vaccinica nel 1822, riportato nel settimo volume della Biblioteca vaccinica del 1823, diede conto di 103.079 vaccinazioni nelle varie province del Regno, quasi il triplo rispetto alle circa 40.000 degli anni precedenti. L’andamento restò crescente nei decenni a seguire, diversamente dal vicino Stato Pontificio, dove l’obbligo, imposto nel 1822, fu ritirato nel 1824. A quel tempo il metodo di vaccinazione internazionale era quello scoperto in Inghilterra, ovvero la vaccinazione umanizzata, consistente nell’inoculare più persone con la linfa vaccinica recuperata dalle pustole del braccio di un uomo affetto dal vaiolo più blando di origine bovina. Ma a Napoli, nel 1801, era stato inventato un metodo alternativo, la vaccinazione animale, per la quale l’inoculazione avveniva con la linfa vaccinica recuperata direttamente dalle pustole sulle mammelle bovine. L’esistenza di due metodi, anche se uno conosciuto solo a Napoli, equivaleva a dire che esistevano due vaccini diversi, e quello napoletano era non solo più efficace ma anche più sicuro. Con la vaccinazione umanizzata all’inglese le proprietà immunizzanti della linfa vaccinica si affievolivano dopo numerosi passaggi da uomo a uomo, e la pratica provocava facilmente l’insorgenza di sifilide, epatite e tubercolosi. Con la vaccinazione animale alla napoletana, invece, la linfa vaccinica assicurava l’immunizzazione e, non essendo contaminata da germi umani, eliminava il problema della trasmissione di malattie veneree.
Il metodo napoletano della vaccinazione animale fu reso noto alla comunità scientifica internazionale solo nel 1864, durante un convegno in Francia, quando l’Italia venne indicata come la terra della sifilide da vaccino, più di altre nazioni, per via delle epidemie verificatesi al Nord, soprattutto in Piemonte. Lì, come in Lombardia e Liguria, la vaccinazione dei bambini contro il vaiolo era stata imposta per legge solo nel dicembre del 1859, trentotto anni dopo l’obbligo di inoculazione infantile emanato a Napoli. Con quella legge, i bambini non avrebbero potuto frequentare le scuole, misura estesa a tutto il nuovo Regno d’Italia nel 1861.
Dopo il convegno francese, il vaccino animale ideato a Napoli iniziò a trovare applicazione in Francia, in Inghilterra, Germania, Belgio, Russia e poi in altri paesi, soppiantando lentamente il vaccino umanizzato, messo in forte dubbio durante lo stesso convegno. La superiorità della vaccinazione animale rispetto a quella umanizzata, in termini di efficacia e di sicurezza, si fece sempre più evidente, ma il metodo fu adottato con lentezza nello stesso Regno d’Italia, se è vero che alla vigilia della legge del 1888, con cui la vaccinazione antivaiolo fu riorganizzata in modo più organico e resa obbligatoria per tutti i nuovi nati, la vaccinazione animale risultava ancora estesa soprattutto nell’Italia meridionale. Secondo notizie raccolte dalla Reale Società Italiana d’Igiene, ai primi posti per numero di comuni in cui si praticava l’innesto di linfa vaccinica ricavata dai bovini vi erano Calabria, Campania e Puglie, in proporzione pressoché doppia rispetto a Lombardia e Veneto e quadrupla rispetto ai fanalini di coda Piemonte e Sardegna.La vaccinazione umanizzata fu definitivamente abbandonata a inizio Novecento per procedere esclusivamente con la vaccinazione sicura ed efficace, quella animale made in Naples, con cui l’umanità si avviò alla trionfale vittoria contro il vaiolo. L’aggiunta di glicerina, introdotta negli anni Cinquanta per diminuire ulteriormente la carica batterica, unitamente ai progressi della microscopia e della metodologia di conservazione degli antidoti, contribuì sostanzialmente alla campagna avviata nel 1966 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’eradicazione definitiva della malattia, ufficialmente decretata nel 1980, a tre anni dall’ultimo caso diagnosticato in Somalia. Un anno più tardi, l’Italia revocò l’obbligo di vaccinazione contro il non più terrificante vaiolo, ormai sconfitto. Un risultato straordinario se si considera che si trattava, e si tratta tuttora, della più diffusa e devastante tra le malattie dell’uomo, capace di uccidere e far soffrire miliardi di persone, e attualmente l’unica debellata. Un risultato reso possibile dal prezioso contributo della medicina napoletana, modello di un’attenta politica di vaccinazione nell’Europa dell’Ottocento.Scommetto che non ne avevate mai sentito parlare, vero?
Quanto evidenziato è solo la sintesi di uno degli argomenti del mio prossimo libro. Leggerete, se vorrete.
Angelo Forgione– Ancora oggi Ferdinando di Borbone viene definito “il Re lazzarone” e descritto come un rozzo sovrano. Così la tradizione patriottica ce l’ha presentato, perché colpevole di essere profondamente napoletano e di essere capitato sul trono nell’epoca dei Lumi e delle rivoluzioni. E invece, pur mancandogli l’approfondimento dello studio, non gli fece affatto difetto l’intuito per ingrandire la dimensione culturale di Napoli, portandovi la parte marmorea della Collezione Farnese da Roma, rendendo pubbliche tutte le raccolte artistiche private di famiglia, istituendo il primo museo dell’Europa continentale e stimolando la crescita artistica di Napoli. Gli incoraggiamenti all’arte concessi dal “Re lazzarone” furono tanti e incontrarono convinti elogi nei vari territori italiani, tra cui quello del letterato lombardo Carlo Castone della Torre di Rezzonico, che in una corrispondenza di fine Settecento commentò la realizzazione della scultura “Adone e Venere” di Canova per il marchese napoletano Francesco Berio, per la quale Ferdinando concesse l’esenzione del dazio doganale per l’importazione dell’opera dallo Stato Pontificio, e riconobbe alla capitale borbonica un insuperabile patrimonio classico, accresciuto negli ultimi anni:
“[…] non vi sarà discaro […] il sapere in qual pregio tengasi dall’illuminato governo un’opera sì bella, e quali facilità si concedano, e laudi, ed incoraggiamento a facoltosi personaggi, che con illustri monumenti cospirano a volgere quella deliziosissima capitale in un’Atene novella, avvegnacchè per quelli dell’antichità possa di già entrare in contesa coll’istessa Roma.”
Canova scolpì lo stesso Ferdinando in un’enorme statua per accogliere i visitatori del Museo borbonico, e lo rappresentò proprio nelle vesti di Minerva, protettrice delle arti con l’elmo della saggezza in capo, allegoria in onore di un sovrano che, raggruppando le collezioni di Antichità, aveva lanciato l’immagine neoclassica di Napoli, veicolando il messaggio borbonico di protezione delle arti e della tutela dell’antico in una cornice, quale quella del prestigioso museo, che rappresentava il contributo decisivo di Napoli e dei Borbone, Carlo e Ferdinando, per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. L’uno stimolò l’archeologia e l’altro la raccolta artistica, assicurando gran prestigio internazionale alla Città. Al padre, ben più magnificato del figlio, il merito enorme dei musei a cielo aperto, le città antiche riportate alla luce. Al figlio, quello di aver compiuto l’atto più colto nell’Europa di fine Settecento con la volontà di assegnare ai napoletani le collezioni di famiglia e di creare un museo che è ancora oggi il massimo riferimento culturale dell’antica capitale, l’esposizione di arte classica più bella e importante del mondo. E cosa fecero i veri zotici, quelli del regno dei Savoia, quando conquistarono Napoli? Rimossero la colossale scultura dalla nicchia che la ospitava sullo scalone del Museo e la nascosero in un ambiente secondario, facendo uno sgarbo enorme anche alla memoria di Canova. Sulle pareti della scalinata fecero apporre delle epigrafi, alcune proprio contro colui che aveva voluto il museo stesso e altre di esaltazione di Giuseppe Bonaparte, Murat, Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Il ritorno della preziosa statua al suo posto è avvenuto solo nel 1997, per volontà di un impavido sovrintendente ai beni archeologici, Stefano De Caro, deciso a rendere giustizia tanto all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, che a Napoli scoprì la devozione per l’Antico e così divenne il più grande scultore neoclassico, quanto all’artefice iniziale del più grande e più importante contenitore di arte classica d’Occidente. E lo chiamano ancore “lazzarone”.
Angelo Forgione – Non sono certo una novità le parole anti-risorgimentali di Aurelio De Laurentiis pronunciate al Passepartout Festival 2021 di Asti, anzi, e sarebbe banale sottolinearle ancora se non fosse che certe chiacchiere, stavolta, sono state fatte ad Asti, davanti ad una platea piemontese. Beppe Rovera, redattore cuneese della Rai TgR Piemonte, ha snocciolato le parole del filosofo e politico milaneseGiuseppe Ferrari, grande conoscitore della cultura umanistica di Napoli, di cui ho scritto in Napoli Capitale Morale. Parole pronunciate in una seduta del parlamento del Regno di Sardegna l’8 ottobre 1860, due settimane prima della falsa consultazione plebiscitaria per l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, durante la quale il deputato lombardo si espresse contro la colonizzazione della città più importante e popolosa d’Italia, rimproverando Cavour di perseguire un piano opportunistico e per niente democratico. Il milanese Giuseppe Ferrari, da solo, denunciava gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi e si batteva politicamente per Napoli, città in cui lui era stato con gran curiosità. Non c’erano mai stati i torinesi Cavour e Massimo D’Azeglio, quest’ultimo governatore della provincia di Milano, che nove giorni dopo quella discussione parlamentare scrisse: “la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”.
Napoli Capitale Morale si apre appunto con un passaggio dell’intervento di Giuseppe Ferrari, filosofo e deputato milanese, al Parlamento di Torino durante la discussione sull’annessione delle province meridionali al Piemonte, a due settimane dai plebisciti dell’ottobre 1860:
“Ho visto una città colossale, ricca, potente […]. Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nel agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle Nazioni.”
Ferrari, estraneo a consorterie e a gruppi politici, di ritorno in Italia dopo un ventennio trascorso in Francia, sosteneva una confederazione degli stati italiani ed era contrario all’annessione al Piemonte delle province meridionali. L’unico parlamentare che vedeva l’Italia unita alla maniera giusta. Un idealista destinato ad essere isolato. Un milanese che studiò la cultura di Napoli, e visitò la città, cosa che non fece mai Cavour, e che Vittorio Emanuele II fece solo per andarsela a prendere. Ecco alcuni passaggi interessanti del lungo discorso del milanese.
“[…] Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che sia data a voi, che si dia a Torino. Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico lo vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalle volontà individuali, il vostro principio conduce alla confisca immediata e incondizionata della più grande delle città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di Napoli. (Mormorio) […] La dedizione incondizionata (di Napoli) significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi tutte le leggi piemontesi… (mormorio prolungato) […] La parola incondizionata implica che il regno napoletano si troverà in balia di un Re o di un Senato piemontesi. […] Le leggi delle Due Sicilie sono ottime, paragonate con quelle delle altre nazioni incivilite; esse sono da preferirsi a tutte; in una parola i codici francesi sono vigenti nella bassa Italia, e voi volete che Napoli si sottometta incondizionatamente e subito ad occhi chiusi a un regno i cui codici sono nel dubbio della discussione, le cui finanze ondeggiano nell’urto delle autonomie, e il cui ordinamento geografico è un mistero per i membri stessi del Gabinetto piemontese? […] Del resto, voi lo sapete meglio di me, non ispetterebbe a me il dirlo, le Due Sicilie sono regolate col miglior governo che si possa in quest’istante immaginare. (Ilarità) […] Or bene, s’io avessi l’onore d’essere nato nella patria di Vico, e se l’alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci. (Segni di disapprovazione) E diffatti, giacché la storia non volle che l’Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo giungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra (Rumore); […]”
Giuseppe Ferrari rimase una voce radicale isolata a denunciare gli errori del piemontesismo con riconosciuta onestà di analisi. Continuò solitario ad avversare le profonde sperequazioni sociali all’interno dell’Italia unitaria, accusando l’annessione incondizionata per l’alimentata piaga del brigantaggio.