Teatro San Carlo: spunta L’azzurro originale della sala

Angelo Forgione — Con il restauro interno in corso al Real Teatro di San Carlo di Napoli spuntano i colori originali (azzurro e argento brunito) della sala di Antonio Niccolini, non settecentesca ma inaugurata nel 1817, dopo l’incendio devastante dell’anno precedente e completamente diversa da quella del 1737, eccetto proprio i colori.
Azzurro e argento brunito con riporti in oro sostituiti e coperti con rosso e solo oro per volontà di Ferdinando II tra il 1844 e il 1854, prima dell’avvento dei Savoia, come spiego al Corriere del Mezzogiorno (articolo), che aveva ipotizzato un’operazione d’epoca postunitaria.
I colori rinvenuti resteranno visibili almeno sul palco reale. Prima del discusso restauro del 2008, il commissario straordinario Salvatore Natasi, l’architetto Elisabetta Fabbri e l’ex soprintendente speciale Nicola Spinosa considerarono l’opportunità di riportare tutta la sala ai colori originari, ma poi decisero di non procedere. Spuntati anche alcuni gigli borbonici sull’arco del boccascena, e il Movimento Neoborbonico chiede di tenerli in vista.

Storia e simulazione dei colori originali ►clicca qui

Per approfondimenti sulla storia e le trasformazioni del San Carlo:
Napoli Capitale Morale (A. Forgione, Magenes, 2017)


La Cassa Armonica scolorita

cassa_armonica_1900Angelo Forgione Avanza spedito il cantiere del restauro della Cassa Armonica di Napoli, in Villa Comunale, dove un tempo si esibiva la celebre Banda della Città di Napoli per sviluppare la sensibilità musicale in ogni ceto. Rispristinata la pensilina perimetrale smontata in occasione delle World Series di America’s Cup 2012 per consentire l’installazione della gabbia di supporto per le luci da puntare sulla struttura di Errico Alvino, scelta all’epoca come podio di premiazione.
Come da progetto di restauro, però, sono spariti i vetri colorati giallo-verdi per far posto a vetri neutri (antisfondamento). La polemica è già divampata, e il Comune di Napoli ha precisato che “il progetto di restauro è stato approvato dalla soprintendenza: i vetri trasparenti non sono stati scelti per ragioni economiche ma perché sono in linea con quanto dice il progetto originario. I vetri bicromi erano una soluzione recente, e per renderli solidi si era dovuta appesantire molto la struttura, poi rimossa perché pericolante”.cassa_armonica_1878 Non è possibile capire se Alvino volesse i vetri colorati o neutri, ma la pensilina pare proprio essere stata sempre colorata, e lo conferma la stessa relazione di progetto del Comune, in cui si legge: “La Cassa fu edificata al centro del vialone principale della villa Comunale. È costituita da una pedana circolare con montanti di ghisa e con la cupola in vetri bicromi, delle slanciate colonnine di ghisa e un traliccio metallico costituiscono la leggera ed elegante struttura. Per il “chiosco della musica” l’architetto sfruttò abilmente le risorse della a tecnologia, riuscendo a realizzare una struttura poligonale particolarmente agile caratterizzata da un prezioso gioco di vetri trasparenti e colorati che qualificano lo spazio senza appesantirlo”.
Del resto, la Cassa Armonica fu realizzata nel 1877 e le ingiallite immagini in bianco e nero di inizio Novecento mostrano già spicchi di colori diversi, chiari alternati a scuri (presumibilmente blu). E lo stesso dimostra una più antica illustrazione proposta in prima pagina dalla pubblicazione L’Illustrazione Italiana del 28 luglio 1878, in cui si presenta “il nuovo chiosco Cassa-Armonica” appena realizzato. Un restauro del 1989 sostituì i vetri originali con altri verdi e gialli. Ora, il nuovo restauro cancella definitivamente ogni cromia, nonostante una nota del Comune annunciasse a luglio le restituzione della Cassa “nel suo originario splendore”.

Napoli, Villa Comunale, Cassa Armonica di Enrico Alvino

Se ne va Valerio Maioli, l’uomo della luce

2014dec13vmAngelo Forgione Solo qualche settimana fa avevo pubblicato si social network una foto del 2009 con Valerio Maioli in piazza del Plebiscito, al microfono di Luca Abete. Dopo averlo rintracciato ed intervistato, capii cosa c’era dietro la sua storia, e chi era quella persona. Mi parlò della passione di Bassolino sindaco, da cui fu conquistato, dei loro incontri a notte fonda nello slargo per verificare lo stato del lavoro, dell’utopia dell’ex primo cittadino di illuminare dolcemente anche il Vesuvio, idea cui lui iniziò a dar corpo con un primo progetto rimasto nel cassetto. Mi parlò della sua delusione, e del suo amore intaccato per Napoli, nonostante tutto. E diventammo amici. Gli chiesi di fiondarsi a Napoli dalla sua Ravenna, perchè avevo allertato l’inviato di “Striscia”. Non ci pensò un secondo, perché insieme volevamo salvare il suo meraviglioso impianto di illuminazione artistica della piazza e di altri monumenti della città, che lui amava moltissimo. Quell’impianto – realizzato nel 2000 su commissione dell’allora sindaco Bassolino e dei suoi collaboratori, e inaugurato senza comunicare al mondo la sua unicità – non esiste più, boicottato, azzerato, eppure rendeva luminosi e colorati di notte il Plebiscito, il Castel dell’Ovo, San Martino, parco Virgiliano e altri siti. Valerio volle suggestioni per la piazza, volle musica, giochi di luce colorata e ombre, e per scandire il tempo fece passare una carrozza proiettata su Palazzo Reale, ogni ora, al suono delle campane.
Portò la luce vera ai quartieri spagnoli così come agli scavi di Pompei, e realizzò il maxischermo a scomparsa che è ancora lì, interrato tra i due monumenti equestri di Carlo e Ferdinando al Plebiscito, nato per proiettare in piazza gli spettacoli del San Carlo. Almeno quello riuscimmo a riesumarlo, ma erano scomparse le fibre ottiche, e la regia del teatro, sempre a firma sua, non era più connessa.
maioli_libroFacevo lunghe e piacevoli chiacchierate con Valerio, perché lui conosceva benissimo la storia di Napoli, e apprezzava tanto il periodo borbonico, tanto che la pubblicazione sul suo operato al Plebiscito la intitolò Largo di Palazzo. Me le donò tutte le edizioni sulla storia dei monumenti che illuminò, a Napoli e non solo, e lesse con gusto i miei libri. Era un grande professionista, capace di firmare la rivoluzione della Formula 1 con l’illuminazione del circuito di Singapore, il primo in notturna della storia. Ma era soprattutto una persona perbene, onesta, un vero galantuomo, un imprenditore che poneva i valori umani ed il rispetto dei propri collaboratori al centro dell’attività, promotore anche di iniziative benefiche.
A Napoli ha dato, rimettendoci pure qualcosa di tasca sua, perché l’amava quanto la sua Ravenna. “Solo la sensibilità di Angelo Forgione, un vero napoletano, può far tornare la luce l
uce su due dei luoghi più belli d’Italia: Piazza del Plebiscito e Castel dell’Ovo”, scrisse in italiano, inglese, arabo, cinese, francese, tedesco e spagnolo sul sito della sua azienda internazionale, e fissò quel grido di speranza per anni, perché nessuno, prima di me, si era interessato ai torti che subì. Non vi riuscimmo, perché quell’impianto era di prim’ordine, unico in Europa, e la manutenzione costava più di quel che si vuole e si può spendere per Napoli, città dei monumenti al buio che Valerio illuminò ed esaltò.
Valerio se ne è andato qualche ora fa, perdendo la lotta contro una grave malattia che combatteva da qualche anno. Il male l’ha sconfitto, spegnendo la sua luce ma non il bellissimo ricordo, luminoso, che conservo.
Ciao Valerio, amico mio, amico di Napoli.

maioli

L’azzurro non è più il colore del Napoli

Angelo Forgione Il marketing, che è ormai una fonte di introiti importante nel Calcio moderno, ha il potere anche di sottrarre ai tifosi i colori del cuore e della storia. Ebbene, se non ve ne siete accorti, l’azzurro non è più il colore principe del Napoli. Di fatto, dall’11 settembre scorso, giorno in cui fu presentata, la jeansata è la prima maglia dei partenopei. È stata indossata per ben 8 volte, quante quelle in cui gli uomini di Benitez sono scesi in campo con la livrea azzurra (2 volte in bianco). E se consideriamo il solo campionato, al netto delle partite in Europa, il jeans è anche in vantaggio. Il fatto è che la ‘Perfect Denim’, nonostante sia targata “away“, è andata in scena specialmente sul prato di casa, per ben 7 volte al ‘San Paolo’ (Chievo – Palermo – Verona – Roma – Young Boys – Cagliari – Empoli) contro le 2 della ‘Azzurro Force’ beffardamente targata “home” (Sparta Praga – Torino), che invece è più gettonata in trasferta.
Quando l’Head of Operations Alessandro Formisano la presentò disse proprio che «in tutto il mondo le maglie da Calcio vengono indossate anche per la vita di tutti i giorni e si voleva insistere su questo concetto, riprendendo l’idea di un tessuto che tutti usiamo per andare a scuola, lavorare o passare il tempo libero, ma anche vestire allo stadio». Insomma, una maglia da pubblicizzare anche più della ‘Camo Fight’ e della ‘Yellow Power’ dello scorso anno, che avevano già tracciato la strada, e lo conferma il webstore ufficiale della SSC Napoli, in cui l’immagine delle tre maglie vede stagliarsi in primo piano proprio la ‘Perfect Denim’. Con buona pace dei tifosi  e del loro amore romantico per il vero colore della storia del Napoli, che al ‘San Paolo’ è ormai una rarità.

Napoli calcio, storia di uno stemma equivoco e di una mascotte perdente

Angelo ForgioneNapoli, città ricca di storia e di storie, molte dimenticate, tante mistificate. Le tracce di quella che fu una capitale volutamente sottomessa sono in ogni dove, spesso alterate e manipolate. Capita poi che anche gli stessi napoletani, sovente poco consapevoli del prestigio del proprio passato, contribuiscano involontariamente alla cancellazione del proprio blasone.
Un caso emblematico, quanto mai interessante, investe lo sport, e più precisamente quel catalizzatore di attenzione e passione enormi che è il Calcio Napoli, fondato nel 1922 come Internaples Foot-Ball Club e poi italianizzato in Associazione Calcio Napoli nel 1926 con l’intento di onorare nello stemma quell’identità privata circa sessant’anni prima. Ci volle invece poco perché quel nobile intendimento finisse per essere umiliato, ma è opportuno fare chiarezza di narrazione e riannodare i fili del passato che legano il Napoli alla storia di Napoli.
In Italia, le maggiori squadre di calcio sono talvolta identificate con una simbologia alternativa a quella degli stemmi che portano sulle maglie. La Juventus è la zebra, il Milan è il diavolo, l’Inter è il biscione, la Roma è la lupa e il Napoli è il ciuccio… anzi, ‘o ciucciariello, come si dice dalle parti del Vesuvio. Una simbologia meno marcata rispetto al passato, avendo perso sempre più appeal nell’utilizzo giornalistico nel corso degli anni, ma che resta comunque ben viva nella mente dei tifosi di vecchia data.
Se la Juventus è zebra per via delle strisce bianconere, se il Milan è il diavolo per l’associazione cromatica, se l’Inter è il biscione perché simbolo dei Visconti di Milano, se la Roma è la lupa per la leggenda di Romolo e Remo, che legame c’è tra il ciuccio e Napoli? Nessuno!

Tutto ha origine nell’Agosto del 1926, quando l’Internazionale Naples Foot-Ball Club di Giorgio Ascarelli, anche detto Internaples, nato nel 1922 e catapultato nella Divisione Nazionale dalla riforma del CONI fascista (che non accetta la separazione tra campionati del Nord e del Sud voluta dalla FIGC milanese-torinese; ndr), cambia nome e abbandona l’inglesismo sgradito al regime. Ora la squadra azzurra si chiama Associazione Calcio Napoli, antesignana della Società Sportiva. La squadra veste già da quattro anni il colore azzurro, e non è chiaro il perché; forse in omaggio al mare, o forse perché cromia legata alla storia della città e a quei Borbone della cui Real Casa proprio l’azzurro capetingio era stato colore rappresentativo, da sfondo ai simbolici tre gigli della casata e al più complesso stemma del Regno di Napoli.

Nello stemma della stagione 1926/27 compare un cavallo rampante, il “Corsiero del Sole”, ovvero il simbolo di Napoli durante il Regno delle Due Sicilie ma anche dell’intero Regno peninsulare Napolitano (quello insulare siciliano era simboleggiato dal Triscele). Del resto, i calciatori dell’Internaples erano già soprannominati “i poulains”, i puledri. Il cavallo rampante era stato scelto dagli Svevi come simbolo della città perché allegoria dell’impetuosità del popolo partenopeo; in tempi antichi Napoli era divisa in “Sedili”, anche detti “Seggi”, e proprio al “Sedile di Capuana”, nei pressi di quello che oggi è il Duomo, era presente un’imponente statua bronzea raffigurante un cavallo rampante. Nel Duecento, Corrado IV di Hohenstaufen fallì più volte la conquista della città a causa della resistenza dei Napoletani trincerati dentro le mura. Aprì un varco sotterraneo superando le linee difensive e costrinse i riluttanti alla resa. Vinse, e volle dimostrare di aver domato un popolo che aveva difeso la propria libertà lasciando un segno indelebile sull’emblema della città, la colossale statua del “Corsiero del Sole”, il cavallo imbizzarrito di bronzo. Ordinò che gli fosse messo un morso in bocca in segno di sottomissione.

Il cavallo, sin dal Medioevo e fino all’avvento novecentesco del motore a scoppio, è stato eccellenza della città di Napoli. La pregiata razza del Cavallo Napolitano, persino migliorata da Carlo di Borbone nella Real Tenuta di Persano con sangue di stalloni arabi e fattrici orientali, è stata una delle più apprezzate razze al mondo per eleganza, bellezza e morfologia; lo rimase fino al 1874, quando, dopo l’ultima e definitiva invasione del Sud operata dei Savoia, la pregiata razza equina napoletana fu fatta sopprimere per decreto dal nuovo governo, poco attento alle eccellenze di un mondo che non gli apparteneva. Nel frattempo il cavallo rampante era già stato destituito del suo ruolo di simbolo di Napoli, scomodo anche per il suo significato storico e geopolitico, e adottato come stemma della nascente Provincia di Napoli, a simboleggiare il declassamento dell’antica Nazione Napolitana a rango, appunto, di provincia.

Di qui, nel 1926, l’A.C. Napoli si tuffa nell’avventura del suo primo campionato nazionale contro gli squadroni del Nord, anzi il primissimo davvero nazionale della storia, che si dipana tra 17 sconfitte e un misero pareggio, culminando con l’ultima posizione nel proprio girone e un ripescaggio che scongiura la retrocessione.
I tifosi entrano subito nella storia del club finendo per segnarla profondamente quando in un bar di ritrovo, il Brasiliano poi Pippone, in Via Santa Brigida, uno sconfortato sostenitore azzurro dell’epoca, Raffaele Riano, urla: «Ma quale cavallo rampante?! Stà squadra nostra me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatre chiaie e ‘a coda fraceta». Fichella, nelle leggendarie storie popolari di Napoli, era un personaggio che badava ad un vecchio asino con la coda in pessime condizioni, tanto carico di acciacchi da essere pieno di piaghe.
A quell’espressione rabbiosa, tipicamente partenopea, fanno seguito le fragorose risate dei presenti, che la suggeriscono alla redazione di un giornale umoristico. Nei giorni seguenti, le edicole di Napoli diffondono l’illustrazione di un asinello incerottato da Emilio Reale, primo presidente azzurro, e con una miserabile coda. Da quel momento, per tutti, il cavallo rampante si trasforma per espressione di popolo in “ciucciariello”.

ciuccio_fichella

Non va dimenticato però, oggi più che mai, che quel ciuccio in realtà era in principio un cavallo fiero, elegante e battagliero, proprio come la tifoseria azzurra vorrebbe sempre la propria squadra del cuore. E invece, per una perversa mentalità di minorità autodeterminata, un simbolo nobile è scomparso per affermarsi nella sua trasformazione più folcloristica, a tal punto da comparire persino sulle maglie del Napoli dell’immenso Rudy Krol della stagione 1982/83, quando la N diventa il corpo del ciuccio sormontato da una testa orecchiuta.

Dall’arrivo di Maradona, datato 1984, viene adottata una “enne” napoleonica, oggi scevra di ogni orpello e scritta, a richiamare il periodo napoleonico della città e a comunicare all’Europa calcistica un legame con la Francia imperiale lontano dalle radici della città e durato soli dieci anni. Il presidente accontentò probabilmente un desiderio della moglie Patrizia Boldoni, grande appassionata della figura dell’Imperatore, a tal punto da mettere insieme una preziosa collezione napoleonica fatta di preziosi oggetti portati in mostra nel 2010 a Napoli.
Trattasi pertanto di un’evidente dicotomia storica che stride con le scelte iconiche della nascente A. C. Napoli: Napoleone, attraverso il fratello Giuseppe e il cognato Murat, usurpò il trono del Sud proprio a danno dei Borbone di Napoli nel periodo imperiale francese, prima che il suo crollo e il conseguente Congresso di Vienna riaffermassero il legittimismo in tutt’Europa, sancendo nel meridione d’Italia la restaurazione borbonica.
Il rampante cavallo di Napoli, nobile e fiero, è divenuto ben presto uno spelacchiato somarello. E se è vero che simboli, mascotte e colori delle squadre di Calcio comunicano radici e identità del popolo che rappresentano, quelli del Napoli sono arrivati a noi distorti e confusi, come un po’ tutta la memoria storica partenopea da recuperare.

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una moneta napoleonica e lo stemma della Società Sportiva Calcio Napoli