Garibaldi bianconero? Forse sarebbe stato antijuventino.

Angelo Forgione “Garibaldi era juventino!”. Lo ha voluto chiarire, in modo anacronistico, una sigla politica che fa capo a Enzo Rivellini e Roberto Lauro, che hanno mandato qualcuno lassù, in cima al colossale monumento a Garibaldi, nella piazza della stazione centrale di Napoli, a porre un mantello a strisce bianconere per chiedere che la statua “ritorni in Piemonte, in quelle risaie che si bonificarono grazie ai soldi che lo juventino Garibaldi rubò alle casse del Banco di passato”. E di fianco, per ironia della sorte, un’immagine pubblicitaria griffata “Borbone”.
Mantello bianconero poi rimosso da alcuni addetti comunali, ma resta il gesto verso uno dei simboli meno amati dai napoletani, al pari delle statue di Vittorio Emanuele II in piazza Bovio e sulla facciata di Palazzo Reale.

Ovvio che quella di questa notte sia stata una forte provocazione, dacché quando Garibaldi scese al Sud per consegnarlo ai Savoia il Football era agli albori nella sua culla di Sheffield. Ma stiamo al gioco, quantunque poco ludico, e proviamo a capire se il Dittatore delle Due Sicilie, come egli stesso si autoproclamò nel settembre del 1860, sarebbe davvero divenuto juventino, a inizio Novecento.
Intanto bisognerebbe chiarire se sia la Juventus la squadra dei Savoia, e non il Torino. Certo, in casa Savoia, solo Vittorio Emanuele IV si è permesso di voltare le spalle alla Juventus per sostenere il Napoli, la squadra della città in cui è nato e cresciuto. Suo padre, Umberto II, era stato padrino di battesimo di Umberto Agnelli. E la Juventus, non il Torino, fu l’unica squadra che, per volontà di Gianni Agnelli, il 20 marzo 1983, due giorni dopo la morte del “Re di Maggio” a Ginevra, portò il lutto al braccio, in un match a reti inviolate contro il Pisa. Fu quella l’unica manifestazione di cordoglio pubblico per l’ex sovrano, che non mancò di suscitare aspre polemiche politiche, e già questo basterebbe per certificare il legame tra Casa Savoia e la squadra della «famiglia».

E però non credo che Garibaldi, se pure si fosse appassionato al Football, sarebbe diventato juventino. Forse simpatizzante di qualche squadra inglese; il Nottingham Forest, per esempio, i cui fondatori, nel 1865, scelsero esattamente il “Garibaldi Red”, il rosso garibaldino delle camicie dei protagonisti della spedizione dei Mille per le loro maglie. O magari milanista, visto che il fondatore del Milan, Herbert Kilpin, un inglese di Nottingham, a tredici anni, partecipò alla creazione del Garibaldi Nottingham 1883, compagine che scendeva in campo indossando delle camicie rosse garibaldine, come il Nottingham Forest. Anche per il Milan Kilpin scelse il rosso, ma abbinato al nero, perché quella fosse – come disse l’inglese fondatore – “una squadra di diavoli che doveva impaurire gli avversari”. Un po’ come i garibaldini.

No, non credo che Garibaldi sarebbe diventato juventino. Lui non amò né Carlo Alberto, da cui fu condannato a morte in contumacia per aver cospirato contro Casa Savoia, salvo poi ottenere il ritiro del provvedimento in cambio del suo servizio nei moti del 1848, e neanche apprezzò Vittorio Emanuele II, al quale diede una fondamentale mano nella conquista di Napoli e del Sud per interessi degli amici inglesi, che, cancellando Napoli capitale, intesero addomesticare l’Italia nell’imminenza dell’apertura del Canale di Suez.
Conquistata Napoli, nel settembre del 1860, tra Garibaldi e Vittorio Emanuele la tensioni furono altissime. Il nizzardo, una volta compreso di essere stato usato dal piemontese, sciolse il suo esercito, non prima di aver schierato in riga tutti i suoi uomini davanti alla saccheggiata Reggia di Caserta, sperando di poter ricevere gli onori da quel re al quale aveva regalato il Mezzogiorno. L’attesa durò ore, e fu vana, poiché Vittorio Emanuele II puntò direttamente su Napoli. Garibaldi lo raggiunse più adirato che mai, dando vita a un’asprissima discussione per chiedere di essere nominato viceré dell’Italia Meridionale, ma ottenendo rifiuto.
Il Generale abbandonò Napoli per Caprera il 9 novembre, dopo aver salutato privatamente l’ammiraglio Kodney Mundy sull’incombente nave da guerra inglese Hannibal, ringraziandolo per il decisivo aiuto ricevuto dal regno britannico. Il Re di Sardegna, invece, lasciò la città solo il 26 dicembre, una volta accertatosi che le operazioni belliche nella decisiva battaglia di Gaeta volgevano a favore dell’esercito piemontese. Proprio quel giorno si disputava a Sheffield la primissima partita di calcio della storia, un’amichevole tra Sheffield FC e Hallam FC.
Tra il Re e il Generale la tensione crebbe, come dimostra lo scontro a fuoco in Aspromonte. Garibaldi fu invece sempre grato ai “Fratelli” di Gran Bretagna, cui diede libera manifestazione nell’aprile del 1864, recandosi a Londra per ricevere la cittadinanza onoraria. Fu accolto dal delirio di una folla straripante, un milione di persone lungo le strade percorse dalla sua carrozza, e al Crystal Palace, durante una delle tante tappe del suo viaggio, per rispondere alle dimostrazioni di simpatia, pubblicamente dichiarò:

«Senza l’aiuto di lord Palmerston, Napoli sarebbe ancora sotto i Borbone; senza l’ammiraglio Mundy, io non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina. Se l’Inghilterra si dovesse un giorno trovare in pericolo, l’Italia si batterà per essa».

Alla fine si rese conto anche Garibaldi di cos’era l’Italia dei Savoia da lui favorita, dimettendosi dalla carica di deputato al Parlamento nel settembre del 1868, disgustato per la condotta del Governo della Destra nei confronti del Mezzogiorno. In una lettera scritta per chiarire il suo disimpegno alla rammaricata patriota Adelaide Cairoli, il nizzardo si mostrò pentito del suo apporto alla causa sabauda in alcuni significativi passaggi:

“[…] E mi vergogno certamente di avere contato, per tanto tempo, nel novero di un’assemblea di uomini destinata in apparenza a fare il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l’ingiustizia, il privilegio e la prostituzione! […] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame. Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato”.

Dieci anni più tardi, l’anziano Garibaldi, frustrato e deluso dai governi sabaudi, apprese del tentato regicidio di Umberto I a Napoli ad opera del lucano Giovanni Passannante, animato dalla rabbia per la miseria e le tasse al Sud, e commentò così:

“Il malessere politico altro non è che una conseguenza dei pessimi governi; e questi sono i veri creatori dell’assassinio e del regicidio”.

Giuseppe defunto non seppe mai dell’assassinio di Umberto I, al quarto tentativo, quello letale di Gaetano Bresci, che lo fece fuori il Re nel luglio del 1900, a Monza, perché quel sovrano era odiato anche in Lombardia.
Quattro anni dopo, a Napoli, veniva inaugurato il monumento in bronzo a Giuseppe Garibaldi, issato su un alto piedistallo. Il titolo di campione d’Italia era per la sesta volta su sette edizioni nelle mani del Genoa, vincitore dei primi tornei riservati esclusivamente a squadre piemontesi, liguri e lombarde che escludevano il resto d’Italia e assegnavano i primi “titoli”, oggi ben ostentati nelle bacheche e nell’albo d’oro. Erano i colori rossoblu, ispirati proprio alla bandiera britannica tanto amata da Garibaldi, a dominare i primi calci al pallone italico. Ma sì, forse Garibaldi, peraltro nato a duecento chilometri da Genova, da grande opportunista qual era, sarebbe diventato un genoano della prima ora, e chissà, forse anche antijuventino. Una cosa però è sicura: molti napoletani non sono diventati garibaldini.

Napoli e De Laurentiis, un idillio mai nato

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Angelo ForgioneCon importanti apprezzamenti, parlo di calcio italiano applicandone il contesto alla Questione meridionale, ma qualcuno sostiene: “Forgione è stranamente allineato a De Laurentiis”. Qualcun altro va anche oltre, alludendo al baratto della mia onestà intellettuale con chissà quale vantaggio concessomi. La verità è che non ho rapporti di nessun genere con la proprietà e con la dirigenza del Napoli, e rispondo solo a me stesso. Ho più volte stigmatizzato la persona De Laurentiis, le frasi offensive sui cittadini di Barra o quelle risibili sulla pizza napoletana, e potrei farne diversi di esempi. Sono dotato di un’intelligenza sufficiente per capire che De Laurentiis non fa proprio nulla per farsi amare ed è un disastro in quanto a comunicazione, responsabile di un certo clima, quando gli sarebbe bastato veramente poco per farsi apprezzare dalla tifoseria azzurra. Ma poi c’è ben altro da considerare, guardare la luna dietro il dito, se non si vuol cadere nella trappola dell’ostracismo ideologico, che appartiene a chi cataloga le opinioni tra “papponisti pagati” e “malviventi antipapponisti”.
Prima di esprimermi, di scrivere e di parlare, verifico gli argomenti di cui tratto, sempre, a prescindere da simpatie ed antipatie, da frasi apprezzate e altre molto meno. Bisogna sempre mettere da parte la pancia e usare la testa per capire un fenomeno.

Il fenomeno di cui parlo ha origine nel 2006, allorché scoppiò Calciopoli, tipico scandalo all’italiana solo parzialmente scoperchiato e processato. La Juventus e il Napoli si ritrovarono insieme in Serie B, l’una scendendo e l’altra salendo. Riuscirono a conquistare la Serie A, e dopo tre anni iniziarono a consolidarsi come primissima e seconda forza del campionato italiano, quando a contendere la leadership ai Bianconeri erano Inter e Milan.

A distanza di dieci anni dal ritorno di un Agnelli alla guida della Juventus e del ritorno del Napoli nelle competizioni europee, i Bianconeri hanno aumentato il loro fatturato di 300 milioni di euro e hanno vinto tantissimo, e gli Azzurri di 100 milioni, vincendo qualche coppa nazionale. La tifoseria juventina non si accontenta più dello scudetto, non lo festeggia neanche, e aspetta solo e unicamente la Champions, mentre quella napoletana non si accontenta più di sostenere la seconda forza italiana e pretende la vittoria. Se però la storia della Juventus spiega l’insoddisfazione dei suoi tifosi, quella del Napoli proprio non riesce a giustificare la contestazione all’operato della proprietà attuale, accusata ufficialmente di investire meno di quanto incassa e di impedire il raggiungimento dei massimi risultati.
È il risultato di un’ossificazione del nostro campionato, in cui a vincere è sempre la stessa squadra, e allora i suoi tifosi perdono la libido e i tifosi della prima avversaria perdono la pazienza.

I tifosi del Napoli meritano di più?

Il Napoli non ha mai navigato nell’oro e ha sempre dovuto fare i conti con i bilanci, anche quando la principale fonte di fatturato era la bigliettazione allo stadio e il San Paolo era l’impianto più gremito d’Italia. Nell’unico momento in cui non l’ha fatto, una volta avuto “in dono” dalla politica democristiana il trastullo Maradona e costretto a spendere per consentirgli di lottare per lo scudetto, ha speso ben più di quel che entrava e ha aperto una crisi lunga più di un decennio, culminata nel fallimento.
Le stagioni in Massima Serie degli Azzurri sono 75. I campionati di Serie B ammontano a 12, di cui 11 nell’era 1926-2004 e 1 nel forzato percorso di risalita, cui vanno aggiunti 2 di Serie C. In 89 stagioni disputate nei campionati professionistici, il club partenopeo ha vinto 2 scudetti, si è classificato 8 volte secondo (compresa la stagione in corso) e 10 volte terzo. Tradotto in percentuale, il Napoli è arrivato sul podio della Serie A nel 22,47% della sua vita sportiva.
Dal 2006, anno del ritorno in Serie A, si è classificato 4 volte secondo e 3 volte terzo, tutti piazzamenti racchiusi negli ultimi 9 anni, ed è quindi arrivato sul podio nel 53,84% dei casi, che sale al 77,77% negli ultimi 9 anni e al 100% negli ultimi 4. Il trend segnala chiaramente un consolidamento della posizione.
A questi numeri vanno sommate le 10 partecipazioni consecutive nelle competizioni europee negli ultimi 10 anni, che fanno salire il totale a 31.
È evidente che la contestazione in atto è miope, cresciuta di pari passo con la crescita dei risultati sportivi e con le aspettative, ed è chiaramente portata alla persona De Laurentiis, non al merito. Una contestazione che ha origine in certe frange organizzate osservate dalla Digos, anche se si è ben radicata anche in altre aree moderate della tifoseria. La città è spaccata ma è innegabile che l’antipapponismo sia presente nella Napoli popolare come in quella borghese che mal tollera un uomo certamente distante dall’identità locale, un Marchese del Grillo refrattario alla napoletanità, ma che grazie alla sua disciplina aziendale ha creato una realtà calcistica importante in Italia e in Europa, e l’ha fatto in un territorio in cui l’economia di mercato è agonizzante.
Una contestazione che dura da anni, nata nel 2007, proprio al ritorno in Serie A, con le contestazioni durante la presentazione di Hamsik e Lavezzi, e cresciuta coi risultati, complice il caratteraccio del presidente. Una contestazione che si assopisce solo quando i risultati sportivi non aiutano i contestatori a trascinare la piazza, come ad esempio nello scorso autunno, quando il Napoli ha lottato ad armi pari sul campo contro PSG e Liverpool. Una contestazione che prevede l’avvelenamento sistematico della città a partire da ogni maledetta estate, quando a Dimaro il tifo passionale delle famiglie e degli emigrati rende il ritiro un festoso villaggio vacanze mentre Napoli viene tappezzata di striscioni al cianuro.

Il Napoli investe meno di quanto incassa?

A De Laurentiis si imputa l’assenza di progettualità: il Napoli non ha uno stadio di proprietà, non ha un centro sportivo degno di questo nome, non ha un settore giovanile all’altezza di una grande squadra. Vero, ma lo è proprio per progetto.
Il Napoli di oggi è a livelli di continuità mai raggiunti prima, neanche nei 5 anni d’oro dei secondi anni Ottanta, e questa continuità è esattamente il risultato del progetto aziendale, ovvero del proprio modello di business autosufficiente, che prevede la qualificazione sistematica alla Champions League attraverso la costruzione di rose competitive anche attraverso la cessione redditizia di qualche calciatore. Il fatturato del Napoli si basa soprattutto su diritti televisivi, market pool Uefa e plusvalenze. Non sussistono altre fonti di vera crescita del fatturato. Lo stadio di proprietà non è neanche in progetto, la bigliettazione decresce e il marketing non cresce sensibilmente (nel 2010 apportava 33 milioni di euro di ricavi, attualmente siamo sui 40). Assenze che bloccano la crescita del fatturato da almeno un quinquennio durante il quale i costi sono aumentati, e implicano la necessità di disporre di denaro cui attingere per il monte stipendi in continua crescita e per far fonte agli imprevisti (mancata qualificazione in Champions) senza dover smantellare la squadra o dover ricorrere ai finanziamenti bancari con pagamento di interessi e altre spese, oltre ovviamente all’ammortamento, che graverebbero sulla gestione economica complessiva.
Il “tesoretto” del Napoli equivale attualmente a circa 120 milioni di euro, che fa apparire il club come società ricca, ma in realtà non lo è perché questo patrimonio può essere speso per acquistare calciatori prospettici di buon livello ma non per affermati fuoriclasse dall’ingaggio pesante, e neanche per realizzare strutture che possano produrre ricavi o sviluppare il settore giovanile, a meno che non si abbassi l’asticella degli obiettivi stagionali. La coperta, al momento, è ancora corta e impone una scelta. Quella del Napoli è la competitività ad alti livelli.

Il tifoso del Napoli può pretendere di più?

Per aumentare la sua forza finanziaria, il Napoli dovrebbe essere rilevato da uno sceicco, ammesso che De Laurentiis sia intenzionato a cederlo, e non lo è. Sceicco che mai verrà, perché il nostro pallone non interessa a certi ricconi del petrolio, disinteressati all’economia italiana che non apre ad affari veramente appetitosi. Chi compra una squadra di calcio lo fa per guadagnare consensi e favori in un territorio a cui è interessato per altri affari. Gli sceicchi conoscono perfettamente le condizioni in cui versa il nostro Paese, perché hanno contribuito all’alienazione di pezzi della nostra economia, e sanno benissimo che l’Italia è un inferno fiscale. Sanno pure che neanche gli stadi nuovi con le strutture ricettive attorno riusciamo a fare, e sono pure a conoscenza del fatto che il Sud-Italia è la macroarea arretrata più estesa e popolosa dell’Eurozona. Loro che investono in Inghilterra, Francia e Germania, non intravedono vantaggio investendo nel calcio italiano, men che meno al Sud. E infatti a Milano e a Roma vi sono imprenditori cinesi disponibili a rischiare e bancari americani costretti a salvaguardare i loro antichi prestiti. Chi ha tanti soldi e vuole investire senza rischi non sceglie l’Italia, e ancor più difficilmente Napoli. Alla porta del club azzurro non c’è nessuno di veramente facoltoso, siamone certi.

Con De Laurentiis il Napoli non può vincere?

È ormai opinione relativamente diffusa che con questa proprietà il Napoli non possa vincere mai. Intanto ha già vinto due volte la Coppa Italia e una Supercoppa, poco ma non pochissimo nell’ossificazione generata dalla Juventus. Ma è chiaro che la piazza, per “vincere”, intende vincere lo scudetto. Stucchevole, ormai, ricordare che il Napoli ne ha vinti solo 2 in 78 anni senza De Laurentiis, entrambi col più grande di tutti i tempi. Da quello sforzo è nata la crisi che ha condotto al fallimento.
Dal 1992 ad oggi, solo due scudetti sono stati vinti da squadre diverse da Juventus, Milan ed Inter: quelli di Roma e Lazio, in pieno Giubileo, con artifici vari e indebitandosi entrambe fino al collo. La politica e le banche le hanno salvate dai fallimenti ma ancora oggi sono zavorrate da quei debiti da ripianare. Fiorentina e Parma sono ripartite da zero dopo averci provato anch’esse senza poterselo permettere. Eppure una parte di Napoli sogna un presidente tifoso che dilapidi il patrimonio in nome della gloria, per poi passare al prossimo al grido di “è morto il re, viva il re”.
Battere le tre grandi del Nord è storicamente difficile. Il Napoli è riuscito a mettersi dietro le milanesi, frenate anch’esse dai loro passivi di bilancio, ma non la Juventus, che ha accresciuto la sua solidità. Forse sarebbe accaduto con delle sessioni invernali di mercato più adeguate nei momenti di primato, e qui si individua una lacuna del club. L’impresa è stata sfiorata lo scorso anno, e tutti sanno perché non si è concretizzata.
Chissà, magari il terzo scudetto un giorno arriverà, ma sarebbe qualcosa di eccezionale e non certo un evento normale da pretendere.

Il tifoso del Napoli può pretendere la Coppa Uefa (Europa League) come “consolazione”?

L’Italia non porta una squadra in finale in Europa League dal 1999. Da allora, solo tre semifinaliste: la Juventus del 2014, quella dei 102 punti record in campionato, il Napoli di Benitez e Higuain e la Fiorentina nel 2015. Il nostro calcio non è competitivo per i grandi traguardi europei. Vincere l’Europa League per una squadra italiana è oggi un’impresa come lo è vincere la Champions League.

È giusto contestare un club che ha raggiunto certi livelli?

Ogni contestazione è consentita se condotta in maniera civile. “Meritiamo di più” è una rivendicazione civile, ma una rivendicazione che con questo Napoli, oggettivamente, non ha ragione d’essere. “Pretendiamo la Coppa” e “Noi vogliamo vincere” suonano un po’ come il famoso “Nuje vulimmo ‘o posto” dei disoccupati organizzati, dove la pretesa del risultato non segue un forte impegno personale e corrispondere a chissà quale diritto divino, soprattutto in una città in cui l’impegno civile di chi la ama e la rispetta è umiliato da chi la violenta quotidianamente. Anche solo gettando una carta a terra.

De Laurentiis lascerà il Napoli per i contestatori?

Striscioni, lessico consolidato, selfie beffardi e restituzioni di maglie dimostrano che la contestazione al Napoli è in realtà contestazione alla persona del suo proprietario, che non accenna a risentirne minimamente. Anzi, incurante degli umori della piazza, ha acuito le distanze acquistando il Bari, i cui i tifosi sono notoriamente ostili a quelli partenopei.
L’acquisto del club pugliese non significa affatto un disimpegno della famiglia De Laurentiis da Napoli, che tra le due piazze è la più prestigiosa e importante.
In sede di audizioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, non alla stampa, Aurelio De Laurentiis ha detto di non avere al momento alcuna intenzione di rinunciare al club azzurro, nonostante le problematiche ambientali discusse in Commissione stessa.
“Per me è un film con una sceneggiatura aperta – ha detto il presidente –, un film in continua evoluzione, che ancora non è uscito nelle sale, quindi non ha cominciato la sua fase finale di utilizzabilità”.

Ho provato a dare delle risposte di testa al brutto clima che si respira a Napoli. Ora, se volete, dite pure che sono allineato a De Laurentiis, concentrandovi sul dito e ignorando la luna. La pancia è esattamente la causa dei veleni, sparsi da una parte e dall’altra.

La pantera azzurra graffia e non scalcia

Angelo Forgione – Ed eccola la rivoluzione alla quale ero già preparato da tempo. È innovazione, è sperimentazione. È un mix tra nuovo design Kappa e ispirazione “aureliana”. Piaccia o no, è comunque rottura. Niente lamenti.
Estetica e prenotazioni alle stelle a parte, non è però la texture a tonalità diverse (a me piace) ad andare oltre la storia (aspettate di vedere la versione Champions). È semmai l’irruzione di un animale che non attiene al Napoli e a Napoli, all’humus del territorio.
È l’identità ad emozionare i napoletani, non l’aggressività. È il cavallo sfrenato, il Corsiero del Sole, il simbolo dell’indomito popolo… e, dal tempo degli Svevi, non graffia ma scalcia.
Pensaci, in futuro, Aurelio.

Maglia azzurra del Napoli, tanta voglia di lei.

Angelo Forgione Era il 28 novembre quando il Napoli, contro il Sassuolo al San Paolo, indossava per l’ultima volta in campionato la tradizionale maglia azzurra. Cinque mesi esatti sono trascorsi, diciannove partite, un intero girone: 17 partite in maglia bianca sbarrata (12 vittorie, 4 pareggi e 1 sconfitta) e 2 match in maglia nera (2 vittorie).
A oggi, le percentuali approssimative di vendita, fornite dai responsabili Kappa per la Campania, sono le seguenti: 40% la nera, 30% l’azzurra e 30% la bianca. Non tutte “Kombat Skin”, a causa dell’aderenza inadatta a chi non è perfettamente in forma, cosa che ha generato una buona vendita delle maglie “replica”, e qui la percentuale maggiore è dell’azzurra.
Sino alla svolta di fine novembre, la classica “home” era stata sempre indossata, sia in Campionato che in Champions League, tranne che all’esordio di Pescara in “total black”. Eppure, a quella data, il picco di vendite era proprio per la maglia nera, ben superiore a quella azzurra. Dopo l’avvio dell’era in maglia sbarrata, a ridosso del periodo natalizio, l’azzurra e la bianca hanno pressocché iniziato a livellare le percentuali di vendita rispetto alla nera.
Un ragionamento va fatto per capire se la scelta di adottare costantemente la divisa bianca sia dettata da marketing o da semplice scaramanzia. Non risulta che la fornitura ai punti vendita della seconda maglia sbarrata sia massiccia, tutt’altro, e ciò fa intendere che l’uso continuo da parte della squadra, accompagnato da ottimi risultati sportivi, non sia stato dettato da strategie di marketing ma da motivi scaramantici.
Nel frattempo, la maglia azzurra è stata indossata solo due volte in altre competizioni. l’ultima occasione in Champions League, il 7 marzo, contro il Real Madrid, e in Coppa Italia contro la Juventus a Torino, il 28 febbraio.
Riusciremo a rivederla prima che il sole d’agosto ci regali l’azzurrità del cielo e del mare?

50 anni dopo, la maglia sbarrata che inaugurò la nuova SSC Napoli

kappa_napoli_sbarrata.jpgAngelo Forgione La seconda maglia del Napoli 2016/17, inaugurata con la cinquina d’agosto al Monaco, ci riporta alla divisa della stagione 1964/65, la prima con la denominazione Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., seguita alla precedente Associazione Calcio Napoli, già trasformazione dell’Internaples Foot-Ball Club 1922. Il cambio avvenne il 25 giugno del 1964, per arginare i grandi problemi economici del club. Achille Lauro non versò una lira per il capitale sociale ma ottenne il quaranta per cento delle azioni per i crediti vantati. Fu eletto presidente Roberto Fiore, dopo una serie di scontri e tentativi di ricreare addirittura un “nuovo” Napoli, il Napoli Football Club, per iniziativa di Giovanni Proto, consigliere comunale monarchico, ma il compagno di partito Lauro non lo seguì. Il dissidente, talmente adirato da strappare la tessera dell’Unione Monarchica e da dichiararsi indipendente in consiglio comunale, si associò con Carlo Del Gaudio e spostò gli interessi sul CRAL Cirio in Serie D, cambiandogli il nome in Internapoli.
napoli_2016_17La nuova SSC Napoli di Fiore (e Lauro) disputò il campionato 1964/65 di Serie B. La tradizionale maglia azzurra dell’AC Napoli fu messa in naftalina per privilegiare una scaramantica maglia sbarrata, ricalcata da quella del Bologna, che l’anno prima si era laureato campione d’Italia con una sbarra rossoblù. La maglia accompagnò la squadra, allenata da Bruno Pesaola, al secondo posto in cadetteria a suon di vittorie e alla promozione in A. L’anno seguente, il presidente Fiore mantenne la scaramantica bianca sbarrata, indossata dai nuovi acquisti Altafini e Sivori. Il neopromosso Napoli (in foto) chiuse la stagione 1965/66 al terzo posto, alle spalle di Inter e Bologna, e vinse il suo primo trofeo internazionale, la Coppa delle Alpi.
napoli_1965_66La maglia sbarrata cedette il posto alla tradizionale azzurra nella stagione 1966/67, restando però seconda divisa. La scaramanzia si esaurì nella stagione 1967/68, quando venne introdotta una seconda maglia rossa, in ricordo di quella indossata nella finale di Coppa Italia del 1962 disputata e vinta contro la Spal. La squadra partenopea aveva approntato una inconsueta maglia di colore rosso per non confondersi con la casacca bianco-azzurra dei ferraresi.
Una sartoria milanese ha realizzato nell’agosto 2015 una splendida riedizione vintage della maglia sbarrata di cinquant’anni fa, con stemma cucito recante serigrafia dei tre gigli capetingi borbonici.

L’azzurro non è più il colore del Napoli

Angelo Forgione Il marketing, che è ormai una fonte di introiti importante nel Calcio moderno, ha il potere anche di sottrarre ai tifosi i colori del cuore e della storia. Ebbene, se non ve ne siete accorti, l’azzurro non è più il colore principe del Napoli. Di fatto, dall’11 settembre scorso, giorno in cui fu presentata, la jeansata è la prima maglia dei partenopei. È stata indossata per ben 8 volte, quante quelle in cui gli uomini di Benitez sono scesi in campo con la livrea azzurra (2 volte in bianco). E se consideriamo il solo campionato, al netto delle partite in Europa, il jeans è anche in vantaggio. Il fatto è che la ‘Perfect Denim’, nonostante sia targata “away“, è andata in scena specialmente sul prato di casa, per ben 7 volte al ‘San Paolo’ (Chievo – Palermo – Verona – Roma – Young Boys – Cagliari – Empoli) contro le 2 della ‘Azzurro Force’ beffardamente targata “home” (Sparta Praga – Torino), che invece è più gettonata in trasferta.
Quando l’Head of Operations Alessandro Formisano la presentò disse proprio che «in tutto il mondo le maglie da Calcio vengono indossate anche per la vita di tutti i giorni e si voleva insistere su questo concetto, riprendendo l’idea di un tessuto che tutti usiamo per andare a scuola, lavorare o passare il tempo libero, ma anche vestire allo stadio». Insomma, una maglia da pubblicizzare anche più della ‘Camo Fight’ e della ‘Yellow Power’ dello scorso anno, che avevano già tracciato la strada, e lo conferma il webstore ufficiale della SSC Napoli, in cui l’immagine delle tre maglie vede stagliarsi in primo piano proprio la ‘Perfect Denim’. Con buona pace dei tifosi  e del loro amore romantico per il vero colore della storia del Napoli, che al ‘San Paolo’ è ormai una rarità.

Il Giro d’Italia 2012 va in fuga… dal Sud

Il Giro d’Italia 2012 va in fuga… dal Sud
Meridione snobbato, neanche le briciole

Angelo Forgione – È stato presentato a Milano il 95° “Giro d’Italia” che partirà il 5 Maggio 2012. Guardi il percorso sullo stivale e ti accorgi che la carovana rosa toccherà le regioni del Nord, scendendo verso Sud per non restarci. Appena giunti in Campania il dietro-front, e subito su al nord… di corsa. Tanti i capoluoghi della Lega interessati: Verona, Treviso, Lecco. Persino tre tappe in Danimarca ma una sola tappa al Meridione, da Sulmona al Lago Laceno e su in direzione Frosinone.
Il tracciato del prossimo Giro sembra sovrapporsi alla rete autostradale italiana, o a quella ferroviaria, e toccherà tutto il Nord, Friuli escluso. Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Lombardia, e Trentino Alto Adige. E poi Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo e passaggio in Molise per giungere in Campania. Tagliate fuori Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia, ovvero un quarto delle regioni d’Italia, praticamente la totalità del Sud.
È chiaro che la corsa rosa sia un business basato sugli sponsor ma anche sulle disponibilità economiche dei Comuni, anche stranieri, che si aggiudicano le tappe. Chi più offre, più facilmente si porta a casa la ribalta. Con buona pace degli appassionati del Sud e dei suoi scenari incantevoli senza dei quali le telecamere avranno qualcosa in meno da mostrare.
Eppure il nome “Italia” appartiene storicamente al Meridione, a quelle coste della Calabria dove era la “Vitulia”, terra dei vitelli. La Magna Grecia ha dato il nome al paese e oggi neanche le competizioni sportive riescono a interpretare il ruolo riconciliatore tra le due Italie. Ma quale unità stiamo festeggiando?
Dunque, dopo le polemiche attorno al Giro di Padania, il prossimo può tranquillamente definirsi un Giro del Nord-Italia con sconfinamento al centro. Faranno bene tutti gli appassionati di ciclismo del Sud a tenere anche i televisori spenti e a non comprare il quotidiano milanese che organizza la corsa.

Sulla nuova maglia del Napoli torna un po’ di storia di Napoli

Sulla maglia del Napoli torna un po’ di storia di Napoli
finalmente verso l’azzurro, finisce l’epoca del celeste

Angelo Forgione – L’avevo sottolineato a Maggio nell’articolo sulla storia del simbolo e dei colori sociali del Napoli: “il Calcio Napoli confonde la storia di Napoli”. E scrivevo così: “Anche la tonalità di azzurro, in origine fedele a quello più intenso borbonico, è divenuta col passare del tempo sempre più tenue, fino al quasi celeste dell’era De Laurentiis”.
Il colore d’origine del Napoli è l’azzurro borbonico, dedicato dall’Associazione Calcio Napoli 1926 alla storia della città insieme al cavallo rampante. Ma la tonalità di azzurro è divenuta col passare del tempo sempre più tenue, fino al quasi celeste dell’era De Laurentiis.

Finalmente la nuova maglia della stagione 2011-12 si avvicina un po’ di più al passato con un briciolo di rispetto in più per la storia non solo del Napoli ma anche di Napoli. La casacca firmata Macron è stata presentata a bordo della nave da crociera MSC “Splendida”, ispirata a quella storica del 1986-1987, stagione del primo scudetto azzurro.
L’azzurro è stato scurito e torna un po’ più vicino a quello borbonico, in rispetto di una storia che nessuna esigenza di marketing deve dimenticare; sparisce quindi la tenue tonalità celestina adottata nell’era De Laurentiis per volontà di Pier Paolo Marino.
La maglia, come detto, è una rivisitazione moderna di quella indossata da Maradona e compagni nella fantastica cavalcata tricolore. Nel colore, ma anche nel colletto stile polo con bordino bianco, che se risvoltato svela sul retro la scritta SSC NAPOLI, e nei numeri retrò identici a quelli dell’epoca.
La maglia è caratterizzata dalla vestibilità “fitted” con alto coefficiente di aderenza garantito da un tessuto elasticizzato e traspirante. I calzoncini sono bianchi con inserti azzurri sull’orlo, mentre i calzettoni sono azzurri.
Due gli sponsor: all’ormai familiare Lete si è aggiunto MSC Crociere. Già la prima aveva imposto negli anni un rettangolo rosso poco piacevole, ora se ne aggiunge uno blu. Quei marchi, per risultare gradevoli come non lo sono ora, andrebbero in bianco, senza i colori di contorno (vedi simulazione in basso). E se da una parte tutto ciò vanifica l’intenzione e la ricerca di Macron, dall’altra il Napoli porterà in giro per l’Europa due importanti brand campani.

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Ecco un’esercitazione stilistica per dimostrare quanto ne guadagnerebbe in bellezza la nuova maglia annullando i rettangoli nei quali sono incastonati gli sponsor. Viene da chiedersi se sia un’esigenza dettata dagli sponsor oppure una “miopia” estetica.

NOI SIAMO NAPOLETANI (e non odiamo o offendiamo nessuno)

NOI SIAMO NAPOLETANI
(e non odiamo o offendiamo nessuno)

di Angelo Forgione
Movimento V.A.N.T.O.
(Valorizzazione Autentica Napoletanità a Tutela dell’Orgoglio)

risposta all’articolo “NOI NON SIAMO NAPOLETANI” di Vincenzo Ricchiuti su tuttojuve.com e ilnapolista.it

Premesso che stiamo parlando di uno sport e tale deve restare nonostante le digressioni, prendiamo atto che gli juventini di Napoli “reagiscono” al fortissimo spunto di riflessione lanciato dal sottoscritto e dalla band L’Altroparlante col video “Ma perché sei tifoso della Juve se sei di Napoli?”. La reazione è però scomposta e rischia di deviare il confronto verso una strada impervia, per di più senza uscita. Il confronto voluto diventa così scontro e allora non va più bene. Il nostro intento era, ed è, chiaramente di carattere culturale e non intende in alcun modo incitare alla violenza verbale o, peggio ancora, fisica da cui prendiamo decisamente le distanze. Pertanto provvederemo ad un comunicato stampa congiunto col quale prendiamo le distanze dai risvolti che la discussione ha assunto, certamente nati da una nostra intenzione non bellicosa che però ci rendiamo conto stia correndo il rischio di essere strumentalizzata.
Lo scritto dal titolo “Noi non siamo napoletani” a firma di Vincenzo Ricchiuti pubblicato su tuttojuve.com e su ilnapolista.it non sviscera alcun dibattito culturale ma risulta ai lettori uno sconclusionato e arruffato moto di reazione metaforicamente paragonabile a quello di un bambino permaloso a cui hanno minacciato di togliere un giocattolo da mano, ovvero la propria passione juventina in mezzo a tanta Napoletanità.  È un urlo infantile, una vocale stridente strillata ad alta voce che non dice niente. Nessuno vuol togliere nulla a nessuno. Chi è juventino, milanista o interista a Napoli e al sud lo resti pure, se crede.
Quanto letto è un’offesa gratuita e delirante a Napoli e ai Napoletani che però non offende perché non offre alcuno spunto di riflessione ed eventualmente di condivisione.
Lasciando stare l’incomprensibilità di alcuni passaggi, ci accorgiamo che la discussione è subito deviata dal confronto culturale e spostata sull’insulto.
Mancano evidentemente delle strutture a chi chiama i Borbone “Borboni”; erano uno per volta, non una moltitudine di gente da denigrare. Mancano delle conoscenze a chi non sa che Garibaldi entrò a Napoli indisturbato per protezione della mediocre camorra a cui si appellò e che da allora fu sdoganata, diventando potere perché senza di essa forse non sarebbe uscito integro dalla città.
Ma è inutile dipanare la discussione storica di fronte all’offesa alla Napoli che troppe ne riceve e ne ha ricevute, fino al cedere all’eduardiano “è cosa’e niente” che tanto male ci ha fatto nel nostro modo di vivere. Noi non vogliamo lo scontro ma il confronto, e neanche ci abbandoniamo a dire “è cosa ‘e niente”. Noi “simmo Napulitane” e, come canta Eddy Napoli in una sua bellissima canzone, siamo “gente ca tene na storia”; e non ci stiamo più a vederla sotterrata sotto l’immondizia che ci sommerge, e chissà perché.
Abbiamo letto offesa per reazione alla cultura di cui disponiamo, ai fatti della storia vera, non quella scritta, che ci danno ragione anche se ci hanno resi purtroppo colonia di un nord dominante anche nel calcio, e non è certo un caso. Abbiamo cercato il confronto coi nostri concittadini di fede calcistica diversa passando per la storia che è comune a tutti, e siamo passati per fomentatori. E che c’entra il calcio, ci direte; ma forse non ci si è resi conto che la storia (dei vincitori) è reclamizzata attraverso il calcio. Noi siamo scesi in campo usando la stessa strategia, perché non vogliamo perdere ancora. E quel tricolore che la Juve si è stampato sulle maglie proprio nell’anno delle celebrazioni dei 150 anni della nazione non appartiene solo a Torino ma anche e soprattutto a Napoli.
Noi abbiamo usato un punto di domanda e non abbiamo emanato sentenze. Tifate pure chi volete, è la vostra libertà di pensiero ed opinione che non si tocca perché sacra. Ma non scomponetevi offendendo se noi urliamo la nostra. Non ce l’abbiamo con voi e non vi offendiamo. Non ce l’abbiamo con Quagliarella, benedetto ragazzo, vittima e carnefice insieme di un equivoco lungo un anno.  A lui imputiamo le frasi infelici e l’irriverenza verso la gente dal dopo trasferimento, legittimo per un professionista sfiduciato, ad arrivare ad oggi. E Napoli ha tutto il diritto di fischiarlo per questo, così come fece con Paolo Rossi il 20 Ottobre 1979 quando 90.000 spettatori, e dico 90.000, riempirono il San Paolo solo per lo sfizio di contestare l’attaccante del Perugia che aveva rifiutato il Napoli con dei fischietti distribuiti all’esterno dello stadio. Napoli è così, e nel calcio non dimentica. Magari non dimenticasse anche quello che avviene fuori dallo stadio.
Le motivazioni che hanno spinto alla costruzione del soggetto video sono spiegate in calce allo stesso nella pagina youtube e sviscerate più profondamente sul mio blog (https://angeloxg1.wordpress.com/2011/01/02/opinioni-spaccate-riflessioni-sul-videoclip-ma-perche-sei-tifoso-della-juve-se-sei-di-napoli/) dove vengono analizzati i due fronti d’opinione che hanno spaccato il pubblico. E quando un prodotto divide è un prodotto che fa prendere posizione, e quindi che resta impresso. Questo era il risultato voluto, condiviso dalla band che ha ragionato nella stessa direzione. Si voleva arrivare a comunicare a quante più persone possibili un fatto storico che riguarda l’identità dei Napoletani. Farlo attraverso il calcio catalizzatore non è solo intelligente (scusate la presunzione) ma anche giusto perché è esso un fenomeno di costume che riguarda la storia d’Italia. E del resto, come detto, è la stessa Juventus di Torino, prima Capitale d’Italia, che ha impresso il tricolore sulle proprie maglie nell’anno dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’unità, avvenimento al quale è dedicata anche la Coppa Italia. Chi dice che il calcio va isolato dalla conoscenza storica del nostro paese fa un grave errore, quantomeno nel non saper riconoscere il grande volare propagandistico che esso ricopre. Un grande giornalista come Italo Cucci, sul ROMA, ha scritto che un Napoli scudettato nell’anno delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia darebbe molto fastidio ai potenti del nord. Noi ci siamo schierati dall’altra parte del fronte, per amore della nostra terra e della nostra identità. Ed è per questo che gridiamo forte “forza Napoli” e non “abbasso la Juve”.

Opinioni spaccate per il videoclip “Ma perchè sei tifoso della Juve se sei di Napoli?”

Opinioni spaccate per il videoclip “Ma perchè sei tifoso della Juve se sei di Napoli?”

Il video “Ma perchè sei tifoso della Juve se sei di Napoli” ha spaccato l’opinione come mai accaduto per le mie realizzazioni calcistiche che pure hanno sempre contenuto input che vanno oltre la mera questione sportiva. L’utilizzo di una tematica storica cruenta ha creato due fronti, quello del “mi piace tanto” e quello del “non condivido”.
Diciamolo subito, il video è tra i più visti in Italia su Youtube e l’1 Gennaio è stato addirittura il più visto in assoluto. Dopo tre giorni di pubblicazione ha superato le 100.000 visite e i commenti sono dei più vari.
Molti gli insulti in privato da parte di juventini, soprattutto del sud, e questo significa che il video rappresenta una “minaccia”. Di contro c’è un fiume di persone che mi ringraziano per aver diffuso con questo prodotto una verità poco conosciuta. Starà a chi è curioso scavare e conoscere.
Il video non incita ad alcuna violenza ma fa cultura, e solo i meno pronti non l’hanno compreso. Nel coro dei “no” si leva la domanda “ma che c’entra l’eccidio piemontese delle popolazioni meridionali col calcio?”. C’entra, perchè il calcio è fenomeno di costume del nostro paese, e il costume è un aspetto della società, e la società è figlia della storia.
È vero che il calcio è un divertimento, e molta gente vuole limitarsi a seguirlo per donarsi distrazione, ma è anche vero che è termometro dell’appartenenza delle varie comunità. Questo discorso è spesso estremizzato, e allora li nasce l’odio e la violenza negli stadi da cui prendo le distanze (il calcio è un bellissimo gioco), ma è anche innegabile che un sentimento radicato verso una determinata squadra non si limita solo ad una scelta di cuore che può scoccare da bambini perchè non prescinde dalla conoscenza della storia stessa del club prescelto e di tutto ciò che gli gravita attorno, processo di radicazione che si completa crescendo.
Nessuno vuole imporre delle scelte, ognuno è libero di tifare chi vuole, di scegliere a chi indirizzare i propri favori. Le scelte possono essere giuste o sbagliate ma non tocca a nessuno sindacarle se non a sè stessi. Il video offre degli spunti di riflessione che molti credono inappropriati ma che invece sono molto attinenti perchè riguardano un aspetto cruciale della vita della nazione che è si lontano 150 anni (di fatto pochi se consideriamo la giovane vita della nostra nazione e il fatto che allora c’erano i nostri bisnonni, non certo i nostri antenati prediluviani) ma che è ancora così attuale per le condizioni di disparità tuttora persistenti tra il nord e il sud del paese.
Qualcuno si è mai chiesto perchè Juve, Milan e Inter sono le società più blasonate? O perchè al nord sono finiti 98 scudetti e al sud solo 8, Roma compresa? Semplice, perchè il calcio, in quanto fenomeno di costume, rispecchia la realtà del paese, e la realtà del paese dice che c’è una profonda disparità economica tra nord e sud che prima del 1860 non c’era affatto. Chiediamoci allora se mai si sarebbe creata una simile disparità di risultati senza la differenza di sviluppo delle due aree del paese. Diciamolo chiaramente: no! Così come esiste una questione meridionale generata dai metodi con cui si è unito il paese, così esiste una questione meridionale nel calcio. E i bambini, si sa, sviluppano in loro il (falso) mito della squadra vincente. Le vittorie per le squadre del nord si sono ripetute e moltiplicate, e i più piccoli hanno finito per andare a traino, salire sul “carro dei vincitori”. Poi si cresce e ci si ritrova a metabolizzare, senza quindi ribellarsi, persino le offese che dai tifosi delle squadre per cui si tifa giungono ai napoletani e ai meridionali. Se non è questione sociale questa?!
Il video, come detto, offre degli spunti a quelli che ormai bambini non sono più e che possono “scavare” e riflettere, se non hanno la voglia. Innanzitutto la figura di Massimo Troisi, che è solo la punta dell’iceberg del tifo napoletano “vip”. Cerchiamo un Napoletano famoso per la sua Napoletanità che non tifi Napoli. Non c’è! Trosi, Sofia Loren, Massimo Ranieri, Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Eduardo De Crescenzo, solo per citarne qualcuno. Non c’è nessuno dei “Very Important Neapolitans” che non parteggi per la squadra della propria città.
La questione “eccidio piemontese“, come già detto, è l’origine di una colonizzazione del meridione e di un’Italia giustamente unita ma in maniera sbagliata e con risultati catastrofici per il sud.
Sarà pure risultato un pugno nello stomaco dei più “delicati”, ma la volontà era precisa e me ne sono assunta tutta la responsabilità. Volevo arrivare a raccontare la verità, una delle tante verità sotterrate che riguardano la terra “Napolitana”. Potevo completare il video a consegnare la patata bollente alla band “L’Altroparlante” che l’ha condiviso appieno prima di editarlo, e invece l’ho firmato mettendoci la faccia. Con la presunzione che tutto questo possa rappresentare una piccola scintilla di cambiamento di mentalità da parte di una comunità Napoletana, e meridionale in generale, che è indotta per questioni sociali già elencate a fare delle scelte di cui non si rende conto, e di non metterle poi mai in discussione neanche in età in cui può farlo. E mi piace pensare, chissà, che qualche nuovo tifoso Napoletano si possa recuperare alla causa col tempo.
Infine, cosa c’entra Quagliarella con gli spunti di riflessione offerti? Nulla, proprio nulla. Difatti il video è diviso in tre tronconi: 1) Napoletanità 2) questione Quagliarella 3)invasione piemontese del sud.
L’aver trattato il tema Quagliarella è stata una precisa richiesta della band dal momento che il brano esisteva già e questa era una versione remix da lanciare proprio nell’imminenza di Napoli-Juventus, partita che dovrebbe segnare il ritorno dell’ex attaccante azzurro al San Paolo dopo il passaggio alla Juventus. È infatti previsto un video della versione originale priva dei riferimenti alle frasi di Quagliarella.

Circa l’attaccante juventino, va chiarito che nel video non è trattato come un traditore perchè ne io ne l’Altroparlante lo consideriamo tale e non ci saremmo mai sognati di far passare un messaggio culturale e storico associandolo ad un’opera di accanimento mediatico verso una persona che è un professionista. Non è il suo passaggio alla Juve nelle modalità che conosciamo che può etichettarlo traditore senza appello. A lui vengono imputate delle frasi inopportune, quelle evidenziate nella clip, che voleva evidentemente rivolgere alla dirigenza azzurra ma che, inevitabilmente, hanno offeso i tifosi azzurri ai quali non era stata data neanche una spiegazione o un saluto. La mancanza di rispetto verso la gente è la sua colpa, non altra. E per uno che comunica Napoletanità e Orgoglio, questo spunto, pur nella sua leggerezza, non può essere tralasciato.
Ringrazio per i tantissimi apprezzamenti che ricevo per l’operazione, moltissimi dei quali contenenti ringraziamento per aver convogliato l’attenzione calcistica verso una tematica che sembra distante nel tempo ma che invece non solo è attualissima ma è anche da portare alla luce. Un grazie anche a coloro i quali si sono chiesti “ma stavolta Forgione che ha fatto?”. L’aver creato dibattito è una cosa che, comunque, mi appaga. Ed è per questo che non sono necessarie giustificazioni.
Concludo infine ricordando a chi dice che i meridionalisti sono dei vittimisti, sempre pronti a piangere e accusare il nord, invece di guardarsi in casa. Chi fa un ragionamento del genere non sa che Forgione, oltre a fare i video sul Napoli, con V.A.N.T.O., è un attivista in città, per il cui decoro si batte anche con risultati attaccando l’amministrazione locale e i cittadini che non rispettano la città nella vita di tutti i giorni. Altro che vittimismo! Qui si fa attivismo all’interno e lotta identitaria all’esterno.