Angelo Forgione – La seconda maglia del Napoli 2016/17, inaugurata con la cinquina d’agosto al Monaco, ci riporta alla divisa della stagione 1964/65, la prima con la denominazione Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., seguita alla precedente Associazione Calcio Napoli, già trasformazione dell’Internaples Foot-Ball Club 1922. Il cambio avvenne il 25 giugno del 1964, per arginare i grandi problemi economici del club. Achille Lauro non versò una lira per il capitale sociale ma ottenne il quaranta per cento delle azioni per i crediti vantati. Fu eletto presidente Roberto Fiore, dopo una serie di scontri e tentativi di ricreare addirittura un “nuovo” Napoli, il Napoli Football Club, per iniziativa di Giovanni Proto, consigliere comunale monarchico, ma il compagno di partito Lauro non lo seguì. Il dissidente, talmente adirato da strappare la tessera dell’Unione Monarchica e da dichiararsi indipendente in consiglio comunale, si associò con Carlo Del Gaudio e spostò gli interessi sul CRAL Cirio in Serie D, cambiandogli il nome in Internapoli.
La nuova SSC Napoli di Fiore (e Lauro) disputò il campionato 1964/65 di Serie B. La tradizionale maglia azzurra dell’AC Napoli fu messa in naftalina per privilegiare una scaramantica maglia sbarrata, ricalcata da quella del Bologna, che l’anno prima si era laureato campione d’Italia con una sbarra rossoblù. La maglia accompagnò la squadra, allenata da Bruno Pesaola, al secondo posto in cadetteria a suon di vittorie e alla promozione in A. L’anno seguente, il presidente Fiore mantenne la scaramantica bianca sbarrata, indossata dai nuovi acquisti Altafini e Sivori. Il neopromosso Napoli (in foto) chiuse la stagione 1965/66 al terzo posto, alle spalle di Inter e Bologna, e vinse il suo primo trofeo internazionale, la Coppa delle Alpi.
La maglia sbarrata cedette il posto alla tradizionale azzurra nella stagione 1966/67, restando però seconda divisa. La scaramanzia si esaurì nella stagione 1967/68, quando venne introdotta una seconda maglia rossa, in ricordo di quella indossata nella finale di Coppa Italia del 1962 disputata e vinta contro la Spal. La squadra partenopea aveva approntato una inconsueta maglia di colore rosso per non confondersi con la casacca bianco-azzurra dei ferraresi.
Una sartoria milanese ha realizzato nell’agosto 2015 una splendida riedizione vintage della maglia sbarrata di cinquant’anni fa, con stemma cucito recante serigrafia dei tre gigli capetingi borbonici.
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La “Fior di margherita” con le mie mani
Angelo Forgione – Mettersi al banco di lavoro di una pizzeria napoletana e dar vita a una pizza che sappia di storia di Napoli. È quel che mi capita a Le Parùle di Ercolano (NA), che già nel nome comunica quella storia. Le Parùle, in napoletano, significa “gli orti”… e Giuseppe Pignalosa prova proprio a raccontare nel suo locale la ricchezza di biodiversità dei prodotti della fertile terra vesuviana, che fino al secondo Settecento rappresentò il principale orto polmone di approvvigionamento di verdure per la città e per i napoletani, detti “mangiafoglia”. Poi arrivò la pasta di grano duro e divennero “mangiamaccheroni”. Anche “mangiapizza”, aggiungo io.
Marina Alaimo, giornalista enogastronomica, invita me e altri quattro personaggi (Serena Bernardo, Rosaria Castaldo, Carlo Olivari e Mimmo Gagliardi), tutti legati per diversi aspetti alla divulgazione della cultura napoletana a tavola, per #sonocometumivuoi, uno stimolante contest creativo di assaggi. Tutti chiamati a fare i pizzaiuoli per un giorno e a realizzare le proprie idee di condimento. Tutti provvisti, tranne me, dei loro ingredienti per ideare pizze davvero mai viste e abbinamenti d’alta scuola che solo a vederli nelle vaschette mi prende l’ansia. Io armato dei più classici: pomodoro, fiordilatte e basilico. Punto sulla tradizione, ma incanalata nella tanto cara ricerca storica. Posso reggere il confronto solo dando un sapore e un aspetto diverso alla tradizione. Ed eccomi pronto a dar vita alla mia “Fior di margherita 1790”, in onore della pizza borbonica che precede la romantica leggenda della pizza inventata nel 1889 per la regina Margherita di Savoia.
Indosso il grembiule d’ordinanza e parto nel mio divertissement. Stimolante (ri)scrivere la storia con le mani in pasta, stendere il formidabile e soffice impasto di Peppe Pignalosa (che mi osserva divertito), accarezzarlo di San Marzano col cucchiaio, guarnirlo con il Fiordilatte tagliato a fette, disposte in modo radiale per disegnare i petali, con il pomodorino giallo Giagiù al centro a far da capolino, e con il basilico a tocco di foglie. Stupore e sorrisi alla vista dell’affresco, uno spettacolo emozionante solo a guardarlo crudo, prima di andare in cottura ed essere governato in pala dal sapiente addetto al forno a legna. Et voilà, pronta la margherita che parla di Napoli capitale e della rivoluzione alimentare dei Borbone di fine Settecento, quando la pizza è divenuta definitivamente rossa.
Di pizze ne assaporiamo tante, in uno stimolante panel di assaggi con gran riuscita di sapori per tutti i gusti, abbinati a diversi vini locali (la mia, con un Coda di Volpe). Bravi tutti, davvero! E per chiudere, la pizza fritta doc, stavolta approntata a regola d’arte da Pignalosa, che se non fosse eccezionale non ne avremmo per mandarla giù.
Perfetta l’atmosfera e bella la location, sulla via Benedetto Cozzolino, sospesa tra il golfo e il cono del Vesuvio, che ci offre Capri all’orizzonte. Nelle mie mani ancora l’esperienza sensoriale dell’impasto lavorato. Solo se la fai di persona puoi capire davvero una pizza. Bella “storia” davvero.
Il Napoli, la storia di un club che rispecchia una città
(l’articolo riprende alcuni passi del libro Dov’è la Vittoria, Magenes, 2015)
Angelo Forgione – 1 Agosto 1926, 1 Agosto 2015: 89 anni di storia azzurra ufficialmente contati all’anagrafe. La Società Sportiva Calcio Napoli entra nel suo novantesimo anno di vita e lo fa alla vigilia del sua partecipazione numero 73 alla massima divisione nazionale, che dal 1929 si disputa con la formula del girone unico (la Serie A). 2 Scudetti, 5 secondi posti e 9 terzi posti, questi i migliori risultati, al netto delle 5 Coppe nazionali vinte, delle 2 Supercoppe italiane e della
Coppa Uefa. È tra i 15 club almeno una volta Campioni d’Italia, il quarto della Penisola per bacino d’utenza. È il primo per passione, molto più di una squadra di calcio per il suo innamorato popolo, interpretato come unico vessillo sotto il quale cercare una dignità cancellata; è un’entità ingombrante che condiziona anche troppo gli umori cittadini; è il simbolo dell’auto-riconoscimento in una precisa identità culturale, in una squadra che porta il nome della propria città, della propria provincia, del territorio di appartenenza. La squadra azzurra è spesso indicata come veicolo di riscatto della Città, ruolo cui non può assolvere il Calcio, le cui emozioni non hanno alcun potere di risolvere seri problemi sociali. Il Napoli è invece a pieno titolo un simbolo di appartenenza e legame territoriale, il riferimento principe di una vasta provincia che, coi suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione; e non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a Roma, Milano, Torino e in tutti i maggiori centri del Vecchio Continente. Quella di Napoli è infatti una delle due grandi aree metropolitane europee che esprimono una sola squadra (l’altra è quella di Parigi). Nessuna delle 8 squadre di Londra rappresenta la grande metropoli britannica, ma è ognuna espressione delle differenze dei suoi quartieri. Roma è certamente un feudo giallorosso e i romanisti vivono con l’Urbe un legame solidissimo, ma il discorso si riequilibra allargando i confini, dove la coinquilina Lazio, che porta il nome della regione, raccoglie buon seguito. Gli juventini sono in ogni dove d’Italia, ma non più numerosi dei granata nell’area urbana di Torino, dove si è bianconeri soprattutto se figli o nipoti di immigrati del Sud. Spaccata in due è anche Milano, così come la più piccola Genova. A Napoli, invece, quella azzurra è religione identitaria monoteista, attorno alla quale gravitano culti esotici minori. In realtà il Napoli di anni ne ha quattro in più, quindi 93, perché il conteggio convenzionale parte dal cambio di denominazione da inglese ad italiano, dettato dall’applicazione della Carta di Viareggio, uno statuto ufficializzato proprio nell’agosto 1926 dal commissario straordinario della FIGC e presidente del CONI Lando Ferretti per mettere letteralmente il movimento calcistico italiano nelle mani del Fascismo. La storia del Napoli è dunque legata anche alla storia del Calcio tricolore e dello stesso Stivale. Ripercorriamola, partendo proprio dall’estate del ’26. Per ben 25 stagioni, il Nord-Italia ha monopolizzato il campionato italiano, rendendolo espressione del “triangolo industriale” appena nato e relegando le squadre centro-meridionali al ruolo di comprimarie, prima negandogli la possibilità di partecipare ai tornei che dal 1898 assegnavano il titolo di campione d’Italia e poi fingendo di ascoltarne le proteste nel 1912 con la concessione di una finalissima tra le squadre vincitrici di un Girone Nord (con Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto) e di un Girone Sud (con Toscana, Lazio e Campania). In realtà la FIGC di allora è ben conscia del divario esistente tra i due movimenti calcistici – uno in cui i soldi delle zone industrializzate hanno condotto al semiprofessionismo e l’altro ancora fermo al totale dilettantismo – e sa che le finalissime possono solo avere un valore pro forma senza alcun significato tecnico-agonistico. Il regime fascista, impegnato nel processo di “nazionalizzazione”, non può consentire che il Calcio italiano resti spaccato e mostri disgregazione sociale. Così, a prescindere dal divario tecnico esistente, sancisce l’unificazione delle leghe Nord e Sud in un’unica ‘Divisione Nazionale’. In modo coatto, le diverse squadre di Roma e Napoli vengono azzerate da varie fusioni imposte dall’alto, finalizzate alla creazione di sodalizi più solidi e più forti tecnicamente. Sotto al Vesuvio sgambettano i calciatori di squadre minori e quelli del più importante Internaples (nato dalla fusione sancita nell’ottobre del 1922 tra il Naples Football Club e l’U.S. Internazionale Napoli), che a luglio ha perso la finale Sud contro l’Alba Roma, a sua volta massacrata dalla Juventus nella doppia finalissima nazionale dell’8 e 22 agosto.

articoli digitalizzati de Il Mezzogiorno (12-13 e 25-26 agosto 1926)
Proprio in quel caldo mese, il giorno 2, la Commissione di Riforma dell’ordinamento della Federazione emana ufficialmente la ‘Carta di Viareggio’, e il 3 agosto l’Internaples ottiene l’affiliazione alla Lega Nazionale. L’assemblea dei soci, il giorno 25, scrive e formalizza il cambio di nome: da Foot Ball Club Internaples ad Associazione Calcio Napoli. Il regime fascista non gradisce gli inglesismi e il termine “Internazionale” ricorda l’Internazionale comunista, avversaria politica. Il presidente Giorgio Ascarelli, ricco commerciante napoletano di origine ebraica, suggerisce la più opportuna adozione del nome italiano della città.
I sodalizi del Nord protestano per le decisioni superiori, riunendosi più volte a Genova, Torino e Milano, ritenendo le 3 squadre di Napoli e Roma (a fronte di 17 settentrionali) inadeguate alla competizione e usurpatrici di posti spettanti al Calcio settentrionale. L’ostracismo, però, deve arrendersi alla volontà politica. Alle squadre meridionali tocca la resa sul campo, disastrose nell’impatto col “Calcio industriale”. Il Napoli conta sul veloce attaccante Attila Sallustro, un idolo, il primo idolo… e si identifica in uno stemma con il Corsiero del Sole,
un cavallo rampante e sfrenato, emblema della città capitale durante il Regno delle Due Sicilie, ma retrocede insieme all’Alba Roma e alla Fortitudo Roma, rimediando un solo punto in graduatoria. In un bar di ritrovo di via Santa Brigida, Raffaele Riano, uno sconfortato sostenitore azzurro, urla: «Ma quale cavallo! Sta squadra nostra me pare ‘o ciuccio ‘e Fichella: 33 piaghe e ‘a coda fracida». È quella l’immagine del Napoli, ma anche dell’intero Calcio meridionale. A quel pittoresco sfogo tipicamente partenopeo fanno seguito le fragorose risate dei presenti, che lo suggeriscono alla redazione di un giornale umoristico. Nei giorni seguenti, le edicole di Napoli diffondono l’illustrazione di un asinello incerottato e con una miserabile coda. Per espressione di popolo, il nobilissimo cavallo napoletano si trasforma in “ciucciariello”. Il Regime non si arrende e ripesca più volte le retrocesse pur di supportare il processo di unificazione tra Nord e Sud del Calcio italiano. Ascarelli garantisce investimenti e nel 1929 decide di abbandonare lo stadio militare dell’Arenaccia, prima casa azzurra, commissionando a proprie spese la costruzione di un nuovo impianto sportivo al Rione Luzzatti, in zona Gianturco, con tribune in legno per oltre 15mila spettatori. Viene inaugurato col nome di
Vesuvio il 23 febbraio 1930, diciassette giorni prima della prematura scomparsa del presidente (a 34 anni), cui, a furor di popolo, viene poi intitolato il nuovo stadio. La stagione si chiude con gli azzurri al 5° posto, finalmente competitivi. Scomparso Ascarelli, lo stadio viene requisito dal Regime, che, in vista dei Mondiali del 1934 in Italia, lo ristruttura in cemento armato, ne muta l’aspetto con una facciata imponente e maestosa in stile fascista e ne aumenta la capienza portandola a circa 40mila spettatori. È ribattezzato Stadio Partenopeo poiché il nome di un ebreo non è gradito per un simbolo fascista della modernità, nonché uno dei più fulgidi esempi di propaganda del regime al Sud. L’arena ospiterà la finale per il 3° e 4° posto del torneo iridato. Ma gran parte del movimento meridionale è ancora finanziariamente impreparato a sostenere le spese di gestione dei campionati, con gli incassi che al Sud sono di cinque volte inferiori di quelli del Nord. Il Napoli si ritrova ben presto ricoperto di debiti e l’ancora di salvezza giunge nuovamente dall’alto, per mano del Governo fascista: il segretario federale
di Napoli Nicola Sansanelli incarica del salvataggio il ‘Comandante’ Achille Lauro, noto armatore sorrentino, uno dei più importanti imprenditori italiani, che ha potuto ingrandire la propria flotta grazie agli agganci politici e pertanto non può di certo disobbedire alle volontà superiori. È il 1936 quando deve acquistare il club partenopeo per risanarlo e condurlo per circa 30 anni. Lo sfrutterà per ottenere gran popolarità e raggiungere importanti obiettivi politici e imprenditoriali. La prima retrocessione de facto in Serie B avviene nella stagione 1941-42, conclusa con un 17° posto, proprio mentre la Roma vince il primo tricolore, interrompendo il monopolio settentrionale. Se i capitolini si avvantaggiano della Guerra, i napoletani ne risultano fortemente penalizzati. I tanti calciatori italiani chiamati alle armi sono obbligati a pesanti trasferimenti nella Capitale, così abbandonando gli allenamenti, mentre quelli della Roma possono beneficiare del vantaggio di non doversi impegnare in faticosi viaggi e di potersi allenare col resto della squadra in una città immune dai bombardamenti fino al luglio del 1943. Le strategie belliche anglo-americane, particolarmente intense nei territori meridionali, colpiscono pesantemente l’apparato industriale e infrastrutturale di Napoli, la città più bersagliata, rasa al suolo da un centinaio di bombardamenti degli Alleati, che
designano la città quale principale obiettivo strategico nel Mediterraneo. È raso al suolo anche lo stadio Partenopeo, andando incontro ad un triste saccheggio prima di essere abbattuto definitivamente. Contrariamente alla Roma campione, il Napoli, impossibilitato ad allenarsi a dovere (i calciatori neanche dormivano la notte) e destinato alla retrocessione dal travaglio di una stagione tormentata, è costretto a trasferirsi al Campo sportivo del Littorio al Vomero (del 1929), poco dopo requisito dalle forze armate tedesche e utilizzato come campo di concentramento per i napoletani da deportare in Germania, uno dei luoghi simbolici delle Quattro giornate di Napoli.
Finita la guerra, i partenopei tornano a giocare in quell’impianto, ormai al limite dell’agibilità, e durante l’incontro Napoli-Bari del ‘46 (Serie A) una tribuna cede per l’esultanza accesa da un gol della squadra di casa: 114 feriti finiscono all’ospedale. Ci vogliono ben 13 anni per abbandonare una simile precarietà e inadeguatezza. Il 22 dicembre 1949, nonostante le invidie e le proteste di una casta milanese che governa la Lega Calcio, è deliberata dal Comune di Napoli, col supporto del CONI e del Governo (un miliardo di lire assegnato), la costruzione di un colossale stadio, ormai necessario. Achille Lauro si presenta alle elezioni comunali del 1952 e per attrarre consensi e voti si mette in testa di accendere la fantasia e i sogni dei tifosi napoletani. Con la cifra record di 105 milioni di lire brucia la concorrenza dell’Inter e mette a segno il colpo a sensazione all’hotel Gallia di Milano, acquistando dall’Atalanta Hasse Jeppson, centravanti della Nazionale svedese (terza ai
mondiali del ‘50). Un ulteriore rinforzo è l’argentino Bruno Pesaola, prelevato dal Novara. Lauro riesce a vincere alle urne, prendendosi la fascia di sindaco, ma la sua squadra non riesce a vincere il campionato. Nel 1955, a far coppia con Jeppson, arriva in azzurro il brasiliano Luis Vinicio, battezzato dai tifosi ‘o Lione. Ma neanche l’ingaggio del grintoso e possente centravanti serve affinché il Napoli lotti per lo Scudetto. La partita Napoli-Fiorentina (2-4) del 31 dicembre sul neutro dello stadi
o Olimpico di Roma (stadio del Vomero di Napoli squalificato) è la prima trasmessa in diretta televisiva al Sud. 7 giorni prima, esattamente alla vigilia di Natale, le trasmissioni televisive sono state estese fino a Napoli, immettendo un’importantissima superficie di 3 milioni di abitanti nella rete dei programmi Rai. Per vedere l’inaugurazione del nuovo stadio si deve attendere il 6 dicembre 1959, giorno in cui il Napoli prende possesso della sua nuova comoda casa, l’imponente stadio del Sole di Fuorigrotta, nuovo tempio del Calcio per circa 90.000 spettatori, poi ribattezzato San Paolo in ricordo dello sbarco dell’apostolo sulle coste flegree nel febbraio dell’anno 61, durante il suo viaggio dalla Giudea a Roma.
Miglior battesimo non può celebrarsi: sconfitta la Juventus di Omar Sivori (2-1), in una “assolata” giornata di fine autunno. Il primo trofeo nazionale giunge nel 1962, al culmine di una stagione in Serie B che regala la promozione e la Coppa Italia. Guidato in panchina da Bruno Pesaola, il club azzurro eguaglia il Vado vincendo la Coppa pur militando in cadetteria. Per
affrontare la Serie A Lauro ingaggia per sua decisione Faustinho Jarbas Cané, brasiliano d’ebano di Rio de Janeiro. È tra i primi atleti di pelle nera a calcare i campi italiani e ad ascoltare le offese da parte dei tifosi del Nord. Dalle giovanili viene promosso in prima squadra un promettentissimo Antonio Juliano. Tra sali e scendi dalla A alla B, Il 25 giugno del 1964 l’ A.C. Napoli soffocata dai debiti si trasforma in Società Sportiva Calcio Napoli. Primo
presidente della SSC è nominato Roberto Fiore, mentre Achille Lauro, ancora “coinvolto”, non versa una lira nel nuovo capitale sociale ma ottiene comunque il 40% delle azioni per i crediti vantati e il titolo di presidente onorario. La nuova denominazione porta decisamente bene, perché finalmente il Napoli si fa davvero competitivo con gli acquisti di Josè Altafini dal Milan e di Omar Sivori dalla Juventus. Arrivano un terzo posto e la vittoria della Coppa delle Alpi, un trofeo internazionale di livello minore (abolito nel 1987), ma anche le invidie di Lauro per Fiore, che non intende fermarsi: porta in dote pure 69mila abbonati e sfiora l’acquisto dal Cagliari del capocannoniere Gigi Riva. Finisce che al suo posto viene nominato Giacchino Lauro, rampollo del ‘Comandante’. Il secondo posto del campionato 1967-68, con in porta l’angelo azzurro Dino Zoff, alle spalle dell’irraggiungibile Milan, significa il miglior risultato mai raggiunto, mentre tra i dirigenti spunta lontano dai riflettori la figura di un giovane ingegnere, borbonico convinto, di padre calabrese e madre milanese, che ama le auto da corsa e i motoscafi veloci, spinto dall’ormai defilato Achille Lauro all’acquisto della maggioranza del club per beffare i soci nemici. Il 18 gennaio del 1969, a soli 37 anni, Corrado Ferlaino è eletto presidente. È un uomo scaltro, capace di tessere rapporti con le teste più importanti dell’ambiente calcistico e politico. Il club è sull’orlo del fallimento e nell’estate del 1972 cede alla Juventus Altafini e Zoff, quest’ultimo ormai elemento fisso della Nazionale, strappando al manager juventino Italo Allodi una promessa: un giorno dovrà lavorare per lui al Napoli. La squadra si piazza sul podio nel ’71 e nel ’74, e sfiora lo
Scudetto nel ’75, con l’ex calciatore Vinicio in panchina. ‘O Lione, nel solco del Calcio totale all’olandese, per primo attua il pressing, il fuorigioco e 4 difensori a zona nella patria del “catenaccio”, e sfiora il colpaccio, perdendo lo scontro decisivo a Torino contro la Juventus per un goal siglato a 2 minuti dal termine dall’ex Altafini, perciò soprannominato dai napoletani Core ‘ngrato. Fallito il tentativo, Ferlaino acquista dal Bologna il bomber Beppe Savoldi, sollevando scalpore per l’esborso della cifra record di 2 miliardi. Mister 2 miliardi da il suo contributo per la vittoria della Coppa Italia (’76), la seconda della storia azzurra (insieme alla Coppa di Lega Italo-Inglese). I tifosi inaugurano il canto di ‘O surdato ‘nnammurato, ma lo Scudetto resta una chimera. L’ingegnere va alla caccia del calciatore che possa fare la
differenza per sovvertire le gerarchie tra Nord e Sud. Nell’estate del 1978, in pieni Mondiali argentini, il tecnico del Napoli Gianni Di Marzio gli segnala un giovane campioncino dell’Argentinos Juniors di nome Diego Armando Maradona, ma le frontiere in Italia sono chiuse e Ferlaino non accetta di “parcheggiarlo” in Svizzera per un paio d’anni. Vuole calciatori affermati, e tenta l’acquisto del bomber Paolo Rossi dal Perugia. «A Napoli non andrò mai», dichiara in segreto l’attaccante italiano ad alcuni amici, facendosi intercettare dal giornalista Mimmo Porpiglia, pronto a pubblicare la notizia. L’affronto finisce in contestazione: il 20 ottobre ‘79, 89.992 spettatori paganti (record nella storia della Serie A) con fischietti alla bocca riempiono il San Paolo per lo sfizio di contestare l’autore del gran rifiuto sceso a Napoli con la maglia del Perugia. La caccia al fuoriclasse decisivo non si arresta e nell’estate del 1980, in pieno scandalo Totonero, alla riapertura delle frontiere, Corrado Ferlaino e il D.G. Antonio Juliano ingaggiano dai canadesi del
Vancouver Whitecaps Ruud Krol, faro difensivo dell’Olanda dal gioco totale con licenza di offendere. È a fine carriera ma ha ancora classe da vendere. Si innamora delle donne napoletane e delle mozzarelle di bufala, a tal punto da non poter disputare un’amichevole durante il ritiro in Toscana per un’indigestione. Con lui il Napoli sfiora nuovamente lo Scudetto, ma il sogno si incrina in primavera contro il Perugia già retrocesso, che espugna il San Paolo grazie ad uno sciagurato autogol iniziale di Moreno Ferrario, e si spezza con un’altra autorete di Mario Guidetti nello scontro diretto in casa alla penultima giornata contro la Juventus che getta nello sconforto una città intera pronta ad esplodere. Niente da fare, sembra proprio che per qualche maledizione lo Scudetto non debba mai scendere a Napoli. Krol, provato dagli infortuni, lascia Napoli nell’estate del 1984 proprio mentre il dirigente dell’Avellino Pierpaolo Marino viene a sapere tramite un mediatore argentino che quel campione argentino, finito al Barcellona due anni prima, è in rotta con il club catalano. Informa prima la Juventus, che rifiuta di trattarlo, e poi il Napoli. Maradona, già considerato il più talentuoso degli astri nascenti, vuole lasciare la Catalogna e si fionda senza esitazioni sulla prima squadra italiana che gli fornisce l’occasione di evadere dalla ricca prigione spagnola e volare nel campionato più importante del Globo (in quel momento). Il Barça pure vuole disfarsene, ma a caro prezzo. La trattativa è estenuante e si conclude in extremis, anzi oltre i termini consentiti. Il prezzo è oltre i 13 miliardi di lire, e il Napoli quei soldi non ce li ha. Ma nell’estate del 1984, in piene ruberie post-sisma nella Campania dei terremotati, dei disoccupati e dei cassintegrati, la politica democristiana decide di dare ai napoletani il calciatore dei sogni e il benefico divertimento. Nel Consiglio di Amministrazione del club figurarono i democristiani Clemente Mastella, Alfredo Vito e Guido
D’Angelo, rispettivamente in quota De Mita, Gava e Cirino Pomicino; uno per ogni corrente della Democrazia Cristiana. Il sindaco DC Enzo Scotti attiva un pool di banche per fornire la copertura finanziaria dell’operazione; il D.G. Juliano tratta a Barcellona e Ferlaino, con astuto blitz all’ultimo giorno utile, consegna una busta vuota negli uffici della Lega per poi volare in Spagna per le firme. Torna a Milano a notte fonda e, con l’aiuto di una compiacente guardia giurata, riesce a sostituire la busta vuota con una contenente il contratto firmato da Maradona. La città esplode in una festa improvvisa, e non ha vinto ancora nulla. Il 5 luglio il San Paolo è pieno come un uovo per vedere Maradona palleggiare e calciare lontano un pallone. Si inaugura così l’era d’oro del Napoli, ma nessuno sa ancora a che prezzo. Tutti intuiscono che ora, con el pibe de oro, il Napoli può vincere. Tutti comprendono che il più forte calciatore del mondo, se ben assecondato, può far saltare gli equilibri precostituiti e può condurre la collassata metropoli partenopea nella competizione
con i potentati economici del Nord Italia. Anche Italo Allodi capisce nel giugno del 1985 che è il momento giusto per onorare la promessa fatta a Ferlaino tredici anni prima. Lo affianca Pier Paolo Marino, proprio il dirigente dell’Avellino che ha dato la grande soffiata. Allodi, però, è improvvisamente coinvolto in uno scandalo bis del Totonero. Si parla di “sistema Allodi”, di partite sistemate, e il manager scoppia in lacrime per le accuse. Ne esce assolto “con qualche motivo di perplessità”, ma anche sconvolto: nel gennaio del 1987 viene colto da ictus ed è costretto ad uscire lentamente dal mondo del Calcio. Dopo quattro mesi tutto sembra dimenticato quando gli azzurri riescono a mettere finalmente le mani sullo Scudetto, sul primo storico tricolore. Maradona esulta
con Bruno Giordano, Salvatore Bagni, Andrea Carnevale, Fernando De Napoli, Alessandro Renica, Claudio Garella e l’esordiente Ciro Ferrara. È l’apoteosi per il popolo partenopeo che prepara la festa come una Piedigrotta d’altri tempi e si riversa nelle strade al fischio finale di Napoli-Fiorentina del 10 maggio ’87. È un evento anche per la RAI, che manda in prima serata e sulla rete ammiraglia uno show celebrativo condotto da Gianni Minà. Qualche giorno dopo si compie l’accoppiatta Scudetto-Coppa Italia, riuscita prima di allora solo a Juventus e Torino.
Il Napoli sostituisce Allodi con il suo allievo Luciano Moggi, scafato manager in grande ascesa che aveva mosso i primi passi alla Juventus proprio all’ombra dell’ormai “pensionato” e malato Italo. Il bis Scudetto sembra cosa fatta con la MA.GI.CA. Maradona-Giordano-Careca, un tridente formidabile completato dal funambolico e imprendibile fuoriclasse brasiliano, che sceglie Napoli e si libera dal suo San Paolo perché vuole a tutti i costi giocare con il fenomeno argentino. Il Napoli vola e sembra non avere rivali a tre quarti del campionato, ma ecco spuntare il Milan di Berlusconi e Sacchi, bravo a spingere sul finale e ad approfittare della brusca e improvvisa frenata degli azzurri. Il giocattolo sembra essersi rotto sotto le accuse di aver perso lo Scudetto di proposito. Si parla di un accordo politico occulto per far vincere il Milan ma anche di scommesse al mercato nero, di forti puntate sul bis tricolore degli azzurri che avrebbe fatto perdere agli allibratori della malavita qualcosa come 260 miliardi di lire. Alla fine pagano alcuni giocatori, cacciati dal club al contrario di Maradona, che inizia a mostrare insofferenza e fastidio nei confronti di Ferlaino, il quale continua a non mantenere la promessa fatta nel 1984 di accasarlo in una villa con piscina e a lasciarlo “recluso” in un appartamento di via Scipione Capece a Posillipo. Ma il ciclo del Napoli è ancora incompleto e così giungono la Coppa Uefa nel 1989 e il secondo Scudetto nel 1990, tra una richiesta e l’altra di Maradona di lasciare il club per campionati meno stressanti. Ma lui stesso sa che è prigioniero di Ferlaino e della venerazione che i napoletani gli riservano. Un fanatismo al confine col feticismo. Egli stesso si è fatto capopopolo, accostando i napoletani agli argentini e denunciando il razzismo italiano verso i “terroni”, lo stesso che ha provato in Spagna sentendosi additato come “sudaca”. Anche per questo ha odiato Barcellona e ora detesta Verona e tutti i campi del Nord dove legge striscioni su cui è scritto “lavatevi” e sente volgarità indegne. E detesta le tre “big” del Nord, polo di un potere che si diverte a sabotare sul campo. Arriva anche la prima Supercoppa, con un sonoro 5-1 alla Juventus dopo i Mondiali italiani, quelli che segnano la definitiva rottura tra l’Italia e il campione argentino, ormai troppo inviso ai vertici federali cui ha sottratto la finalissima e offeso durante l’inno argentino a Milano, Torino e Roma. È l’ultimo bagliore di una squadra che crolla sotto la tossicodipendenza del suo leader. Una tossicodipendenza nata a Barcellona e degenerata a tal punto da bloccare troppo spesso Maradona in casa, anche quando c’è da volare a Mosca per la Coppa dei Campioni. Le maglie dei controlli antidoping sono larghissime da anni ma stranamente si fanno strette e il campione argentino ci casca solo nell’aprile 1991, proprio nel giorno in cui Moggi annuncia alla stampa che il ciclo del Napoli è finito e lui
andrà via a fine stagione. Tenere in squadra un Maradona allo sbando che non incide più non conviene alle casse del club, che, per accontentare il suo fuoriclasse e mettergli attorno altri campioni negli anni, ha speso in ingaggi il 30% in più di quanto incassato. Ma neanche si può vendere l’idolo assoluto dei napoletani, l’orgoglio massimo della storia azzurra, più prezioso dei trofei portati alla bacheca azzurra, pena la sommossa popolare. La storia napoletana di Diego si conclude nel modo meno “catastrofico”. Il suo erede l’ha portato in casa proprio Moggi, e si chiama Gianfranco Zola. Gli sforzi economici, senza una grande holding alle spalle ma architettati da uno smaliziato costruttore edile, stanno per presentare il conto. Inizia una crisi che dura oltre un decennio, con continui passaggi della maggioranza a imprenditori incapaci di risollevare il club, uscite e rientri di Ferlaino, cessioni dolorose (Ciro Ferrara prima e Fabio Cannavaro poi), qualche soddisfazione targata Claudio Ranieri e Marcello Lippi, e tanta Serie B, dopo 33 anni consecutivi di permanenza nella massima serie. Il televenditore riminese Giorgio Corbelli e l’imprenditore alberghiero napoletano Salvatore Naldi liquidano l’ingegnere ma a tentare il disperato salvataggio resta solo il secondo, che cede nell’estate 2004 e porta i libri contabili in tribunale. Il 2 agosto 2004 la Società Sportiva Calcio Napoli viene decretata fallita. È questo il prezzo differito che il club paga per aver portato a Napoli il miglior calciatore del mondo, gli scudetti e le coppe. L’iscrizione al campionato di B è impossibile. Resta percorribile la strada dell’iscrizione alla Serie C1, ma bisogna assicurare una nuova proprietà e grandi investimenti. 6 possibili acquirenti si fanno avanti. La curatela fallimentare snobba la proposta d’acquisto del plateale presidente del Perugia Luciano Gaucci e si orienta verso quella più seria del proprietario dell’Udinese Giampaolo Pozzo, il quale ha tutto l’interesse a portare la regina del Sud in
orbita friulana. Ma ecco che all’improvviso compare sulla scena il cineasta romano di famiglia napoletana Aurelio De Laurentiis, che con un blitz convincente fa suo il club. Il nuovo proprietario riporta subito a Napoli Pierpaolo Marino e, in tre stagioni, la Serie A. Il 10 giugno 2007, col pareggio in trasferta contro il Genoa, esplode una nuova festa in Città. Stavolta sono i più giovani ad animarla, quelli che negli anni Ottanta non erano nati, e che sono cresciuti vedendo la squadra del cuore arrancare nelle serie minori. Il Napoli di De Laurentiis cresce e raggiunge anche l’Europa, prima quella minore e
poi quella dei Grandi. Torna pure il profumo di Scudetto con il trio Cavani-Lavezzi-Hamsik diretto da Walter Mazzarri, ma il primo trofeo della nuova Era è la Coppa Italia, la quarta della storia, nell’indimenticabile finale del 20 maggio 2012 a Roma contro la Juventus. Due anni dopo, il 3 maggio 2014, sempre a Roma, anche la quinta coppa nazionale contro la Fiorentina, macchiata dall’aggressione a mano armata che causa la morte del
tifoso Ciro Esposito. Stavolta in panchina c’è il vincente tecnico spagnolo Rafa Benitez, tra i più quotati del mondo, che ha il compito di accompagnare il Napoli in una crescita di respiro internazionale. Ma le sue aspettative e quelle dei tifosi non vengono appagate fino in fondo, nonostante la vittoria della seconda Supercoppa in un’interminabile finale a Doha conclusa ai rigori contro la rivale di sempre: la Juventus. Il monte ingaggi è cresciuto con 70 milioni di investimento e 135 milioni per i cartellini di calciatori importanti, su tutti l’argentino Gonzalo Higuain, uno dei più completi attaccanti al mondo, chiamato a sostituire il partente Cavani. Due mancate
partecipazioni alla Champions League creano un danno alle floride casse sociali e fanno rinunciare al progetto, anche se la squadra accede all’Europa per il sesto anno consecutivo (record corrente della Serie A) e prosegue in un ciclo che, in quanto a risultati e vittorie, è secondo solo a quello oneroso dell’Era Maradona. L’abiura si chiama Maurizio Sarri, una scommessa che segna un nuovo corso tutto da scoprire, mentre il club targato De Laurentiis divide i tifosi per l’impostazione aziendale a carattere familiare e per la parsimonia che tiene lontano lo spettro del dissesto; uno spauracchio ora esorcizzato ma che ha accompagnato l’azzurro per ottant’anni, compresi quelli d’oro degli Scudetti in cui la bigliettazione allo stadio rappresentava il 90% del fatturato (altri tempi). È la prima volta che accade nella storia di un club che è massima espressione calcistica di un territorio, quello meridionale, che non supera il 20% di presenza delle proprie squadre al Massimo Campionato, capace di vincere solo 8 scudetti contro i 103 del calcio settentrionale. La storia insegna che non si impara nulla da essa, ma quella azzurra deve invece inorgoglire i suoi tifosi a prescindere dai traguardi raggiunti, dai grandi campioni che l’hanno scritta e dai tanti travagli vissuti. Essere tifosi del Napoli, in ogni parte del mondo, vuol dire sostenitore un club unico come la Città che rappresenta, e dei cui affanni è specchio fedele, così come della sua ineguagliabile volontà di non chinare la testa, nonostante tutto. Auguri, Napoli. Auguri, passione azzurra.
Pizza “margherita” e la verità che avanza a NYC
Angelo Forgione – La vera storia dell’orgine della pizza “margherita” si fa sempre più largo e approda anche a New York, dove il napoletanissimo Rosario Procino, comproprietario insieme a Pasquale Cozzolino della pizzeria napoletana “Ribalta” nel moderno Greenwich Village, facente parte degli unici tre locali newyorchesi con certificazione dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, ha raccontato la pizza napoletana ai lettori del magazine i-Italy, attingendo da quanto divulgato in questo blog e in Made in Naples (Magenes, 2013). Nel suo scritto si legge testualmente che “ciò che noi conosciamo oggi come Pizza (pomodoro e mozzarella, per essere chiari), molto probabilmente nasce 300 anni fa a Napoli, ma anche se le origini geografiche sono ben definite, non possiamo essere sicuri circa la sua data di nascita. La storia ci dice che la Pizza Margherita è stata inventata nel 1889 in occasione della visita della regina Margherita di Savoia a Napoli. Negando questa narrazione, molti pensano che questa sia stata la più grande campagna promozionale del secolo per la commercializzazione di una pietanza. L’Italia, allora, era stata da poco unificata e i Savoia cercavano consensi in tutta una popolazione che non accettava l’unificazione d’Italia, percepita come un’invasione più di ogni altra cosa. Servire un piatto della tradizione napoletana con i colori della nuova nata bandiera d’Italia (il rosso del pomodoro, il bianco della mozzarella e il verde del basilico) fu un modo geniale per portare la Regina più vicina al cuore dei napoletani. Alcuni libri storici testimoniano la presenza di una pizza Margherita già all’inizio del 1800, cento anni prima della visita della regina piemontese, e attribuiscono il nome al fiore margherita per via della somiglianza tra i suoi petali e le fette di mozzarella.
Forum “Made in Naples” al Castel dell’Ovo
Nella sala Megaride di Castel dell’Ovo, si è svolto mercoledì 30 ottobre il forum di discussione Made in Naples: Napoli: la cultura come motore di sviluppo, che ha messo insieme il mondo della cultura e dell’imprenditoria napoletana. Il dibattito, moderato da Katiuscia Laneri, ha proposto le esperienze di Marco Esposito, Pino Imperatore, Angelo Forgione, Enrico Durazzo, Francesco Menna, Giuseppina Mele e Vittorio Pappalardo, che con le loro esperienze sono in grado di riaccendere l’orgoglio della “napoletanità” attraverso la conoscenza della cultura e della storia di Napoli, ma anche delle capacità imprenditoriali e della creatività.
Il forum è stato voluto da Confartigianato Napoli e dal suo presidente Enrico Inferrera e dall’Associazione culturale Napoli terra del Sud in collaborazione con l’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, col sostegno della Camera di Commercio di Napoli e con il Patrocinio della Regione Campania, della Provincia di Napoli e del Comune di Napoli. L’idea è quella di dar vita ad uno “spazio aperto”, un laboratorio non solo di idee ma di proposte concrete da realizzare a breve con il contributo ma anche il lavoro e l’impegno di chi ama questa città senza protagonismi e senza condizionamenti di alcun genere.
La faccia straniera de “Il Mattino”
La faccia straniera de “Il Mattino”
seconda puntata del dibattito storico col quotidiano di Napoli
Il contraddittorio con il direttore de “Il Mattino” di Domenica scorsa in merito alla napoletanità dei Borbone di Napoli (sembra uno scherzo ma non lo è) ha avuto un seguito interessante utile, perchè no, ad approfondire la nostra storia. Virman Cusenza aveva replicato su Twitter invitando ad arrenderci alla storia in quanto i Borbone erano una casata straniera impiantata a Napoli. Ebbene, la storia ci dice che i Borbone sono un ramo cadetto della dinastia dei Capetingi di Francia divisosi in tre linee regali: quella di Francia, quella di Spagna e quella delle Due Sicilie. È chiaro a tutti che a Napoli non nascono i Borbone ma quattro dei cinque Re Borbone di Napoli. Insomma, se chi legge è nato a Napoli come il padre, il nonno e il bisnonno ma ha un trisnonno spagnolo, per Cusenza non è napoletano ma impiantato.
Discussione che non sarebbe il caso di proseguire se non fosse che, guarda caso, proprio a tre giorni dalla piccola polemica storica è apparso su “Il Mattino” del 21 Marzo un articolo a firma Gigi Di Fiore dal titolo “I Borbone, con quella faccia da stranieri” che non sembra affatto casuale. Il titolo, conoscendo l’autore, stupisce più del tempismo; ma scorrendo nella lettura, si legge che “Certo, l’unica dinastia che, dopo cinque generazioni di re, poteva considerarsi autoctona fu quella dei Borbone. (…) I Borbone divennero napoletani, ma erano spagnoli di provenienza”.
In definitiva, l’articolo sembra avere un titolo “pensato” dal direttore Cusenza ma basta leggere approfonditamente per intuire che Di Fiore “asseconda” il titolo stesso con una verità interpretabile dai due diversi punti di vista. Basta invertire l’ordine della frase: “I Borbone erano spagnoli di provenienza ma divennero napoletani” e il gioco è fatto.
Carlo III si considerava napoletano a tutti gli effetti, gli altri quattro discendenti lo erano. Pensavano, parlavano e mangiavano in napoletano. Francesco II, Borbone di Napoli da quattro generazioni, all’epilogo dell’assedio di Gaeta con cui il regno napoletano fu spazzato via dai Savoia, scrisse così al suo popolo: «Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altr’aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni».
Documentario: FENESTRELLE, LAGER DEI SAVOIA
Documentario: FENESTRELLE, LAGER DEI SAVOIA
come venivano uccisi i prigionieri napoletani (e Napoli)
È online il documentario RAI sulla fortezza di Fenestrelle, misteriosamente danneggiato il 20 Marzo dall’anticipo della messa in onda rispetto all’orario programmato e dall’oscuramento della stessa trasmissione sul territorio nazionale nei venti minuti finali che ha scatenato la protesta dei meridionali all’indirizzo della redazione della TV di Stato.
Si tratta di una delle pochissime testimonianze di una corretta lettura di certi avvenimenti “censurati” dalla propaganda risorgimentale che ha nascosto il luogo dove comincia e finisce la storia di migliaia di italiani prigionieri di altri italiani, deportati in veri e propri campi di concentramento. La storia dei prigionieri di guerra del Regno delle due Sicilie fatti morire di freddo e fame dai piemontesi. Ma anche la storia della distruzione del tessuto sociale, economico e industriale del meridione pre-unitario.
parte 1
parte 2
“Malaunità – 1861-2011, 150 anni portati male”
“MALAUNITA’, 150 ANNI PORTATI MALE”
il libro che tutti gli italiani dovrebbero leggere
Libro + CD
Autori: Pino Aprile, Lorenzo Del Boca, Gigi Di Fiore, Ruggero Guarini, Lino Patruno e altri.
Prefazione: Jean-Noel Schifano.
Con interventi di: Felice Abbondante, Antonio Boccia, Pompeo De Chiara, Gennaro De Crescenzo, Angelo Forgione, Vincenzo Gulì, Giuseppe Picciano, Alessandro Romano, Lorenzo Terzi.
A cura di: Salvatore Lanza e Gennaro De Crescenzo.
Descrizione: Volume in 8° (cm 21 x 15); 174 pagine; alcune illustrazioni in b/n
Il cd contiene i brani: “Malaunità” (Eddy Napoli), “Suonno ‘e libertà. Fenestrelle” (Salvatore Lanza, Eddy Napoli)
Le celebrazioni dei 150 anni potevano essere l’occasione per approfondire temi ancora attuali e ricchi di implicazioni spesso negative per l’Italia stessa e soprattutto per il Sud dell’Italia, l’ex Regno delle Due Sicilie. È prevalsa, invece, la retorica dei festeggiamenti sulla serietà della ricerca. La stessa retorica che, tra luoghi comuni, mistificazioni e conformismi, ha caratterizzato in maniera unilaterale e spesso superficiale la storiografia ufficiale, con i risultati e i danni che conosciamo nella costruzione di una vera identità nazionale. Di qui la necessità di altre storie e di altre voci.
Dalle parole di “rabbia, ragione e amore” di Schifano all’analisi “nuda e cruda” di Del Boca, dalle ironie amare di Guarini alle ricerche inedite di Di Fiore sui rapporti tra origini del Paese e criminalità, dalle riflessioni tra passato e futuro di Patruno a quelle sulla “nazione duale” di Pino Aprile, “reduce” dallo strepitoso successo di Terroni; gli scenari internazionali che fecero da contesto ai fatti (Abbondante), il quadro economico pre e post- unitario (Gulì), le troppe storie sconosciute del “brigantaggio” (Romano), la battaglia contro i luoghi comuni e le falsità storiche (De Crescenzo), le 100 domande (ancora senza risposta) di Lanza e Picciano, le citazioni più significative (e non a caso meno famose) ritrovate da De Chiara e Forgione, i tanti primati pre-unitari spesso inediti (Boccia), le ricche e preziose indicazioni di fonti archivistiche e bibliografiche (Terzi), fino alla sintesi musicale e poetica di Eddy Napoli.
Ognuno con il suo stile, ognuno con le sue idee, ognuno libero di collocare un piccolo mattone nella necessaria e urgente ricostruzione della verità storica.
Tutti uniti dal rispetto e dall’amore per memorie e radici comuni. Con l’esigenza non di “rivedere” ma di scrivere ex novo la storia del cosiddetto “risorgimento”.
“Malaunità” è un piccolo dossier realizzato da un gruppo di affermati giornalisti e di attenti ricercatori che si sono sostituiti ai tanti intellettuali che in 150 anni di Italia unita non hanno mai avuto il coraggio di affrontare l’argomento “unificazione” in modo diverso, non si sono mai spostati di un centimetro dalle loro posizioni e che non hanno approfondito in modo oggettivo e sereno eventi risalenti ad appena 150 anni fa.
«Questo libro a più voci è ammirevole, fecondo e luminoso ed era indispensabile per ritrovare la memoria della “nostra” Storia». Jean-Noël Schifano.
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MALAUNITA’ a Marcianise
MALAUNITA’ – Forgione, De Chiara e Gulì a Marcianise
il 15 Aprile alle 18:30 al centro “Ave Maria”
L’associazione “Amici del libro” di Marcianise presenta “MALAUNITA’, 1861-2011 Centocinquant’anni portati male”, un incontro con Angelo Forgione, Pompeo De Chiara e Vincenzo Gulì, tre dei tanti prestigiosi giornalisti e meridionalisti autori del libro-verità diretto alle coscienze degli italiani e capace di illuminare su nascita e sviluppo dell’Italia dall’unità ad oggi.
Gli interventi riguarderanno i risvolti sociali (Forgione), politici (De Chiara) ed economici (Gulì) di quella unità, fatta con metodi sbagliati ancora oggi “segretati”, che avviò purtroppo la questione meridionale ancora drammaticamente attuale.
Appuntamento alle ore 18:30 al centro “Ave Maria” della parrocchia SS. Annunziata di Marcianise in Via San Giovanni Bosco n.34.
info: www.amicidellibro.it
Sempre alle 18:30, “Malaunità” sarà presentato a Boscoreale da Eddy Napoli, Gennaro De Crescenzo e Salvatore Lanza, presso la Cappella di Palazzo Zurlo.
Dalle parole di “rabbia, ragione e amore” di Schifano all’analisi “nuda e cruda” di Del Boca, dalle ironie amare di Guarini alle ricerche inedite di Di Fiore sui rapporti tra origini del Paese e criminalità, dalle riflessioni tra passato e futuro di Patruno a quelle sulla “nazione duale” di Pino Aprile, “reduce” dallo strepitoso successo di Terroni; gli scenari internazionali che fecero da contesto ai fatti (Abbondante), il quadro economico pre e post- unitario (Gulì), le troppe storie sconosciute del “brigantaggio” (Romano), la battaglia contro i luoghi comuni e le falsità storiche (De Crescenzo), le 100 domande (ancora senza risposta) di Lanza e Picciano, le citazioni più significative (e non a caso meno famose) ritrovate da De Chiara e Forgione, i tanti primati pre-unitari spesso inediti (Boccia), le ricche e preziose indicazioni di fonti archivistiche e bibliografiche (Terzi), fino alla sintesi musicale e poetica di Eddy Napoli.
Ognuno con il suo stile, ognuno con le sue idee, ognuno libero di collocare un piccolo mattone nella necessaria e urgente ricostruzione della verità storica.
Tutti uniti dal rispetto e dall’amore per memorie e radici comuni. Con l’esigenza non di “rivedere” ma di scrivere ex novo la storia del cosiddetto “risorgimento”.
Malaunità è un piccolo dossier realizzato da un gruppo di affermati giornalisti e di attenti ricercatori che si sono sostituiti ai tanti intellettuali che in 150 anni di Italia unita non hanno mai avuto il coraggio di affrontare l’argomento “unificazione” in modo diverso, non si sono mai spostati di un centimetro dalle loro posizioni e che non hanno approfondito in modo oggettivo e sereno eventi risalenti ad appena 150 anni fa.
“Questo libro a più voci è ammirevole, fecondo e luminoso ed era indispensabile per ritrovare la memoria della “nostra” Storia”. (Jean-Noël Schifano)
MALAUNITA’, presentato il libro-verità a Napoli
MALAUNITA’, presentato il libro-verità a Napoli
Sala della Loggia affollata al Maschio Angioino
In piena controtendenza rispetto alle manifestazioni dei 150 anni dall’Unità d’Italia è stato presentato nella Sala della Loggia del Maschio Angioino il libro “Malaunità – 1861-2011, 150 anni portati male”. Il volume, firmato da giornalisti del calibro di Lorenzo del Boca, Gigi Di Fiore, Lino Patruno, Ruggero Guarini, Pino Aprile, con Eddy Napoli, Gennaro De Crescenzo, Salvatore Lanza, Angelo Forgione ed altri, offre una lucida ricostruzione dei fatti risorgimentali alla luce di quanto essi hanno penalizzato il Meridione d’Italia. Il ‘libro-verità’ ha il duplice scopo di ricordare agli Italiani le menzogne storiche sull’Unità nazionale, e fare in modo che le nuove generazioni sappiano cosa ha significato per il sud Italia, depredato e martirizzato, l’unità sancita nel 1861.
intervista a Lorenzo del Boca su Radio Marte