Angelo Forgione – Neanche tanto velato l’attacco che Flavio Briatore ha mosso ai pizzaiuoli napoletani, colpevoli di vendere pizze a 4/5 euro, chissà con quale qualità.
Diciamola tutta… Prima che l’imprenditore cuneese facesse soldi con la pizza, la pizza napoletana esisteva da quattro secoli, radicandosi nella tradizione partenopea in quanto cibo popolare, capace di sfamare i poveri, partendo dai vicoli di Napoli. Sulla pizza si è oggi costruito un grande business che tende a stravolgerne l’identità, traducendola in un piatto costoso. E così Briatore ci mette su perfino il prosciutto spagnolo Pata Negra, e la vende nella centrale via Vittorio Veneto, così come Cracco vende la sua pizza nel salotto elegante di Milano (la Galleria Vittorio Emanuele II). Nella pizzeria di Briatore non si va tanto per mangiare bene e fare un’esperienza gustativa ma per dire di essere andati nel locale di Briatore, farsi un selfie e dimostrare ad amici e parenti di poter spendere anche 65 euro per una pizza da gente facoltosa nel cuore di Roma. Insomma, un concetto completamente opposto a quello che ha dato i natali al cibo più pop del mondo, che in certi quartieri di Napoli, là dove è appunto nato, si riesce ancora a gustare a prezzi popolari, e ci si va esclusivamente per mangiare una discreta pizza dal sapore retrò, al minimo costo consentito dal mercato locale. Tanto per fare un esempio, una “margherita” da Progiobbo ai Quartieri Spagnoli, una storica pizzeria come quelle della vera tradizione, la si paga 5 euro ma non è affatto un mattone con il laghetto di pomodoro sopra. Anzi, è decisamente buona e digeribile, non meno di quella di Briatore, che la vende a 15 euro perché è in via Veneto e non in via Speranzella.
In certe pizzerie di Napoli il prodotto non è di buon livello, ma nella media si mangia una pizza di buona qualità in ogni quartiere. Come in tutta Italia, dove in tempi di guerra una pizza “margherita” preparata con prodotti normali non costa più di 1€ al pizzaiolo, e non più di 2€ se fatta con prodotti di alta qualità, anche a Napoli ad incidere sul prezzo sono i fitti (diversi di zona in zona) e tutti i costi aggiuntivi. Quelli del personale, ad esempio, ed è qui che va semmai aperto il dibattito, perché il problema della pizza napoletana non sono gli ingredienti (il napoletano sa riconoscere una pizza buona da una cattiva, e non torna dove non l’ha ben gustata) ma, spesso, le paghe (basse) per il personale di servizio. Cioè, per privilegiare il consumatore, che chiede la pizza napoletana a prezzo popolare, si finisce talvolta per penalizzare il lavoratore. È di questo che bisognerebbe discutere, dato per inteso che con i tempi che corrono si fa davvero fatica a stare dentro ai prezzi di qualche mese fa.
Ritorno al principio, e ricordo a Briatore che le pizzerie, a Roma come altrove, sono nate solo nel dopoguerra, ed è accaduto perché i soldati americani avevano conosciuto la pizza in patria, lì importata dai napoletani nel primissimo Novecento, e pensavamo di trovarla dappertutto in Italia. Non sapevamo che era una tipicità di Napoli, che gli italiani non mangiavamo perché, come scrisse Carlo Collodi, era ritenuto “un sudiciume complicato” da napoletani. E ora con quel sudiciume c’è chi fa grandi fatturati, provando a insudiciare chi ancora porta avanti un’antica tradizione con grande rispetto per il prodotto.
«Io sono un genio — dice Briatore — e voi non lo siete: questa è la differenza». Be’… i geni inventano, e l’invenzione è dei napoletani. Briatore nulla si è inventato. È semplicemente uno come tanti che hanno puntato sul cibo più diffuso nel mondo, sfruttando la polemica con i pizzaiuoli napoletani per farsi pubblicità. Sai che novità?
Il fatto è che Briatore non conosce neanche la storia della pietanza con cui fa soldi. Dice che non è vero che la pizza è di origine napoletana, e che, se lo è, gli altri l’hanno migliorata. Di certo non lui, che non usa lievito e fa la piadina aperta.
Ma a chi permettiamo di parlare di arte dei pizzaiuoli napoletani Unesco? A un ignorante che fa da spalla a Cruciani. Suvvia!
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