L’Amatriciana tradizionale è STG!

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province_regnoAngelo Forgione Vicenda anticipata e seguita da prima che si originasse, ed ecco l’ufficialità: la Amatriciana tradizionale, quella originale, nata nei territori abruzzesi dei Borbone quale connubio culinario di Amatrice e Napoli, ha ufficialmente ottenuto il riconoscimento STG dall’Unione Europea, ed è ufficialmente la terza Specialità Tradizionale Garantita italiana, dopo la Mozzarella e la Pizza napoletana. Tutte eccellenze nate nel Regno di Napoli, anche se troppi credono che l’ultima sia nata nello Stato Pontificio.
Il percorso intrapreso dal Comune di Amatrice nel 2015 per affermare orgogliosamente la ricetta originale dei Monti della Laga da imitazioni romane e contraffazioni di ogni sorta è giunto al traguardo europeo con successo.

Prima di approfondire e particolareggiare la ricostruzione della vera origine della pietanza per la scrittura de il Re di Napoli, ne avevo tracciato l’origine con un articolo scritto nel gennaio 2014. Dopo quattordici mesi iniziò il percorso di tutela della ricetta originale.
leggi l’articolo

Marzo 2015
Il Comune di Amatrice approva il disciplinare per la “Salsa all’Amatriciana De.Co. (Denominazione Comunale)” con delibera di giunta n.27 del 06.03.2015. Nel disciplinare è testualmente precisato quanto segue:

“l’introduzione nella ricetta del pomodoro è intervenuta alla fine del diciottesimo secolo quando i Napoletani, tra i primi in Europa, riconobbero i grandi pregi organolettici del pomodoro, e così anche gli Amatriciani, il cui territorio ricadeva nel Regno di Napoli, ebbero modo di apprezzarlo e, con felice intuizione, l’aggiunsero agli ingredienti della ricetta originale.
Erroneamente alcuni attribuiscono l’Amatriciana alla cucina Romana, avendo perduto la memoria storica del fatto che furono invece i pastori, che con gli spostamenti stagionali della transumanza verso le campagne romane, fecero conoscere questa ricetta nella città dei Papi”.

www.comune.amatrice.rieti.it/deco/disciplinare_salsa_amatriciana.pdf

Agosto 2016
Il terremoto del Centro Italia colpisce i territori di Amatrice a tre giorni dalla sagra dell’Amatriciana. La pietanza diventa il simbolo della resistenza e della solidarietà attraverso una raccolta fondi dei ristoratori italiani che fa il giro del mondo.

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Gennaio 2018
Il Comune di Amatrice deposita la domanda di registrazione del Disciplinare di produzione dell’Amatriciana tradizionale STG (Specialità Tradizionale Garantita).

Novembre 2019
La domanda di registrazione del Disciplinare di produzione dell’Amatriciana tradizionale STG viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 20.11.2019. Agli eventuali oppositori vengono dati tre mesi di tempo per poter presentare nuove e diverse documentazioni storiche.
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX%3A52019XC1120(02)

Marzo 2020
In assenza di opposizioni, la Commissione dell’Unione Europea registra e adotta ufficialmente la denominazione “Amatriciana Tradizionale STG” con regolamento di esecuzione (UE) 2020/395 del 06.03.2020.
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX%3A32020R0395

 

La vera Amatriciana (abruzzese napolitana) verso il marchio STG

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Angelo Forgione – Ormai ci siamo quasi: tre mesi e la ricetta originale degli spaghetti all’Amatriciana di Amatrice, quella abruzzese di contaminazione napoletana, sarà riconosciuta dalla UE e tutelata da falsi e imitazioni.
La Commissione europea ha infatti pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue, la domanda di registrazione della vera “Amatriciana Tradizionale”, che sarà presto riconosciuta ufficialmente col marchio STG (Specialità Tradizionale Garantita) e protetta contro coloro che hanno declinato il piatto alla romana o a modo proprio.

Nella domanda presentata dal Comune di Amatrice, al punto 4.3., si chiarisce espressamente l’appartenenza della ricetta alla cucina montanara abruzzese e l’influenza napoletana:

Rielaborando ed arricchendo questa elementare preparazione pastorale [la gricia abruzzese] e con l’introduzione del pomodoro intervenuta all’inizio dell’800, la popolazione di Amatrice ha dato vita ad uno dei piatti più conosciuti della tradizione italiana.
Infatti, quando alla fine del 1700 i Napoletani, tra i primi in Europa, riconobbero i grandi pregi organolettici del pomodoro, anche gli Amatriciani, che ricadevano nella giurisdizione del Regno di Napoli fin dal XIII secolo, ebbero modo di apprezzarlo e con felice intuizione l’aggiunsero al guanciale stagionato che ha reso così succulenta una salsa per la pasta la cui fama ha varcato i confini nazionali per affermarsi anche nella cucina internazionale.

Erroneamente un po’ tutti attribuiscono l’Amatriciana alla cucina romana, ignorando che furono invece i pastori abruzzesi, con gli spostamenti stagionali della transumanza verso le campagne laziali, a far conoscere questa ricetta a Roma e dintorni.
La storicamente abruzzese Amatrice è oggi provincia della laziale Rieti per riorganizzazione geografica del fascismo, ma territorio appartenuto alla provincia de L’Aquila fino al 1927 e al Regno delle Due Sicilie fino ai plebisciti d’annessione del 1860, e dunque l’Amatriciana originale non ha nulla a che fare con Roma e l’antico Stato Pontificio, come ho spiegato a Radio Rai mesi fa.

Anni fa, quando iniziai a divulgare questa verità, gli ignoranti mi insultavano e deridevano. Oggi possono approfondire la storia dell’Amatriciana sul mio Il Re di Napoli (Magenes, 2019), dove ho definito questa prelibatezza “salsa nuziale del Regno di Napoli, felice matrimonio tra l’Appennino e la costa”.

 

La vera storia della pizza margherita a ‘Melaverde’

Yuri Buono, giornalista pubblicista e imprenditore nel settore food, legge Made in Naples e racconta la vera nascita della pizza ‘margherita’, svelando il vero segreto della qualità napoletana, nella trasmissione ‘Melaverde’ di Canale 5.

Tipiche polemiche napoletane per il record della tipica pizza napoletana

Angelo Forgione La pizza Guinness dei Primati, la margherita più lunga del mondo, è stata sfornata sul Lungomare di Napoli. 1.853,88 metri di prodotto cotto a legna che hanno scalzato la pizza cotta elettricamente di 1.595,45 realizzata appena un anno fa a Milano, durante l’Expo. 250 pizzaiuoli si sono dati appuntamento per l’evento “L’Unione fa… la pizza più lunga del mondo”, coprendo circa due chilometri di tavolo allestiti per l’occasione sulla splendida cornice del Lungomare di via Caracciolo e via Partenope. Dopo sei ore e undici minuti, il risultato è stato certificato dai giudici dei Guinness World Record. 100 metri all’ora la portata di cottura di ognuno dei cinque forni a legna mossi da motori elettrici che, oltre ai prodotti campani doc, hanno garantito il rispetto del disciplinare del prodotto STG.
Record e sorrisi, ma anche proteste per lo spreco alimentare e per i disagi cittadini in un giorno feriale, dopo il rinvio di domenica per maltempo. Spreco indubbio: 2 tonnellate di farina e altrettante di fiordilatte, 1,6 tonnellate di pomodoro, 30 chilogrammi di basilico e 200 litri d’olio, al netto della legna da forno. Solo un quarto del prodotto è finito in beneficenza e a tarda sera tanta era la pizza rimasta sul chilometrico banchetto per motivi igienici e pratici. Ma è chiaro che si sia trattato di un evento promozionale, finalizzato al ritorno d’immagine in termini mediatici per un piatto tipico che mira all’Unesco. Con il record in tasca, la sfida si sposta a Parigi, dove è in gioco la candidatura della “Arte dei Pizzaiuoli Napoletani” alla lista dei patrimoni immateriali dell’umanità. Ritorno anche in termini turistici per una città in pieno slancio ricettivo. Sprecare cibo è immorale ma è anche vero che l’immagine e il turismo necessitano di investimenti e sacrifici per comunicare al mondo. Soprattutto dopo l’Expo milanese, in cui, peraltro, l’analoga performance non aveva incontrato alcuna polemica ma solo esposizione mediatica (come nei precedenti record). Il risultato è che l’immagine della lingua di pizza sul mare del golfo più bello del mondo, nella città dell’intramontabile tradizione gastronomica e della pizza stessa, sta facendo il giro del globo.
Scrivo in uno dei miei libri: “A impattare, oggi, sono le ombre, quelle che proprio certi napoletani, bravissimi a vendere e non a vendersi, sono pronti a reclamizzare con ineffabile autolesionismo, per la gioia dei forestieri, cui non pare vero di poterle sdoganare in ogni dove”. La vicenda pizza-record è paradigmatica. Se i napoletani tutti non capiranno che i soldi spesi per generare soldi non sono mai sprecati, e che loro stessi devono sapersi vendere, non riavranno mai i flussi turistici che le miserie della guerra prima e le leggende sul colera poi, complici le deformi narrazioni dei media, gli hanno sottratto.

A New York nasce la dieta della pizza napoletana STG

cozzolinoAngelo Forgione Pasquale Cozzolino, executive chef partenopeo del ristorante Ribalta di New York, non sforna solo le migliori pizze napoletane STG nella “grande mela” ma dimostra ai newyorkesi che la cucina di Napoli è anche genuina e salutare. Con una dieta iniziata lo scorso settembre, ha perso tutti i chili acquisiti negli States, dopo il suo trasferimento da Napoli nel 2011. Era nel suo peso forma, ma per comprendere la ristorazione americana ha dovuto mangiare di tutto, compreso snack e bibite gassate, e ha messo molti chili di troppo, a tal punto da spaventare i parenti quando è tornato a visitarli in Italia. Ha iniziato ad avere problemi alle ginocchia, alla schiena e pure allo stomaco. Quando il suo medico americano gli ha detto che rischiava seri problemi cardiaci, ci ha dato un taglio, ha ricominciato a mangiare alla mediterranea e ha ripreso il suo peso ideale, perdendo 45 chili. Sperimentata su di sé una nuova dieta: una pizza napoletana al giorno, per cinque giorni a settimana; verdure e frutta senza limiti. Il tutto, condito dall’esercizio fisico. Spariti i dolori e i problemi allo stomaco, forma fisica appagante e vita migliorata, grazie alla dieta mediterranea, che proprio l’americano Ancel Keys codificò sull’alimentazione dei napoletani negli anni Cinquanta, quando le mode americane non avevano ancora inquinato lo stile alimentare partenopeo. Ma Cozzolino, con pizza-diet, è fiero anche di aver dato una lezione agli statunitensi, sempre più sensibilizzati circa la differenza tra la pizza made in USA, considerata junk-food, cibo spazzatura, e la pizza made in Naples, genuina, sulla quale si può impostare una sana alimentazione, poiché non contiene grassi aggiunti e il suo impasto, frutto di lunghe e naturali lievitazione, è altamente digeribile. E ora la stampa di New York racconta la sua esperienza, che fa da monito anche al popolo napoletano, paradossalmente il più affetto da obesità in Italia. Se lo sapesse Ancel Keys…

(ph: Brian Zak)

 

La Pizza Napoletana conquista New York

Angelo Forgione – La pizzeria napoletana ‘Ribalta‘ di Manhattan a New York, gestita da Rosario Procino e dallo chef Pasquale Cozzolino, ha conquistato il primato nella sfida fra 30 selezionatissime pizzerie della Grande Mela, organizzata dal noto magazine americano TimeOut, sulla scorta del parere dei consumatori.
‘Ribalta’, nel Greenwich Village, vanta la certificazione dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, una delle poche negli Stati Uniti, ed è ben frequentata. Procino e Cozzolino (già intervistato nel marzo 2013), tifosissimi del Napoli, si fanno portavoce della cultura della pizza verace STG e della sua vera storia, ma, in generale, di tutta la cucina napoletana. Anche grazie a loro, la differenza tra la pizza originale made in Naples e la versione americana sta diventando chiara ai newyorchesi, i quali stanno ormai comprendendo che mangiare una vera pizza significa consumare un prodotto artigianale di qualità, di una digeribilità inarrivabile. Complimenti a loro.

Pizza cancerogena? Quella Napoletana STG è anticancro!

Angelo Forgione La trasmissione Report torna a occuparsi di un altro pilastro della cultura gastronomica napoletana: la pizza. L’indagine lungo tutta la penisola di Bernardo Iovene, che andrà in onda il 5 ottobre su Rai Tre, vuol dimostrare che il disco condito e cotto nel forno a legna può contenere elementi cancerogeni, a causa dei fumi, della farina carbonizzata e della cattiva manutenzione dei forni stessi, che i pizzaiuoli non puliscono. Insomma, un rischio per la salute. E non è che sia proprio una gran scoperta! Le pizze, anche a Napoli, non sono tutte della migliore qualità insegnata al mondo dai napoletani (come il caffè) ed è la stessa Coldiretti ad avvisare che la metà delle novecento milioni di pizze servite nelle venticinquemila pizzerie italiane, Napoli compresa, sono preparate, all’insaputa del consumatore, con farine canadesi e ucraine, pomodori cinesi, olio d’oliva tunisino o spagnolo e cagliate dell’Est-Europa in luogo della mozzarella. Report ne fa anche una questione di cottura, come del resto le associazioni di categoria che tutelano il marchio “Pizza Napoletana STG” e il suo disciplinare di preparazione, in cui è scritto che “il pizzaiolo deve controllare la cottura della pizza sollevandone un lembo, con l’aiuto di una pala metallica, e ruotando la pizza verso il fuoco, utilizzando sempre la stessa zona di platea iniziale per evitare che la pizza possa bruciarsi a causa di due differenti temperature”. Insomma, ognuno, prima di gustare una pizza servita al piatto, dovrebbe controllare se il suo fondo è bruciato; basta questo piccolo errore di preparazione per distinguerla da una vera pizza napoletana STG. I fumi? Sono un problema relativo, nel senso che questi tendono a salire per principio fisico, e stagnano sulla volta superiore del forno, mentre la pizza deve essere cotta e girata sempre sullo stesso punto della platea (fondo). Alzarla con la pala e cuocerla ad altezza fumi è un errore! È importante ricordare che il forno a legna raggiunge la temperatura di 485 gradi, e il manuale HACCP sull’igiene alimentare indica che già a 450 gradi viene distrutto ogni microrganismo potenzialmente patogeno. Il forno a legna, con tutte le sue incognite, non è particolarmente dannoso, a differenza di quello elettrico, che cuoce le pizze a un massimo di 300 gradi; anche perché “i tempi di cottura non devono superare i 60-90 secondi”, periodo molto ristretto che non consente al prodotto di “assorbire” sostanze di combustione nocive (nel forno elettrico, una pizza ci resta circa dieci minuti!). Di fronte a queste valutazioni più sottili si trovò qualche anno fa anche l’Unione Europea, che prima minacciò di bandire i forni a legna e poi tornò sui suoi passi.
Una vera Pizza Napoletana STG, se preparata secondo il disciplinare, non è affatto dannosa. Anzi, nell’iter che condusse al riconoscimento STG, furono riconosciute da autorevoli ricerche scientifiche le proprietà salutari del piatto principe della cucina napoletana, grazie al licopene del pomodoro che contrasta l’attività dei radicali liberi e ai polifenoli dell’olio extra-vergine d’oliva che funzionano come spazzini delle arterie, elementi che riducono il rischio di malattie cardiovascolari e dei tumori all’apparato digerente. Il consiglio scientifico è quello di gustare una volta a settimana una STG, che evidentemente si riconosce a vista e a digestione. Se quella della vostra pizzeria mostra evidenti parti annerite sul bordo e sul fondo, e non è facilmente digeribile (lievitazione incompleta), è meglio cambiare. È una questione di cultura della preparazione, così come della consumazione. In questo senso, e solo in questo, Report non andrebbe fuori strada.

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Enzo Coccia, il pizzaiuolo consapevole

Angelo Forgione – Dopo la pubblicazione del contributo del compianto Vincenzo Pagnani, torno sull’argomento “pizza margherita” per evidenziare quanto detto dal maestro pizzaiuolo Enzo Coccia al Corriere del Mezzogiorno:
«L’11 giugno del 1889 non nasce la Margherita, ma solo il nome. Raffaele Esposito davvero si recò al bosco di Capodimonte e preparò tre tipi di pizze: bianca con lo strutto, l’altra con i pesciolini, verisimilmente alicette, e un’altra con pomodoro e mozzarella. Quest’ultima fu chiamata Margherita, ma già esisteva, come si legge nel libro di de Bourcard di quarant’anni prima».
Forse non nacque neanche il nome, visto che il filologo Emmanuele Rocco, nel secondo volume del libro Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti citato da Coccia, parla di “sottili fette di muzzarella”. E le fette, distribuite con disposizione radiale, dal centro verso il bordo, disegnavano il fiore di campo da cui è possibile che la pizza abbia preso il nome già ad inizio Ottocento, per essere offerta all’omonima Regina nel 1889.
È ora che tutti i pizzaiuoli di Napoli, come Enzo Coccia, raccontino la verità, quella che le associazioni locali di tutela del prodotto hanno ben trascritto nel Regolamento UE.

approfondimenti su “Made in Naples” di Angelo Forgione (Magenes, 2013)

La pizza Margherita? Altro che 1889, è più antica!

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Angelo Forgione Prima di lasciare questo mondo e dopo aver letto il mio saggio Made in Naples, dalle pagine de Il Tempo, Ruggero Guarini aveva raccolto pubblicamente una mia proposta all’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, chiedendo anch’egli di ridiscutere la storia della pizza Margherita, pur estremizzando un po’ il concetto. Di fatto, nel complesso universo dell’identità napoletana da ricostruire descritto nel mio libro trova ovviamente spazio la brillantissima stella del piatto simbolo di Napoli, ma anche dell’Italia, che ha davvero superato ogni frontiera, divenendo vero cibo globalizzato senza marchio. Ho voluto indagare su quanto gli gravita attorno, compresa la nascita della regina delle pizze, la Margherita, mettendo in forte discussione quella che, in base alla ricostruzione storica basata sugli eventi del Settecento e sui trattati di cucina dei maggiori cuochi dell’epoca, si configura come una leggenda ricca di fantasia ancora oggi narrata al fine di mantenere un velo di romanticismo su un simbolo dell’Italia nel mondo.
La Margherita, come tutti sanno, è attribuita a Raffaele Esposito, un pizzaiolo della pizzeria “Pietro… e basta così”, fondata nel 1880 da Pietro Colicchio, oggi “antica pizzeria Brandi”, nei pressi di Palazzo Reale. La storia racconta che la sera dell’11 giugno 1889, nelle cucine reali della Reggia di Capodimonte, Esposito avrebbe infornato tre diversi tipi di pizza per omaggiare la visita del re Umberto di Savoia e della regina Margherita, la quale ne avrebbe fatto espressa richiesta. Una con olio, formaggio e basilico; un’altra con i cecenielli (bianchetti); un’altra ancora con pomodoro e mozzarella, cui la moglie di Esposito, Maria Giovanna Brandi, avrebbe aggiunto una foglia di basilico. La regina piemontese avrebbe gradito quella evocante i colori della bandiera italiana, che, per l’occasione, sarebbe stata battezzata col suo nome. In realtà, esistono testimonianze della nascita di un tipo di pizza preparata con la mozzarella e il pomodoro ben prima della visita dei Savoia a Napoli.
Già in età borbonica, quella di Ferdinando IV, proprio pasta, pomodoro e mozzarella erano stati issati a pilastri di una rivoluzione agricola epocale che ha poi fatto la fortuna di Napoli, collocandola nella storia della cucina occidentale. La produzione del famoso latticino fu stimolata nei laboratori della Reale Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, la tenuta di caccia di San Tammaro che Ferdinando IV rilevò dal padre Carlo proprio nel 1780 per trasformarla in un innovativo laboratorio di circa duemila ettari per coltura e allevamento. Il pomodoro, quello tondo, giunse attraverso la Spagna nel Seicento, ma intorno al 1770 prese il via la storia del pomodoro lungo, proveniente dall’America latina, in dono al Regno di Napoli dal Vicereame del Perù, in quegli anni territorio borbonico dominato dalla Spagna dell’ex re di Napoli Carlo III, padre di Ferdinando IV, e ne fu subito radicata la coltura nelle terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico produsse una saporitissima varietà (la prima “marinara”, del 1734, era diversa da quella odierna, fatta inizialmente con acciughe, capperi, origano, olive nere di Gaeta e olio, e senza quel pomodoro che avrebbe fatto irruzione qualche decennio dopo). È dunque assai difficile considerare che i napoletani abbiano potuto metterci più di cento anni per versare pomodoro e mozzarella, insieme, su una pizza.
Per entrare nei dettagli della ricostruzione storica rimando alla lettura di Made in Naples. Qui basta accennare che la nascita della Margherita è databile almeno alla metà dell’Ottocento, qualche decennio in anticipo rispetto all’omaggio ai Savoia di Raffaele Esposito. Tutto ciò pare che le associazioni napoletane di categoria lo sappiano, poiché sono state proprio loro a fornire una prova di grande peso che sin qui è rimasta distrattamente ignorata ma che è ora il caso di porre al centro della discussione. Basta dare un’occhiata al Regolamento UE n. 97/2010 della Commissione Europea riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010 accreditante la denominazione Pizza Napoletana STG nel registro delle specialità tradizionali garantite. Al punto 3.8 dell’Allegato II, si legge testualmente:

“Le pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “margherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico) che ricordano la bandiera dell’Italia.”

Il regolamento certifica di fronte alla Commissione Europea un diverso parto della pizza tricolore, collocandolo nel periodo borbonico che precede addirittura di circa un secolo la data del 1889, anno dell’assaggio e non della nascita, vantato dalla pizzeria “Brandi” con un’epigrafe all’inizio della salita Sant’Anna di Palazzo. Apposta nel 1989, la lapide con tanto di stemma a croce sabauda indica:

“Qui 100 anni fa nacque la pizza Margherita”

Si tratta evidentemente di una piacevole suggestione per i turisti e nulla più, anche perché il racconto vuole che Raffaele Esposito abbia infornato a domicilio, presso la Reggia di Capodimonte e non nella pizzeria di Chiaja, quella pizza già esistente e corrispondente nei colori al vessillo del Regno d’Italia. Tra l’altro, la regina piemontese che dice al pizzaiuolo «comme è bbona e comme è bella chesta pizza. Come si chiama?» è ricca di fascino ma poco credibile se si considera che a Margherita di Savoia piaceva esprimersi in dialetto piemontese, in francese e tedesco mentre non amava farlo in italiano… figurarsi in napoletano. Insomma, un’operazione di marketing, sia dinastico che commerciale, per una pizza che già prima si mangiava in città come altre e che, elevandola a “regina” e associandola alla propaganda dell’Italia unita, ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione del piatto tipico napoletano su tutto il territorio della Nazione allargata. Ma ormai la pizza napoletana è nel mondo, ed è anche il momento che l’identità storica della città si spogli dell’inganno, riprendendo i suoi veri connotati.
Magari, chissà, anche il nome “margherita” esisteva già, poiché il filologo Emmanuele Rocco, nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti coordinato da Francesco de Bourcard, parlò di “sottili fette di muzzarella”. Vuoi vedere che dalle disposizione radiale delle “fette di muzzarella” veniva fuori il disegno del fiore di campo che è anche il nome della regina piemontese? In ogni caso, la pubblicazione è del 1858, e testimonia come la “margherita” si preparasse già almeno trent’anni prima della data che la storia d’Italia ha tramandato, se non ancora prima. Non sappiamo perché le associazioni di categoria abbiano dato un intervallo di tempo tra il 1796 e il 1810, ma le seconde pizze descritte dal Rocco, quelle con formaggio grattugiato e basilico, e condite con strutto in luogo dell’olio, cui si aggiungeva la mozzarella e talvolta, tra tante varianti, il pomodoro, indica che già a metà dell’Ottocento almeno si preparavano pizze con pomodoro, mozzarella, basilico strutto (olio) e spruzzate di formaggio grattugiato. E se non è una “margherita” questa…

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approfondimenti su “Made in Naples” di Angelo Forgione (Magenes, 2013)

La Pizza Napoletana STG cerca nome. Diamole anche la sua vera identità.

Angelo Forgione – La “Pizza Napoletana STG” cerca nome. In base alle nuove disposizioni dell regolamento comunitario dell’UE 509/2006 sarà obbligatoria una denominazione propria per distinguerla  dalle altre pizze senza riconoscimento, cioè quelle “false”.
In poche parole, bisognerà aggiungere un altro termine all’attuale denominazione (esempio: “Pizza Napoletana Verace STG” o “Pizza Napoletana Tradizionale STG) e comunicarlo all’Unione Europea. Questo per ridurre al minimo il rischio che il consumatore possa essere tratto in inganno trovandosi davanti sia a una “Pizza Napoletana Stg”, che deve rispettare precise regole di produzione, che ad una pizza spacciata per napoletana ma che di napoletano ha solo il nome.
L’Associazione Napoletana Pizzaiuoli, rappresentata dal presidente Sergio Miccù, sta preparando un concorso di idee per fornire alcuni suggerimenti al Governo italiano e ha già iniziato a raccogliere suggerimenti. L’occasione è ghiotta per ridare identità al piatto principe della cucina partenopea e alla stessa storia di Napoli. Già, perché, come scrivo e dimostro nel mio libro Made in Naples (in uscita il 29 maggio), l’origine della pizza napoletana è racchiusa nel Settecento napoletano. La Marinara, infatti, nasce nel 1734 e la Margherita si definisce tra il 1796-1810, così come indicato nel Regolamento UE n. 97/2010 del 4 febbraio 2010 redatto dall’Associazione Verace Pizza Napoletana e dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani. La data del 1889 attribuita a Raffaele Esposito dell’attuale pizzeria Brandi riguarda non l’invenzione della Margherita ma l’offerta alla regina Margherita di Savoia di una pizza che già esisteva da almeno ottant’anni, così come indicano alcuni trattati di cucina del Regno di Napoli, data in assaggio alla regina d’Italia per il colore dei suoi condimenti che ricordavano la bandiera tricolore.
Pertanto, per ripristinare la verità storica e restituirci identità, sarebbe cosa giusta e importante proporre al presidente Sergio Miccù di marchiare la vera pizza con una denominazione che riconduca al vero periodo storico in cui è stata creata, quello del Regno di Napoli e dell’illuminismo napoletano in cui la coltura del pomodoro e la produzione della mozzarella ebbero un rivoluzionario impulso. Sarebbe ora di dargli, ora che ce n’è la possibilità, nomi veramente identitari come: “Pizza del Regno di Napoli STG”“Pizza del Re di Napoli STG”, oppure “Pizza Reale di Napoli STG”, o ancora “Pizza borbonica di Napoli STG”. E, perché no, “Pizza Made in Naples STG”.
Inviterei quindi tutti i lettori di questo blog che condividono l’idea a inviare le proposte sopra elencate, o altre proprie, ai seguenti indirizzi:
info@pizzaiuolinapoletani.it  e  segreteria@pizzaiuolinapoletani.it