Colera e Corona: aveva ragione Feltri

Angelo Forgione Che sciagura il Coronavirus! E alla fine, obtorto collo, c’è pure da dare ragione al fanatico Vittorio Feltri, che il 21 febbraio, al principio del disastro lombardo, scrisse su twitter: “Da lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola confronto al Corona”. La situazione poco chiara, coniugata al suo proverbiale “pregiudizio” anti-meridionali, aveva fatto pensare alle solite offese, al solito luogo comune del colera a Napoli. E invece, a oltre tre mesi da quell’allarme, il colera del 1973 nel Sud Italia, con focolaio vesuviano, appare davvero un fiammifero al cospetto dell’immenso rogo virale del 2020 che ha colpito pesantemente il Nord e particolarmente la Lombardia. In concreto, il colera causò soli 24 morti e 277 infettati tra Napoli, Caserta, Bari, Taranto, Foggia, Lecce, Brindisi e Cagliari, con qualche caso anche a Roma, Pescara, Firenze, Bologna e Milano. Numeri irrilevanti al cospetto del Covid-19, che ad oggi, a macabri conteggi ancora in corso, ha causato in Italia 33.415 decessi e 233.019 casi ufficiali. La Lombardia è evidentemente la regione più colpita, con 16.112 morti, la metà dell’Italia intera, e 88.968 contagiati certi. E come fai a non dare ragione a Vittorio Feltri?

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Poi, allo stesso Feltri in avanti, è nato una sorta di revanscismo lombardo opposto a una certa campagna discriminatoria contro la Lombardia e Milano che non c’è mai stata. Una narrazione che ha francamente stufato! Una mera questione sanitaria tradotta da qualcuno in nuova discriminazione al contrario. Ma quale discriminazione? Non pare affatto che esista un sentimento d’odio verso una popolazione che merita solidarietà piena per i lutti subiti e originati dagli errori di qualche incapace nella stanza dei bottoni. Una volta che la Lombardia se la passa male per colpe della macchina politico-industriale salta fuori la storia dell’accanimento contro gli invidiati primi della classe. È piuttosto un’invenzione, un certo piagnisteo figlio di un fastidio intollerabile di chi lo prova, un peso insostenibile di una croce che qualcuno animato da un complesso di superiorità mai si sarebbe aspettato di dover portare sulle spalle, e non vuole affatto portarlo, per aver costretto l’Italia intera al blocco totale e aver messo l’economia del Paese in ginocchio.
Chi parla di discriminazione verso i lombardi e loro vicini non sa cos’è la discriminazione. Io che sono napoletano lo so, ma evidentemente non tutti sono al corrente di cosa è accaduto ai napoletani e ai meridionali durante e dopo l’epide­mia di colera scoppiata a fine agosto 1973 a Napoli, con altri focolai a Bari, Taranto e Cagliari. Forse servirà un po’ a tutti riavvolgere il nastro con pazienza per mettere in parallelo i due momenti.

I provvedimenti restrittivi all’arrivo del colera furono applicati solo nelle regioni “colerose”: rinvio dell’anno scolastico a novembre inoltrato, chiusura dei cinema, dei teatri e delle università. Per accedere alle Facoltà del Centro e del Nord, gli studenti provenienti dalle Regioni del Sud, anche quelle in cui l’epidemia non c’era, furono obbligati a presentare il certificato della vaccinazione anticolerica, e nessuno protestò per questo.
Inviati di importanti quotidiani del Nord, in un tempo in cui internet era solo fantascienza e non c’erano i programmi di Barbara D’Urso, si sbizzarrirono a descrivere Napoli e Bari con esagerazioni, fake-news e spesso con accenti razzisti.
Spinto dalla Regione Liguria, il Genoa chiese al Calcio Napoli di non recarsi a Genova per una partita di Coppa Italia. La Lega invertì i campi ma il Genoa si rifiutò di scendere a Napoli, così come il Verona evitò di recarsi a Bari, a costo di perdere a tavolino e prendersi delle penalizzazioni. Il capitano degli Azzurri, Antonio Juliano, napoletano purosangue, gridò tutto il suo sdegno alla stampa: “Ma cosa credono quelli del Nord? Hanno paura d’infettarsi giocando al calcio con noi? Sappiano che d’ora innanzi saremo noi a non voler andare più al Nord. Questa discriminazione ci umilia come uomini e specialmente come sportivi”.
Chi viaggiava da Sud a Nord per lavoro veniva tenuto a distanza, e neanche le mani gli si stringeva. Qualcuno si vide le porte degli alberghi chiuse in faccia per volontà di lombardi e piemontesi, o anche quelle di casa propria dai parenti nel caso di impavidi settentrionali reduci da viaggio di lavoro nelle regioni del contagio. Psicosi ben più eccessiva rispetto a quella da Covid-19, visto che la trasmissione della colera non avveniva per contatto sociale, e non c’era bisogno di mascherine e altri accorgimenti. Ci si poteva infettare ingerendo acqua o alimenti contaminati dalle feci di individui infetti e la paura del prossimo era totalmente immotivata e dettata da ignoranza e pregiudizio.
Il contagio da Covid-19 è invece diretto, per via orale, e contraddistingue un virus con altissima carica virale, quindi con alta trasmissibilità. Tutto il contrario del colera, e i numeri snocciolati lo dimostrano. Ed è per questo che chiedere sicurezza non è discriminare, non è voler ghettizzare una regione che un problema sanitario più ampio di altri ce l’ha, e non è ancora risolto, a quattro mesi dai primi casi. Un mese e mezzo, invece, ci vollero nel 1973 per risolvere l’epidemia di colera nella città più colpita, Napoli (a Barcellona in due anni).

Le cause del bubbone sanitario lombardo sono evidentemente dovute a ritardi ed errori governativi, mentre quelle dell’infezione del 1973 al Sud furono individuate in un’abbondante partita di cozze giunta sui mercati del Mezzogiorno dalla Tunisia, ascrivibili alla posizione geografica e non alle condizioni igienico-sanitarie e socioeconomiche, sulle quali invece si fece leva per discriminare. Nessuna colpa fu da assegnare alle città e ai cittadini meridionali ma nessuno se la prese con il Nordafrica. No, la colpa fu comunque lasciata ai napoletani, che mangiavano anche le cozze del loro mare, nelle quali non fu trovato alcuna traccia di vibrione. Eppure gli esperti, informati dall’OMS, sapevano che l’epidemia da vibrione “El Tor”, nell’ambito della settima pandemia, era partita dodici anni prima dall’Indonesia e stava transitando nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 e ancora oggi è in circolo. Altro che colpe napoletane!

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La scorretta informazione contribuì a far crollare il turismo e le conseguenze socio-economiche a Napoli furono pesantissime, con un meno novanta percento di presenze, recuperate solo a partire dal G7 del 1994, cioè ben ventun’anni più tardi.
Le squadre di calcio, compreso che l’epidemia non era tale bensì davvero poca cosa, tornarono presto a giocare contro il Napoli ma il colera sopravvisse nei cori e negli striscioni contro i napoletani, che non sono ancora finiti a circa cinquant’anni di distanza. Anzi, prima della sospensione del corrente campionato, proprio i tifosi bresciani, ignari di ciò che stava per accadere alla loro comunità, gridavano ” napoletano coronavirus,” mentre i napoletani, per tutta risposta, rispondevano con un eloquente “Nelle tragedie non c’è rivalità, uniti contro il Covid-19“. All’esterno dello stadio Meazza di Milano, qualche giorno prima, era apparso nottetempo lo striscione “Napoletani figli del colera, vi mettiamo in quarantena“. E come dimenticare le mascherine indossate dai tifosi milanisti a Napoli all’epoca dell’emergenza rifiuti, che poi era figlia di un patto scellerato tra camorra e imprenditoria settentrionale?

L’apertura della Lombardia, all’evidenza dei numeri, è un rischio per tutti che appare dettato da una sorta di sudditanza nei confronti di un territorio con un Pil importante che sa di poter puntare i piedi. Le pacate minacce del sindaco Sala ai sardi sono un segnale chiaro in tal senso. E però, a rivedere quel che successe al tempo del colera, con cicatrici ancora visibili sulla pelle dei napoletani, chissà come verrebbero trattati oggi i campani se al posto scomodo della Lombardia vi fosse la loro regione.
E qualcuno, in Pianura padana, pur soffre di discriminazione. Piuttosto, che questa storia cancelli mezzo secolo di offese ingiustificate ai napoletani e migliori tutti. Che dite, possiamo avere speranze?

In Mediolanum stat virus

sala_milanononsifermaAngelo Forgione Via libera allo spostamento tra regioni dal 3 giugno, ma già sono alte le proeccupazioni di chi, nella stagione estiva, dovrà affrontare gli arrivi dei vacanzieri provenienti dalla Lombardia, che ancora oggi fa segnare tre quarti dei casi italiani di Covid-19, evidenza che tiene tutti gli italiani al bando dalla Grecia, almeno fino a luglio. I governatori della Sardegna e della Sicilia chiedono garanzie da chi dovesse arrivare dai territori maggiormente colpiti dalla pandemia, e allora il sindaco di Milano, Beppe Sala, si schiera contro:

«Vorrà dire che mi ricorderò di chi ce lo ha chiesta quando andrò in vacanza», tuona il primo cittadino milanese, che dovrebbe piuttosto ricordarsi di quando, in piena esplosione dei contagi in Lombardia, lanciava l’hashtag #milanononsiferma e faceva simbolici apertivi, salvo poi lanciare strali contro la sua gente tra navigli e triangolo della moda.

Siamo a un bis moderato del consigliere comunale di Pavia, lo sconosciuto Niccolò Fraschini, che al principio di tutto avvisò il ripristino dello status quo con termini di stampo razzista. E poi c’è pure Roberto Vecchioni, già famoso per le offese alla Sicilia («Isola di m…»), che ha dato sfogo al suo orgoglio milanese dalle pagine de Il Sole 24 Ore: «Senza Milano l’Italia muore, perché è l’unica città d’Italia, mentre le altre sono paesoni». È vero nella misura in cui è vero pure il contrario, e cioè che senza le forze che Milano assorbe da tutta l’Italia il capoluogo lombardo muore.
Sono proprio questi atteggiamenti spocchiosi e supponenti a creare una certa antipatia verso i politici di Milano e della Lombardia, e Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, lo ha ammesso serenamente: «La Lombardia ha tanti primati e vanno riconosciuti, ma ce la siamo anche un po’ tirata e questo ha forse costituito le premesse per un sentimento non proprio di simpatia nei nostri confronti».

Sala, intanto, prima di andare in conflitto con gli altri italiani, dovrebbe guardarsi dai lombardi stessi. Per esempio, qualche giorno fa, ad Angera‬, sul Lago Maggiore, Alessandro Paladini Molgora si era detto pronto ad alzare i muri attorno alla sua cittadina per bloccare gli eventuali afflussi dei vacanzieri da ‪Milano‬ e da tutta la Lombardia‬.

Milano dei milanesi, per una volta con il coltello dalla parte della lama, dovrebbe imparare l’umiltà da questa emergenza che l’ha travolta e capire che la Lombardia ha una dimensione del problema sanitario che le Isole e altre regioni non hanno.
Milano dei milanesi dovrebbe ricordare a cosa furono costretti i napoletani, i baresi, i cagliaritani e i palermitani che nel settembre del 1973 si recavano al Nord.
Milano dei milanesi dovrebbe ricordare le torbide vicende giudiziarie attorno all’organizzazione dell’Expo del 2015 dello stesso Sala, e un’immagine ripulita d’urgenza dalla neonata e appositamente creata Associazione Nazionale Anticorruzione con a capo un magistrato napoletano, un’energica spazzata con cui si andarono a nascondere sotto al tappeto tutti gli scandali della vigilia che avevano confermato la più dinamica città italiana come una delle capitali della corruzione e del malaffare.
Milano dei milanesi dovrebbe ricordare pure che la Tangentopoli italiana di inizio anni Novanta è nata in una città capitale immorale dello sviluppo italiano, e che per ripulire l’immagine dell’Italia si ricorse alle bellezze allora dimenticate di Napoli, incaricata di mostrare il suo rango di antica capitale – altro che paesone! – e un volto diverso del Paese con l’efficienza dei lavori “low-cost” per la preparazione della città al G7 del 1994.

Si potrebbe andare anche più indietro, perché Milano è pur sempre la città in cui è nato il fascismo, il cui primo nome fu “sansepolcrismo” dalla piazza (San Sepolcro) in cui Benito Mussolini proclamò la fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento. E fu, Milano, la città governata da Massimo d’Azeglio, che all’atto dell’invasione piemontese d’Italia demandata alla camicie rosse di Garibaldi, in gran parte bergamasche, scrisse: “la fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”.

Sala se la prenda con Formigoni, Maroni, Fontana, e poi Gallera, i vertici di Confindustria lombarda e magari anche con se stesso per gli oltre sedicimila decessi che hanno distribuito lutto e sofferenza ai lombardi, vittime degli errori dei vertici regionali. E tolleri, il sindaco di Milano, qualche esagerazione del governatore Solinas, ricordandosi che la Sardegna è l’isola che fa la felicità di uno degli uomini più ricchi d’Italia, il milanese Massimo Moratti, la cui azienda petrolchimica distribuisce dividendi da capogiro che finiscono a Milano. Certo, la Saras di Sarroch paga le tasse sull’Isola, ma incide sul prodotto interno lordo sardo senza alcun beneficio diretto sul territorio, inquinandolo abbondantemente. Stessa storia in dimensione minore per il milanese Tommaso Giulini, proprietario del Cagliari Calcio, che con la sua Fluorsid sfrutta una materia prima locale, la fluorite di Silius. E dunque, se il territorio sardo garantisce ricchezza a quello milanese, si può tollerare anche un governatore che chiede sicurezza in tempo di virus, e di certo non vuole respingere nessuno, sapendo che la Sardegna campa di turismo… e di industria petrolchimica milanese.

Il ‘Premio Fonseca’ e la commemorazione neogiacobina

Angelo Forgione Anche quest’anno, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, insieme all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, propone per il 20 agosto la cerimonia di commemorazione dei martiri del 1799, intrecciandola alla seconda edizione del Premio Pimentel Fonseca “simbolo dei diritti umani e di libertà”, dedicato all’impegno e al coraggio delle donne che svolgono la professione di giornalista.
Anche quest’anno, dopo il confronto con l’assessore Nino Daniele dello scorso settembre, ribadisco con convinzione che è giusto ricordare gli eventi drammatici che posero fine alla Repubblica Napolitana, ma ciò andrebbe fatto ricordando anche le vittime del popolo. La “rivoluzione” partenopea non fu promossa dal popolo napoletano bensì dalle milizie francesi, che rubavano soldi e opere d’arte alla Città. I saccheggi di monete nascondevano il bisogno parigino di danaro dettato dalle mancate entrate a partire dalla grande Rivoluzione del 1789. Persino l’Ercole Farnese fu imballato e approntato per andare a Parigi, fortunatamente invano. La Fonseca sapeva, tant’è che sul giornale ‘Monitore napoletano’, da lei diretto, denunciò le ruberie degli “amici” d’oltralpe, tra cui la sottrazione di tutte le collane d’oro dispensate ai cavalieri del Toson d’Oro commessa dal comandante della piazza di Napoli Antonio Gabriele Venanzio Rey. I tesori confluivano a Livorno, da dove prendevano la strada di Marsiglia e, attraverso il Rodano, la Saona e il sistema dei canali fluviali, giungevano fino alla Senna di Parigi. Lei e tutti i repubblicani napoletani stettero a guardare.
Il terribile esercito francese, il più forte d’Europa, tra grandi resistenze, entrò a Napoli anche grazie agli amici della Fonseca, che da Castel Sant’Elmo aprirono il fuoco alle spalle degli irriducibili napoletani intenti ad assaltare il Palazzo Reale. Popolo che si riprese la città dopo neanche sei mesi di astrattezza politica e immobilismo giacobino, contando migliaia di vittime. I giacobini napoletani avevano perso la copertura dal potente esercito francese, via dall’Italia dopo gli affanni di Napoleone in Egitto.
Fu vera rivoluzione? Macché! Fu un colpo di stato. È rivoluzione un evento politico agitato dal popolo che muta radicalmente le abitudini, un processo in cui le forze sociali spingono in una direzione precedentemente inesistente e obbligano le strutture governative a rompersi per contenere la nuova forma. La vera rivoluzione fu quella dei sanfedisti, una feroce controinsurrezione popolare per porre fine al momentaneo potere aristocratico e per ripristinare lo status quo. Il perpetuarsi nel tempo della definizione di “rivoluzione” per esaltare il colpo di stato di un’agiata e colta minoranza napoletana sobillata da qualche straniero venuto da Copenaghen (nel mio prossimo libro farò i nomi e spiegherò gli intenti; ndr), è frutto di un esercizio storicistico operato da certe sfere dell’intellighenzia napoletana, ancora oggi vincolata all’ideale massonico risorgimentale.
Il popolo è sovrano, a quanto pare, e quello napoletano non si schierò coi giacobini ma col Re, nato a Napoli e napoletanissimo, quando comprese che quelli non portavano democrazia ma sottraevano ricchezze e intendevano cancellare usi e costumi locali. Dunque, ricordiamo pure le centinaia di decapitazioni tra la borghesia partenopea ma anche le dimenticate migliaia di morti tra il popolo napoletano… in nome dei diritti civili e della libertà. Finché continueremo a raccontare la storia a metà, a metà resteremo divisi, e mai costruiremo quella coscienza di popolo che manca. Se a rendersene responsabile è il Comune di Napoli, non è proprio cosa lieve.

(nell’immagine, tratto dal mio libro Made in Naples, una delle tante lettere che il generale Championnet scrisse da Napoli al ministero dell’interno del Direttorio di Parigi, pubblicata nel 1904 nei Souvenirs du général Championnet)

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“Lager Fenestrelle…”, e la curva parla di storia

fenestrelle_stadioAngelo Forgione Napoli-Torino, match valevole per la 18a giornata del campionato nazionale di Serie A, nel giorno dell’Epifania. Al minuto 61 spunta un doppio striscione nella Curva B dello stadio San Paolo: “LAGER DI FENESTRELLE… NAPOLI CAPITALE CONTINUA AD ODIARE!”. E non tutti capiscono.
Da anni, ormai, parlo di storia ai tifosi; ma, per chi ancora non lo sapesse, Fenestrelle (di cui ho scritto anche in Dov’è la Vittoria) è un forte situato nell’alta Val Chisone, città metropolitana di Torino, eretto nel Settecento con funzione di protezione del confine italo-francese, poi utilizzato dopo l’Unità d’Italia come prigione militare in cui isolare i soldati del disciolto Esercito delle Due Sicilie fatti prigionieri e contrari al giuramento per un altro Re. Su questa vicenda si gioca ormai da qualche anno una partita tra storici meridionali e storici piemontesi. I primi divulgano notizie sulle pessime condizioni di detenzione, sulle sevizie e sulle morti nascoste per anni dalla storiografia ufficiale in quello che è definito “il lager dei Savoia”. I secondi si affrettano a smentire e a ridimensionare gli eventi post-risorgimentali nella fortezza sabauda, che non fu certamente l’unica ad accogliere i militari meridionali. Altri e di più a San Maurizio Canavese, ma anche a San Mauro, Alessandria, Novara, Savona, Genova e Milano. Decine di migliaia di soldati dell’ex esercito borbonico reclusi perché rifiutatisi di servire sotto la bandiera Italiana, invece di lasciarli alle loro famiglie e alle loro terre. Alcuni non riuscirono a tornare dai campi del Nord, dove trovarono la morte per il rigore del freddo e per la fame. Quanti? La partita è aperta, sul numero di morti come anche sulle condizioni di prigionia, ma decisamente chiusa sulla sostanza: l’esercito piemontese-lombardo, invasore di uno Stato legittimo, fece prigionieri i militari napoletani. Così come, nel 1868, il Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, Luigi Federico Menabrea, tentò con tutte le sue forze, ma invano, di ottenere dal governo argentino la concessione delle terre disabitate nelle regioni deserte della Patagonia per deportarvi i ribelli meridionali.
Quello che è davvero interessante è che certi messaggi nascano ormai spontaneamente sugli spalti del San Paolo, e non siano più suggeriti da singole teste pensanti estranee alle curve, come negli anni scorsi. Il minuto 61, a indicare la data del 1861, dà il segnale di una nuova coscienza, magari grossolana, ma autentica e in via di radicamento, che trova sfogo negli stadi, veri e propri termometri della società. I cori e gli striscioni, infatti, non sono espressione di un particolare disagio sociale, come quello che si manifesta con gli stessi mezzi nei cortei di piazza a difesa di un qualsiasi diritto, ma, piuttosto, modalità di rifiuto di tutto ciò che è di altrui cultura. Meno interessante è il non chiarito messaggio d’odio manifestato nello striscione, che avrebbe ragione d’esistere solo se indirizzato ai tristissimi modi con cui fu unita l’Italia senza unire gli italiani, a prescindere dalla loro entità. E se a scuola non se ne parla…

“… Non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri Napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsenton a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi… e quel che è piú dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo, gli rinfacciai che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavan a servire, che erano un branco di carogne che avressimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità che cosa si potrà fare di questa canaglia, e per carità non si pensi a levare da questi Reggimenti altre Compagnie surrogandole con questa feccia. I giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al piú presto”.
Lettera di La Marmora a Cavour del 18 novembre 1860

14 aprile 1988, quando il terrorismo internazionale seminò morte a Napoli

Angelo Forgione Abbiamo imparato a convivere con la guerra al terrorismo internazionale, una campagna a livello globale contro le organizzazioni terroristiche condotta dagli Stati Uniti d’America e dal Regno Unito, appoggiate dalle nazioni del Patto Atlantico. Il “conflitto”, in cui a rimetterci la vita sono soprattutto persone innocenti, ha assunto caratteri militari e, spesso, propagandistici a partire dall’11 settembre 2001, data storica per la strage delle Torri Gemelle di New York.
L’Italia, benché ritenuta immune da attentati da una buona parte dell’opinione pubblica, è stata in realtà già colpita in passato da un evento luttuoso che ha mietuto vittime. Pochi lo ricordano, ma una drammatica pagina dell’eversione internazionale fu scritta a Napoli il 14 aprile 1988, in occasione del secondo anniversario dei bombardamenti USA sulla Libia. Quattro napoletani e una portoricana, quel giorno, non tornarono alle loro case.
Con la città euforica per il vicinissimo secondo scudetto del Napoli che invece gli Azzurri avrebbero inaspettatamente lasciato al Milan, quel giovedì era in programma un’affollata festa nel circolo USO (United States Organization), un ente americano che si occupava, allora come oggi, di tenere alto il morale delle truppe statunitensi all’estero. A Napoli era nelle vicinanze di piazza Municipio, in degli ampi locali di Calata San Marco, dove oggi si trova un’autorimessa, e lì, anni prima, si era dato da fare pure un giovane studente di nome Renzo Arbore, ispirando Renato Carosone per la divertente Tu vuo’ fa’ l’americano. Il Paul, un cacciatorpediniere della Sesta Flotta USA, entrava quel giorno nel porto di Napoli e la responsabile del circolo, Jo Di Martino, aveva organizzato una festa in onore del capitano dell’imbarcazione.

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Alle 19.56, con il circolo non ancora gremito, il boato assordante: una Ford Escort riempita con trenta chili d’esplosivo, e parcheggiata proprio dinanzi all’ingresso del locale, saltò in aria, lasciando un piccolo cratere nella strada. Nello scoppio, avvertito al Vomero e in tutta la zona bassa della città, da San Giovanni a Teduccio a Mergellina e a Posillipo, restarono a terra, dilaniati e carbonizzati, Assunta Capuano (32), Guido Scocozza (25) e Maurizio Perrone (21), che passavano di là per caso dopo una giornata di lavoro. Esanime anche Antonio Ghezzi (62), un venditore ambulante di souvenir che da anni stazionava davanti al circolo statunitense, chiamato “Popeye” dai militari americani. E poi Angela Santos (26), una sottoufficiale di Portorico con passaporto americano. I tanti feriti furono trasportati in ospedale, estratti tra resti di corpi e detriti di ogni sorta.


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L’attentato fu compiuto dall’Armata Rossa Giapponese, una frazione armata arruolata nelle file della Jihad islamica, che subito rivendicò l’esplosione alla France Press di Roma (“Noi dell’organizzazione delle brigate della Jihad rivendichiamo la responsabilità dell’attentato”) e all’Ansa di Beirut (“Ammoniamo l’Italia dal continuare ad appoggiare l’imperialismo”). Esecutore della strage, il giapponese Junzo Okudaira, all’epoca 39enne, con quindici anni alle spalle di terrorismo internazionale contro imperialisti e sionisti, ritenuti responsabili della morte del fratello Tsuyoshi. L’Armata Rossa Giapponese, il 29 maggio 1972, aveva seminato terrore e morte (24 vittime) all’aeroporto di Tel Aviv per conto del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, e Tsuyoshi Okudaira aveva perso la vita facendosi esplodere una volta vistosi circondato dagli agenti del Mossad.
Per i fatti di Napoli, Junzo Okudaira fu condannato all’ergastolo il 20 marzo del 1992 dai giudici di Napoli, con l’accusa di concorso in strage e banda armata finalizzata all’eversione. Il terrorista giapponese fu poi incriminato anche negli Stati Uniti il 9 aprile 1993. Con lui era stata processata anche Fusako Shighenobu, la più temuta terrorista donna del mondo, fondatrice della banda criminale nipponica e moglie di Tsuyoshi, ma assolta per insufficienza di prove. Junzo e Fusako, otto ore prima dell’esplosione, mentre in porto entrava il cacciatorpediniere della Sesta Flotta americana, erano stati visti insieme in piazza Garibaldi, con la Ford noleggiata tre giorni prima in via Partenope. Sul luogo della strage, però, fu avvistato solo l’uomo, intento a parcheggiare l’auto.
Che fine hanno fatto Junzo Okudaira e Fusako Shigenobu? Lui, ricercato anche negli USA, non è mai stato catturato ed è tuttora il latitante numero uno nella lista della Procura di Napoli. Lei, invece, è stata arrestata a Osaka nel novembre del 2000, dopo trent’anni di latitanza, e condannata dal tribunale di Tokio a 20 anni di carcere.

Il Comune di Napoli ricorda (solo) i giacobini (e inciampa sull’Illuminismo)

Angelo ForgioneNei giorni scorsi, a cura del Comune di Napoli e dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è stata scoperta una targa commemorativa presso l’entrata della Basilica del Carmine in ricordo del martirio dei giacobini napoletani. Giusto ricordare gli eventi drammatici che posero fine alla Repubblica Napoletana del 1799, con le circa 120 esecuzioni tra gli aderenti alla stessa, ma pure manca un ricordo per gli almeno 3000 napoletani del popolo che persero la vita nel tentativo di evitare l’ingresso in Città delle milizie francesi del generale francese Jean Étienne Championnet.
Furono mesi, quelli da gennaio a giugno, molto difficili, sporcati da sangue, morte e barbarie, che impressero una ferita mai rimarginata. La cultura locale è da allora spaccata tra giacobini e sanfedisti, tra repubblicani e monarchici, ma ogni contesa che genera accesi estremismi e distanti fazioni finisce con lo scompaginare gli eventi e renderli poco chiari. La Storia di Napoli è complessa e va invece analizzata serenamente, senza nostalgie, recriminazioni e strumentalizzazioni. Accade quindi che anche il Comune di Napoli incappi in un non lieve errore storico nel comunicato stampa della Giunta (leggi qui), parlando di martirio degli “illuministi napoletani”. Gli uomini della Repubblica Napoletana non erano illuministi ma più correttamente colti esponenti della borghesia filomassonica. Gli illuministi, i riformatori che fecero di Napoli il centro universale dei Lumi, erano stati Pietro Giannone, Giambattista Vico, Bartolomeo Intieri, Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. Gli eccezionali scritti di quest’ultimo animarono gli intellettuali della Repubblica, ma il giurista napoletano aveva sostenuto e consigliato il primo ministro monarchico Bernardo Tanucci; e prima ancora, Antonio Genovesi aveva sostenuto la monarchia illuminata di Carlo di Borbone. Certamente un anello di congiunzione tra il giacobinismo e l’illuminismo furono alcuni figli della dottrina economica di Antonio Genovesi, tra cui spiccava Francesco Mario Pagano; ma questi, dopo l’assorbimento degli influssi rivoluzionari, deviarono il grande Pensiero napoletano rivolto alla soluzione dei problemi locali verso la corrente francese nata da una piattaforma sociale diversa. Quella parte di borghesia massonica era pure stata a Corte, ben vista e agevolata dalla massona Maria Carolina (Eleonora Pimentel Fonseca sua bibliotecaria, Domenico Cirillo suo medico, etc). Fu proprio grazie alla regina che accrebbero posizione e influenza. Tradirono la grande fiducia che la sovrana concesse loro per riformare il Regno quando il Gran Maestro napoletano Francesco d’Aquino fu rimpiazzato nel ruolo di favorito dall’inglese John Acton. Ripicche politiche da perdita di influenza, insomma, e ancora nel 2015 si confonde l’Illuminismo napoletano col giacobinismo, che fu invece il sottoprodotto dell’esterofilia della dotta borghesia filomassonica.
Bisogna anche chiarire il concetto di “rivoluzione”, e chi la fece. Una rivoluzione la fa il popolo, e il popolo, in quei mesi turbolenti, fece la resistenza. Il resto furono intrighi politici e interessi personali annegati purtroppo nel sangue. La “rivoluzione” partenopea non fu compiuta dal popolo napoletano e neanche dagli intellettuali della borghesia, bensì dalle milizie francesi, con lo scopo di assorbire soldi e opere d’arte in città. Dieci anni di tasse non pagate dai cittadini francesi dopo la Presa della Bastiglia necessitavano di rimedio, e l’Italia offriva liquidità da spremere nonché la nuova moda europea del momento, scoppiata col rinvenimento dei reperti vesuviani operato: il Neoclassicismo. Il temibile esercito francese, tra grandi resistenze, entrò a Napoli anche grazie ai giacobini napoletani, che aprirono il fuoco alle spalle del popolo da Castel Sant’Elmo, lasciando a terra migliaia di corpi esanimi. Erano napoletani, popolani, che cercavano di fermare l’ingresso del più forte esercito d’Europa con una strenua resistenza, ammirata dal generale Championnet, lo stesso condottiero che, come testimonia la pubblicazione Souvenirs du général Championnet (Flammarion – Parigi, 1904), annunciava con delle lettere inviate al ministero dell’Interno del Direttorio di Parigi la spedizione di gessi, statue, busti, marmi e porcellane di pregio trafugate a Napoli (lo straordinario pieno di opere d’arte in Italia e oltre consentì a Napoleone di riorganizzare nel 1800 l’esposizione del Louvre). Persino l’Ercole Farnese, principale obiettivo francese, fu imballato e approntato per andare a Parigi. Non partì perché i transalpini indugiarono. Eleonora Pimentel sapeva e qualcosa pure la raccontò sul suo Monitore Napoletano (la sottrazione di tutte le collane d’oro dispensate ai cavalieri del Toson d’Oro). Lei e tutti gli intellettuali giacobini sostenevano la tesi di Parigi per cui la Francia era l’unica nazione capace di garantire l’inviolabilità delle grandi opere e garantirle all’umanità nei secoli futuri.
E fu sempre il popolo a riprendersi la città e il Regno, dopo neanche sei mesi, approfittando dello sbandamento delle truppe napoleoniche, via dall’Italia dopo gli affanni di Bonaparte in Egitto e ovviamente disinteressato a dare protezione agli uomini della Repubblica Napoletana, che nel frattempo non avevano prodotto alcuna riforma politica. Non conoscevano le necessità del popolo, dimostrando di non  aver recepito l’altissimo insegnamento di Genovesi. I dotti massoni di Corte tradirono, sapendo a cosa andavano incontro. Il tradimento, ai quei tempi, era punito dappertutto con la pena capitale. Sapevano anche di mancare di adesione popolare ma erano sicuri di essere protetti dai fortissimi francesi. Fecero male i loro calcoli.
Stime ufficiali indicano circa 3.000 morti a Napoli, ma ne furono di più nell’arco di quei sei mesi; il generale francese Paul-Charles Thiébault, tra i protagonisti di quelle vicende, trascrisse nelle sue memorie la stima di 60.000 vittime in tutto il Regno, limitata ai primi mesi del ‘99. Morti che sembrano non aver mai pesato sul bilancio tra le parti.
E allora, di quale rivoluzione si continua a parlare a distanza di più di due secoli? Qualche anno fa, in una puntata del programma televisivo Passepartout di Philippe Daverio, Nicola Spinosa, ex Sovrintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico di Napoli  (premiato nel 2008 col “FIAC Excellency Award 2008” come uomo che ha più contribuito alla diffusione della cultura italiana negli Stati Uniti), si espresse con toni molto duri nei confronti di chi continua a raccontare male e faziosamente la storia, definendo quella che ancora oggi tramandiamo come “rivoluzione napoletana” come qualcosa che non ha lasciato alcun segno nella cultura della Città, «un recupero storicistico operato da certi settori dell’intellighenzia napoletana» (guarda qui). Settori che hanno stimolato la realizzazione della nuova targa commemorativa in piazza Mercato e che però spingono per dimenticare le migliaia di morti tra il popolo napoletano perché poveri, incolti, straccioni.
Dunque, se è vero che per la repubblica il popolo è sovrano, ricordiamo anche il massacro dimenticato di migliaia di “lazzari” oltre alle notissime decapitazioni tra la borghesia partenopea… per rispetto della Storia e in nome dei diritti civili e della Libertà.

a “Le Iene” e “Linea Gialla” il dolore della Campania assassinata… non solo dalla camorra

Angelo Forgione – Mentre il Napoli perdeva a Londra e tutto il popolo azzurro trepidava per le vicende della squadra del cuore, andava in onda su Italia1 un reportage de Le Iene sulla tragedia casuata dai rifiuti tossici sversati nelle campagne tra Napoli e Caserta (clicca qui). Non una novità ma ulteriori venti minuti drammatici per chi non ha ancora capito a cosa è soggetto il popolo campano compreso in quel fazzoletto di terra.
Il titolo, banale, non era da programma di controinformazione: “la camorra uccide anche senza pistole”, ed è pur corretto, ma incompleto. Manca “con la responsabilità dell’industria del Nord nel silenzio dello Stato”. L’importanza dei titoli è insospettabile e non tutti sanno che nei quotidiani esiste la figura professionale del titolista che ha la responsabilità di indirizzare l’attenzione sul cuore dei problemi sviscerati dai giornalisti negli articoli. La camorra uccide senza pistole perché allettata dai facili guadagni ma lo Stato sa bene che il Centro-Nord e parte d’Europa smaltiscono da decenni i veleni delle aree industrializzate in Campania. Protagonista del reportage anche l’encomiabile Don Patriciello che ha sottolineato proprio che la visita dell’ex ministro della Salute Renato Balduzzi di qualche tempo fa è stata solo una comparsata che non ha fruttato alcun intervento. Balduzzi è proprio quel ministro che giustificò l’aumento dei tumori in Campania con le cattive abitudini alimentari, l’obesità e la sedentarietà.
Lo scorso week-end, Don Patriciello ha incontrato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha esternato la sua solidarietà alle mamme dei bambini colpiti da questo avvelenamento programmato e si è mostrato come sorpreso, quasi disinformato, da una vicenda che sembra aver appreso all’improvviso. È comprensibile il ruolo delicato di Don Patriciello, già sopraffatto in un aula di Prefettura a Napoli dalla protervia dell’ex-prefetto De Martino che lo riprese con spocchia per aver chiamato “signora” l’omologa di Caserta, e si può intuire il perché il coraggioso uomo di Chiesa abbia ringraziato Napolitano, ma la gran parte del popolo napoletano che si riconosce in lui è solo lui che deve ringraziare: non deve dire “grazie” alle alte cariche dello Stato che sanno benissimo, e da vent’anni, cosa accade in Campania, che conoscono bene i motivi del duplice omicidio Alpi/Hrovatin, che sanno che la Campania è al centro di un traffico internazionale di scorie tossiche, e che non hanno speso una parola sull’argomento nei loro discorsi ricchi di retorica su un Paese allo sbando e senza compattezza. Processi e inchieste che negli anni hanno svelato le dinamiche perverse con cui sono state condotte le scorie nocive non sono segreti di Stato, e la solidarietà e la vicinanza alle mamme dei bimbi e tanto inutile quanto amara. Gli studi delle Commissioni d’inchiesta parlamentare allertano che intorno al 2060 ci sarà il picco di incidenza tumorale, paragonabile alla peste del Seicento. Una perizia dal geologo torinese Giovanni Balestri ha analizzato nel 2010 l’avvelenamento delle falde acquifere di Giugliano e delle zone limitrofe, indicando che nel 2064 ci sarà la piena delle precipitazioni in una falda colma di percolato e rifiuti tossici. Ogni forma di vita potrebbe essere estinta! Tutto ciò basterebbe per intervenire subito, senza se, senza ma e senza sterile solidarietà. Ciò che è stato fatto alla Campania è tragico e ci vuole poco a prevedere il futuro: nel 2061, saranno festeggiati con il biocidio campano i due secoli di Unità nazionale. Ci saranno voluti duecento anni a completare il percorso di distruzione di una Terra che ha civilizzato l’Europa. Prima occupata, poi derubata, infine inquinata. E i campani devono pure ringraziare?

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Quando “napoletano” è cialtrone italiano

Angelo Forgione – Mentre la Costa “Concordia” torna in posizione eretta anche grazie alla scienza napoletana e alle competenze tecniche della città partenopea, si riaccendono i riflettori su Francesco Schettino, lo sciagurato comandante del disastro in attesa di giudizio. È stato da subito considerato uno sbruffone, un buono a nulla, addirittura un soggetto pericoloso e spavaldo della cui minacciosa personalità (?) bisognava accorgersi prima dell’incidente dell’Isola del Giglio. Eppure la pratica dell’inchino non era eccezionale, non un’iniziativa cervellotica e personale, ma una consuetudine che proprio Costa crociere, sul proprio blog ufficiale, decantava, come in occasione del settembre 2010, quando fu compiuto all’isola di Procida (video). È la stessa Compagnia ringraziava il comandante, salvo poi prenderne le distanze all’indomani della sciagura nei mari toscani. La pratica non era sporadica e la ripetevano anche altre compagnie in ogni posto suggestivo, come di fianco ai faraglioni di Capri.
È evidente che il comandante campano sia diventato lo strumento per uno squallido giudizio sulle sue origini napoletane. Leghisti e non, da più parti, hanno attaccato la comunità napoletana capace di generare personaggi del genere, levantini e incapaci di assumersi delle responsabilità. La sottocultura italiana del dito contro sempre puntato è venuta a galla mentre la nave era ormai ripiegata su se stessa. Schettino è figlio della cultura marinara di Meta di Sorrento, cittadina che affaccia sul mare e quell’orizzonte lo scruta ogni giorno. Una cultura prima imparata nella sua formazione marittima e poi tradita in una notte di follia e terrore, ma pur sempre una cultura che ha dato e da tanto all’Italia. La stessa cultura del Capitano di fregata Gregorio De Falco da Sant’Angelo di Ischia, da tutti indicato come l’uomo che ha dimostrato polso fermo e sangue freddo.
Poco o nulla è cambiato dai giorni tristi della tragedia. Un articolo de il Fatto Quotidiano di oggi, 17 settembre 2013 (immagine in basso), ritorna sulle tracce di Schettino e lo cataloga come “napoletano”, laddove per napoletano si intende “cialtrone italiano”. Qualcuno conosce forse il nome del comandante della “Jolly Nero” che travolse ad alta velocità la torre piloti del porto di Genova, causando 9 morti? Ve lo dico io. Si chiama Roberto Paoloni. E qualcuno sa di dov’è? Ve lo dico io. È di Genova. Certo, è facile ironizzare su una presunta mentalità irresponsabilmente meridionale di Schettino, ma la memoria corta di una certa becera sottocultura italiana fa dimenticare che nel 2001 una tragedia ben più grave ma meno “cervellotica” vide due aerei scontrarsi a terra sulla pista di Linate con ben 118 morti, e le condanne colpirono Sandro Gualano, Paolo Zucchetti, Antonio Cavanna e Giovanni Lorenzo Grecchi; un torinese, due milanesi e un pavese ritenuti responsabili di gravi omissioni e negligenze procedurali. Ma evidentemente i cialtroni sono solo i napoletani… e i napoletani, solo cialtroni.
Impossibile stare a questo gioco. Schettino è stato un irresponsabile, prima sbruffone e poi codardo, e dovrà evidentemente saldare il conto con la giustizia, ma i napoletani non hanno di certo il copyright della cialtroneria certificata, che appartiene invece a qualche operatore dell’informazione.

Funerali per la Villa Comunale

La villa comunale, come tutta la Riviera di Chiaja, sta morendo per colpa dei lavori della linea 6 metropolitana. Sono già morti gli alberi e il decoro, la Cassa Armonica è stata sfigurata, spuntano sfoghi della metropolitana, e quella che una volta era la Villa Reale oggi non è altro che un cantiere. Per lunedì, al tramonto, è fissato un funerale della villa stessa cui prenderanno parte diverse associazioni e movimenti cittadini che non ci stanno a veder morire il sito iniziato nel periodo vicereale e reso “reale” da Ferdinando di Borbone nel 1779.
Qualcuno non comprende la protesta promossa da un’indignazione comunque diffusa, protesta che rischia certamente di essere rivestita da significati politici, ma alla manifestazione sono stati comunque invitati anche il sindaco Luigi de Magistris, il vice sindaco Tommaso Sodano e gli assessori Nino Daniele (Cultura) e Carmine Piscopo (Urbanistica). Chi ha a cuore i destini della città non può assistere in silenzio a ciò che sta accadendo e il Movimento V.A.N.T.O., per evidenti motivi, ci sarà, anche perché ha subito denunciato lo smontaggio della pensilina in ghisa e vetro policromo della Cassa Armonica e perché non ci sta a veder morire un pezzo di grande Storia napoletana. La modernizzazione della città, necessaria, non può e non deve travolgere i siti di rilevanza storica e monumentale!
La manifestazione, aperta a tutti, è dunque prevista per lunedì 22 Luglio a partire dalle ore 18:00, quando il ‘funerale’ muoverà dall’ingresso della Villa e proseguirà in corteo fino alla Cassa Armonica, luogo simbolo di tutta la devastazione avvenuta.

clicca qui per vedere il video-reportage di Alessio Viscardi per Fanpage.it