Colera e Corona: aveva ragione Feltri

Angelo Forgione Che sciagura il Coronavirus! E alla fine, obtorto collo, c’è pure da dare ragione al fanatico Vittorio Feltri, che il 21 febbraio, al principio del disastro lombardo, scrisse su twitter: “Da lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola confronto al Corona”. La situazione poco chiara, coniugata al suo proverbiale “pregiudizio” anti-meridionali, aveva fatto pensare alle solite offese, al solito luogo comune del colera a Napoli. E invece, a oltre tre mesi da quell’allarme, il colera del 1973 nel Sud Italia, con focolaio vesuviano, appare davvero un fiammifero al cospetto dell’immenso rogo virale del 2020 che ha colpito pesantemente il Nord e particolarmente la Lombardia. In concreto, il colera causò soli 24 morti e 277 infettati tra Napoli, Caserta, Bari, Taranto, Foggia, Lecce, Brindisi e Cagliari, con qualche caso anche a Roma, Pescara, Firenze, Bologna e Milano. Numeri irrilevanti al cospetto del Covid-19, che ad oggi, a macabri conteggi ancora in corso, ha causato in Italia 33.415 decessi e 233.019 casi ufficiali. La Lombardia è evidentemente la regione più colpita, con 16.112 morti, la metà dell’Italia intera, e 88.968 contagiati certi. E come fai a non dare ragione a Vittorio Feltri?

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Poi, allo stesso Feltri in avanti, è nato una sorta di revanscismo lombardo opposto a una certa campagna discriminatoria contro la Lombardia e Milano che non c’è mai stata. Una narrazione che ha francamente stufato! Una mera questione sanitaria tradotta da qualcuno in nuova discriminazione al contrario. Ma quale discriminazione? Non pare affatto che esista un sentimento d’odio verso una popolazione che merita solidarietà piena per i lutti subiti e originati dagli errori di qualche incapace nella stanza dei bottoni. Una volta che la Lombardia se la passa male per colpe della macchina politico-industriale salta fuori la storia dell’accanimento contro gli invidiati primi della classe. È piuttosto un’invenzione, un certo piagnisteo figlio di un fastidio intollerabile di chi lo prova, un peso insostenibile di una croce che qualcuno animato da un complesso di superiorità mai si sarebbe aspettato di dover portare sulle spalle, e non vuole affatto portarlo, per aver costretto l’Italia intera al blocco totale e aver messo l’economia del Paese in ginocchio.
Chi parla di discriminazione verso i lombardi e loro vicini non sa cos’è la discriminazione. Io che sono napoletano lo so, ma evidentemente non tutti sono al corrente di cosa è accaduto ai napoletani e ai meridionali durante e dopo l’epide­mia di colera scoppiata a fine agosto 1973 a Napoli, con altri focolai a Bari, Taranto e Cagliari. Forse servirà un po’ a tutti riavvolgere il nastro con pazienza per mettere in parallelo i due momenti.

I provvedimenti restrittivi all’arrivo del colera furono applicati solo nelle regioni “colerose”: rinvio dell’anno scolastico a novembre inoltrato, chiusura dei cinema, dei teatri e delle università. Per accedere alle Facoltà del Centro e del Nord, gli studenti provenienti dalle Regioni del Sud, anche quelle in cui l’epidemia non c’era, furono obbligati a presentare il certificato della vaccinazione anticolerica, e nessuno protestò per questo.
Inviati di importanti quotidiani del Nord, in un tempo in cui internet era solo fantascienza e non c’erano i programmi di Barbara D’Urso, si sbizzarrirono a descrivere Napoli e Bari con esagerazioni, fake-news e spesso con accenti razzisti.
Spinto dalla Regione Liguria, il Genoa chiese al Calcio Napoli di non recarsi a Genova per una partita di Coppa Italia. La Lega invertì i campi ma il Genoa si rifiutò di scendere a Napoli, così come il Verona evitò di recarsi a Bari, a costo di perdere a tavolino e prendersi delle penalizzazioni. Il capitano degli Azzurri, Antonio Juliano, napoletano purosangue, gridò tutto il suo sdegno alla stampa: “Ma cosa credono quelli del Nord? Hanno paura d’infettarsi giocando al calcio con noi? Sappiano che d’ora innanzi saremo noi a non voler andare più al Nord. Questa discriminazione ci umilia come uomini e specialmente come sportivi”.
Chi viaggiava da Sud a Nord per lavoro veniva tenuto a distanza, e neanche le mani gli si stringeva. Qualcuno si vide le porte degli alberghi chiuse in faccia per volontà di lombardi e piemontesi, o anche quelle di casa propria dai parenti nel caso di impavidi settentrionali reduci da viaggio di lavoro nelle regioni del contagio. Psicosi ben più eccessiva rispetto a quella da Covid-19, visto che la trasmissione della colera non avveniva per contatto sociale, e non c’era bisogno di mascherine e altri accorgimenti. Ci si poteva infettare ingerendo acqua o alimenti contaminati dalle feci di individui infetti e la paura del prossimo era totalmente immotivata e dettata da ignoranza e pregiudizio.
Il contagio da Covid-19 è invece diretto, per via orale, e contraddistingue un virus con altissima carica virale, quindi con alta trasmissibilità. Tutto il contrario del colera, e i numeri snocciolati lo dimostrano. Ed è per questo che chiedere sicurezza non è discriminare, non è voler ghettizzare una regione che un problema sanitario più ampio di altri ce l’ha, e non è ancora risolto, a quattro mesi dai primi casi. Un mese e mezzo, invece, ci vollero nel 1973 per risolvere l’epidemia di colera nella città più colpita, Napoli (a Barcellona in due anni).

Le cause del bubbone sanitario lombardo sono evidentemente dovute a ritardi ed errori governativi, mentre quelle dell’infezione del 1973 al Sud furono individuate in un’abbondante partita di cozze giunta sui mercati del Mezzogiorno dalla Tunisia, ascrivibili alla posizione geografica e non alle condizioni igienico-sanitarie e socioeconomiche, sulle quali invece si fece leva per discriminare. Nessuna colpa fu da assegnare alle città e ai cittadini meridionali ma nessuno se la prese con il Nordafrica. No, la colpa fu comunque lasciata ai napoletani, che mangiavano anche le cozze del loro mare, nelle quali non fu trovato alcuna traccia di vibrione. Eppure gli esperti, informati dall’OMS, sapevano che l’epidemia da vibrione “El Tor”, nell’ambito della settima pandemia, era partita dodici anni prima dall’Indonesia e stava transitando nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 e ancora oggi è in circolo. Altro che colpe napoletane!

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La scorretta informazione contribuì a far crollare il turismo e le conseguenze socio-economiche a Napoli furono pesantissime, con un meno novanta percento di presenze, recuperate solo a partire dal G7 del 1994, cioè ben ventun’anni più tardi.
Le squadre di calcio, compreso che l’epidemia non era tale bensì davvero poca cosa, tornarono presto a giocare contro il Napoli ma il colera sopravvisse nei cori e negli striscioni contro i napoletani, che non sono ancora finiti a circa cinquant’anni di distanza. Anzi, prima della sospensione del corrente campionato, proprio i tifosi bresciani, ignari di ciò che stava per accadere alla loro comunità, gridavano ” napoletano coronavirus,” mentre i napoletani, per tutta risposta, rispondevano con un eloquente “Nelle tragedie non c’è rivalità, uniti contro il Covid-19“. All’esterno dello stadio Meazza di Milano, qualche giorno prima, era apparso nottetempo lo striscione “Napoletani figli del colera, vi mettiamo in quarantena“. E come dimenticare le mascherine indossate dai tifosi milanisti a Napoli all’epoca dell’emergenza rifiuti, che poi era figlia di un patto scellerato tra camorra e imprenditoria settentrionale?

L’apertura della Lombardia, all’evidenza dei numeri, è un rischio per tutti che appare dettato da una sorta di sudditanza nei confronti di un territorio con un Pil importante che sa di poter puntare i piedi. Le pacate minacce del sindaco Sala ai sardi sono un segnale chiaro in tal senso. E però, a rivedere quel che successe al tempo del colera, con cicatrici ancora visibili sulla pelle dei napoletani, chissà come verrebbero trattati oggi i campani se al posto scomodo della Lombardia vi fosse la loro regione.
E qualcuno, in Pianura padana, pur soffre di discriminazione. Piuttosto, che questa storia cancelli mezzo secolo di offese ingiustificate ai napoletani e migliori tutti. Che dite, possiamo avere speranze?

Il Coronavirus al Nord che uccide il Sud

Angelo Forgione Eccoci dunque vicini al traguardo del 18 maggio che chiuderà il lockdown nazionale. Tutti fermi per due mesi, anche se l’emergenza sanitaria non aveva e non ha uguali aspetti per tutti. Blocco giusto da Bolzano a Pantelleria, per evitare la “migrazione” dei contagi da Nord a Sud. Il focolaio del Covid-19 ha avuto origine in Lombardia, causa le negligenze sanitarie, le pressioni del mondo dell’industria e l’inquinamento atmosferico, espandendosi nelle regioni confinanti in pochi giorni. Ma il Coronavirus non ha sfondato al Sud, nonostante i timori, le cassandre e pure le invidie di qualche giornalaccio che a inizio marzo già esultava precocemente per il “Virus alla conquista del Sud” e per l’unità d’Italia, sperando nella presunta indisciplina dei meridionali che poi si è rivelata il solito stereotipo.
Ancora oggi le prime cinque regioni per contagi (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, Toscana) coprono tre quarti del totale dei casi e dei ricoverati in terapia intensiva e incidono per quattro quinti dei decessi. I nuovi casi continuano a riguardare il Nord, dove il tasso di letalità di tre regioni è oltre la media nazionale (13,9%). La Lombardia, secondo gli ultimi dati, è al 18,4%, la Liguria al 14,5%, l’Emilia Romagna al 14,3%, mentre al Sud il Molise è al 6,7%, la Basilicata al 6,8% e via fino al picco dell’Abruzzo con 11,4%.

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In questo scenario di evidenza statistica ha senso parlare di una sola Italia? No, e il problema andrebbe affrontato con due regie separate e coordinate, una per il Nord e un’altra per il Centro-Sud, anche sulla base di un secondo presupposto, quello economico, perché gli indici dei Pil sono diversi ed è arcinoto quanto il Sud fosse in affanno già senza l’irruzione del Coronavirus, il cui tsunami pandemico lo affosserà ancora di più. Lo Svimez ha già avvisato che la probabilità di uscire dal mercato delle imprese meridionali è quattro volte superiore rispetto a quelle del Centro-Nord. L’impatto del Covid-19 sull’economia e sull’occupazione nel Mezzogiorno sarà certamente di gran lunga peggiore che altrove, perché il problema ora saranno le riaperture dei ristoranti e degli stabilimenti balneari, roba che anima il turismo, ciò di cui campa in buona sostanza il Meridione, a differenza del Settentrione, che è trainato anche dall’industria; ed è evidente che la stagione estiva sia fondamentale per le economie già fragili delle regioni del Sud, che stanno già implodendo per l’azzeramento delle prenotazioni turistiche e la chiusura di quelle attività commerciali e ristorative che ogni anno creano numerosi posti di lavoro durante l’alta stagione. Le disposizioni sanitarie per le riaperture costringeranno tantissimi ristoratori disperati a chiudere le loro attività anche di lungo corso, per non parlare delle difficoltà per i gestori di lidi, a molti dei quali non converrà aprire gli ombrelloni. C’è poi l’indotto dei matrimoni, un’economia stagionale prettamente meridionale completamente arenata. 17mila matrimoni cancellati solo tra marzo e aprile, e 50mila quelli che secondo le stime salteranno tra maggio e giugno. Bloccata una filiera fatta di sarti, operatori catering, wedding planner, fioristi, organizzatori di eventi, fotografi, location matrimoniali, musicisti, noleggiatori di auto da cerimonia, truccatrici e parrucchieri specializzati, che potranno rifarsi solo nei prossimi anni, ammesso che possano superare la crisi.

Eppure è evidente che il vero problema del Covid-19, rispetto ad altri virus, non è la letalità ma la contagiosità, che ha minacciato e allertato per l’affluenza nelle strutture sanitarie di una quantità di persone superiore alle disponibilità. Contagiosità che con il primo caldo, evidentemente, si sta già notevolmente attenuando, e si addolcirà decisamente, come sostengono diversi esperti, visto che i modelli fisico-matematici prevedono per l’estate in arrivo valori medi intorno ai 26°C, di un grado più alti della media. Qualche meteorologo l’ha già definita “la più calda estate di sempre”, e ci toccherà affrontarla con la mascherina alla bocca camminando per le strade roventi delle nostre città, con il rischio di non riuscire neanche a rimediare un posto sulla spiaggia. Dramma per il Sud, ma tutto ciò non conviene neanche al Nord, che può sì contare sulla ripresa industriale, ma ha comunque bisogno del potere d’acquisto dei meridionali. Il peggioramento della già fragile economia del Sud sottrarrà domanda alle imprese nordiche, per non parlare del sostegno ai redditi necessario che il governo dovrà offrire a milioni di cittadini, molti dei quali, soprattutto al Sud, sarebbero invece nelle condizioni di lavorare e fatturare senza bisogno di assistenza.
Il Sud turistico, dove il contagio, le temperature e l’inquinamento non sono come in Pianura Padana, è una risorsa per l’Italia tutta e la manovra più giusta sarebbe quella di spingerlo a una ripresa più veloce, almeno nella calda parentesi estiva. Invece, in un paese a due velocità, si è scelto di tenerlo zavorrato insieme al Nord.

La Commissione europea pare si stia attivando per salvare il turismo estivo e ha già invitato gli Stati membri a riaprire gradualmente le frontiere interne laddove la situazione sanitaria lo consenta, ma è chiaro che le problematiche di Italia e Spagna le condannino a restare fuori da eventuali “corridoi turistici” e dai flussi contingenti, che privilegeranno la spiagge e i ristoranti delle nazioni meno colpite come Grecia, Croazia, Malta e Portogallo. Eppure il Sud-Italia non ha problematiche maggiori di quei paesi, ed è chiaro anche da questo punto di vista che sconterà le problematiche del Nord, le colpe ampiamente conclamate della Lombardia e la volontà politica di non differenziare la ripresa in base alle diverse criticità per adottare un metro estivo uguale per tutti che porterà Nord e Sud a una recessione più profonda e i meridionali nel baratro.

dibattito con il giornalista e ristoratore Yuri Buono sullo scenario economico
che si prospetta a causa del Coronavirus

40 anni dopo, il colera del 1973 a “Speciale Tg1”. Quali intenti?

Domenica 25 agosto andrà in onda una puntata di “Speciale Tg1” che rivisiterà i drammatici eventi del colera a Napoli del 1973, a quarant’anni dall’epidemia che colpì non solo la città partenopea ma anche altre città del bacino del Mediterraneo.
«Dopo quarant’anni Napoli si ritrova nelle medesime condizioni di allora, se non peggio». Il giudizio tranchant sarà espresso del regista napoletano Francesco Rosi nel documentario curato dal vicedirettore della testata, il napoletano Gennaro Sangiuliano. E in effetti le condizioni igieniche di Napoli sono ancora oggi al di sotto degli standard europei e indegne di una città di grandissima storia e cultura. Nessuno lo neghi e lo nasconda, ma c’è da chiedersi quali siano gli intenti nel “celebrare” quegli eventi a otto lustri di distanza, riproponendo presumibilmente le inchieste realizzate all’epoca dei fatti che non furono certamente obiettive ed equilibrate. Quell’epidemia, infatti, non fu causata dalle pur precarie condizioni igieniche della Napoli degli anni Settanta, non dalle cozze coltivate nel mare napoletano cui furono attribuite le colpe, ma da una partita di mitili provenienti dalla Tunisia, da cui transitò la pandemia proveniente dalla Turchia via Senegal, cozze che furono sdoganate anche a Palermo, Bari, Cagliari e Barcellona, colpite anch’esse dal vibrione del colera. A questo proposito, si legge dalle pagine online dell’Espresso che lo speciale del Tg1 racconterà “una pagina cupa della storia di Napoli, troppo presto dimenticata, decine di morti e migliaia di contagiati, con casi che si estesero a Bari e ad altre località del Mezzogiorno”. Scritto così, sembra che le altre città furono contagiate dal focolaio di Napoli. E del resto, in quei giorni, fu proprio L’Espresso a titolare in copertina “Bandiera gialla”, schiaffeggiando la città insieme a tutta la stampa, nazionale e internazionale, che perse il senso della misura, speculando sulla città partenopea con racconti di fantasia sui napoletani e diffondendo notizie non verificate. Una biologa inglese, ricoverata al Cotugno per altri motivi, scrisse un reportage per il Times ricco di ricami sulle condizioni igieniche dell’ospedale, in cui parlò di un’esperienza da incubo. Poi ritrattò.
Il presidente dell’Ente Porto e l’Ufficiale Sanitario vennero indiziati di epidemia colposa dalla magistratura, per poi essere scagionati proprio dalla cozza tunisina. L’epidemia, a Napoli, fu debellata velocemente, e l’emergenza fu ufficialmente dichiarata chiusa in meno di due mesi dall’OMS, a tempo di record grazie alla più imponente profilassi della storia europea e ad un’ammirevole compostezza della popolazione nelle operazioni di vaccino, mentre le altre città, Barcellona compresa, ci misero due anni per liberarsene completamente. Tutto questo è raccontato con grande precisione ed equilibrio da uno speciale de “La storia siamo noi” del 2011 (guarda il video), a cura di “Village Doc&Films” di Sergio Lambiase e Aldo Zappalà, in cui anche Paolo Mieli dichiara che “la criminalizzazione di Napoli fu davvero sproporzionata”.
I media dell’epoca alterarono la realtà, consegnandola al pregiudizio, rompendo le ossa all’immagine della città. Solo quando dopo trenta giorni a Napoli tutto finì fu reso noto che il vibrione era nelle cozze tunisine. Nessuno però descrisse più l’epidemia che perdurava altrove, mentre Napoli si ritrovò orfana di turisti, ormai convinti che fosse una Calcutta italiana. Negli stadi d’Italia, luogo di crescente calciocentrismo nazionale, il Napoli di Vinicio fu da allora accolto al grido di “colera”, e fu proprio in quel momento storico che nacque quel coro/slogan razzista ancora ben radicato e mai contrastato dagli ipocriti organi preposti al contrasto dei fenomeni razziali negli impianti sportivi. Baresi, palermitani, cagliaritani e catalani non sono apostrofati come “colerosi”, e neanche i tifosi delle squadre di Milano, Genova, Torino, Verona, Treviso, Venezia, Trieste, Parma, Modena, Como, Bergamo, Brescia e altre città del Nord non bagnato dal mare ma colpite nell’Ottocento da diverse pandemie di colera per le scarse condizioni igieniche e non per delle cozze importate.
Bisogna augurarsi che “Speciale Tg1” sia equilibrato e corretto quanto “La storia siamo noi”, evitando di calcare la mano sulla cassa di risonanza che da sempre Napoli offre ai romanzieri dell’informazione ma, al contrario, cogliendo l’occasione per ricostruire la realtà dei fatti del settembre 1973 e riattribuire a Napoli quanto in quel periodo fu tolto sotto il profilo dell’immagine. In caso contrario, il documentario produrrebbe il solo risultato di alimentare stereotipi e pregiudizi, danneggiando nuovamente l’immagine di una città che faticosamente sta di nuovo intercettando il turismo internazionale, dando tra l’altro ulteriore fiato al volgare razzismo anti-Napoli negli stadi. Che poi la Napoli di oggi abbia più o meno gli stessi gravi e irrisolti problemi, come sostiene Rosi, non c’è alcun dubbio; ma questa è un’altra storia, che anche all’epoca dei fatti del colera fu strumentalizzata per vendere giornali, quotidiani e inchieste televisive.
La carente igiene di Napoli e del Sud-Italia esposto al mare di certo non aiutò a respingere il colera, che partì nel 1961 dall’isola indonesiana di Sulawesi e travolse un po’ tutto il Globo (vedi immagine in basso tratta da “Principi di Microbiologia Medica” – La Placa XII edizione). Si auspica che il vicedirettore Sangiuliano, napoletano, vorrà descriverlo.

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Video: COLERA A NAPOLI (1973), cause e pregiudizio

Video: COLERA A NAPOLI (1973), cause e pregiudizio
ecco come è stata appiccicata l’etichetta di “colerosi”

Angelo Forgione – A causa di cozze importate dalla Tunisia, nel 1973 Napoli vive un’epidemia di colera che colpisce anche Palermo, Bari, Cagliari e Barcellona. Ma le responsabilità vengono addossate ai Napoletani e alle condizioni igieniche della città e del suo mare, pur carenti ma non decisive.
Ne segue un feroce accanimento mediatico che non tiene conto invece delle positività espresse in un momento critico dalla città che consentono di superare la crisi velocemente mentre altrove perdura per anni. L’immagine di Napoli ne esce ancora una volta con le ossa rotte, con conseguente crisi del turismo.
Il videoclip riassume le parti più significative del programma RAI “La storia siamo noi” che ripercorre quei giorni riaffermando le reali responsabilità e le effettive esasperazioni. A ridimensionare il tutto e a spiegare il perchè di tanto accanimento ci pensa dopo 38 anni l’allora inviato de “L’Espresso” Paolo Mieli, la cui dichiarazione da vero giornalista equilibrato, informato e non prevenuto, merita di essere evidenziata perchè capace di spiegare tante cose al di là delle colpe pur evidenti dell’ambiente Napoletano. Significativo il finale del montaggio che, oltre a spiegare come sia nata l’etichetta di “colerosi” che ancora oggi è manifesto razzista delle tifoserie d’Italia, riafferma una metafora sportiva tanto cara a chi conosce la storia d’Italia e sa chi sia stato, nel 1860, ad inaugurare la denigrazione di Napoli.