––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione– Ci risiamo. Eravamo rimasti al Governatore della Puglia Michele Emiliano, barese, che solo qualche settimana fa affermava in diretta tivù che Bari criminale non è Napoli. E subito dopo, sempre in tivù, negli studi Rai di Napoli, il nutrizionista piemontese Federico Francesco Ferrero diceva che a Napoli qualcuno è mariuolo, parlando di pizza. Ora il microfono si sposta a Ginevra, dove per il massacro di una donna è Napoli a pagare, in termini di immagine. La vittima, una 29enne ricercatrice italiana, della provincia di Torino, che frequentava un dottorato di microbiologia molecolare nella città elvetica, è stata colpita con una spranga da un uomo che l’ha aggredita per strapparle la borsetta mentre rientrava a casa. La polizia cerca un uomo tra i 20 e i 30 anni. Sul posto giungono le telecamere del Tg5, con Antonio Bartolomucci, leccese, che chiede alle colleghe italiane della vittima quanto si sentano al sicuro a Ginevra. Poi è il turno di una donna sudamericana del posto, che si presta a una sentenza all’italiana: «Ormai abbiamo paura anche noi. E questa è Ginevra, non Napoli!». Parole tranquillamente montate nel servizio e diffuse a milioni di persone, in barba alle più elementari regole deontologiche.
Si tratta ancora una volta di stigmatizzare il giornalista e il direttore responsabile di redazione, non la signora piena di pregiudizi, perché una frase diffamatoria talmente gratuita non dovrebbe mai essere sdoganata da un network nazionale. In poche parole, in fase di montaggio, andrebbe censurata e tagliata, esclusa dal contributo video. E invece accade che vada in diretta su tutto il territorio, alimentando i pregiudizi su una città tartassata di prassi da certa stampa. Ed è esattamente questo il motivo per cui anche una donna di Ginevra si lascia andare a un’affermazione totalmente fuori luogo, traendo dal riverbero dei media italiani ma anche svizzeri le parole più inadatte da pronunciare davanti a un microfono di un telegionale italiano. Il problema è che per il telegiornale italiano, spesso e volentieri, non sono parole inadatte.
Angelo Forgione –L’induismo lo chiama karma, cioè “azione”, a cui corrisponde una conseguenza, nel bene e nel male. I napoletani, che tutto traducono in massime di grande saggezza popolare dai tempi di Giambattista Basile, traducono il karma negativo così: Nun sputà ‘ncielo ca ‘nfaccia te torna! (non sputare verso l’alto perché la saliva ti torna in faccia). Effetto boomerang. Per chi ci crede, ciò che parte dalle azioni individuali impiega un certo lasso di tempo, più o meno lungo, per tornare alla fonte, in modo diretto oppure indiretto. Possono volerci anche anni, ma per Luciana Littizzetto è bastata una sola settimana. Era stata lei a tirare in ballo i napoletani come esempio italiano di massima inciviltà per dimostrare che gli olandesi di Rotterdam avevano fatto anche peggio, e pertanto gli italiani tutti potevano ritenersi alleggeriti, tutto sommato, del loro autolesionismo. «Vogliamo parlare di quelli che hanno distrutto piazza di Spagna, i tifosi? Cos’erano, napoletani? Erano olandesi, dei civilissimi olandesi». Dopo una settimana è subito da aggiornare quella frase che tanto ha fatto parlare, e che pure ha diviso gli stessi napoletani in una discussione sul presunto vittimismo partenopeo (chissà perché). Derby della mole: agguato al pullman della Juventus per le vie di Torino e bombe carta sui supporters granata. Un padre prende a calci il torpedone juventino tenendo per mano il figlioletto. Una giornata di ordinaria follia nel capoluogo sabaudo, una delle tante. Ieri a Torino, la prossima volta chissà dove. Cos’erano, olandesi? Erano torinesi, dei civilissimi torinesi. Avrebbe dovuto dirlo la Littizzetto in Rai, ma ha finito col farlo dal pulpito di Sky la bella Ilaria D’Amico da Roma, stupita dell’inaudita gravità dei fatti in una una città – per lei – civile ed abitata a una tifoseria composta. Stupisce semmai che una persona preparata come la compagna di Buffon inciampi in un simile convincimento, evidentemente persuasa che Torino fosse diversa dalla sua Roma (ultimamente nell’occhio del ciclone), da Napoli e da Palermo.
Così funziona, Signori, perché per chi ha il responsabile e delicatissimo ruolo di parlare alla Nazione insegue ostinatamente la certezza che Torino e il Nord progredito siano la culla della civiltà, lontana dal degrado sociale del retrivo Sud napoletanizzato. E se il Nord sgarra è perché é meridionalizzato. Non mi perdo nel tanto caro approfondimento storico alle radici della civilizzazione, non capirebbero quelli che hanno certezze e mai qualche dubbio.
E giù dibattiti, i soliti, con conduttori e opinionisti ad affannarsi per denunciare che tutto resta sempre uguale, e che la violenza non va via dal nostro Calcio. È una routine stucchevole perché il Calcio attira violenza dalla sua prima ora, soprattutto nell’Italia dei campanili. Già nel 1914 i sostenitori di Livorno e Pisa, un po’ come guelfi e ghibellini, si scambiarono sassate e colpi di pistola. Idem nel 1925 tra bolognesi e genoani, nella stazione di Porta Nuova a Torino. Come riporto nel mio prossimo libro in uscita a maggio (Dov’è la Vittoria, Magenes editore), nel 1928 fu Lando Ferretti, il presidente del CONI, a denunciare con facile lungimiranza nel suo Il libro dello sport (Libreria del Littorio, 1928) cosa sarebbe diventato il gioco del pallone per gli italiani:
“Le fortune travolgenti del Calcio fra noi, per il suo meraviglioso adattarsi al temperamento della stirpe, sono uno dei fatti salienti della ripresa sportiva italiana. Certo il Football ha potentemente contribuito a questa ripresa, ma oggi col suo incipiente professionismo e con le sue aspre contese campanilistiche cui dà luogo, ne compromette i successivi sviluppi.”
Se non ci scappò il morto a inizio Novecento fu solo per una lunga serie di fortunati esiti o per volontà superiore, se vi pare. Ma 27 vittime negli ultimi 51 anni, dentro e fuori gli stadi italiani, parlano chiaro. Ci hanno rimesso la pelle troppe persone, tra tante aggressioni, scazzottate, coltellate e qualche conflitto con le forze dell’ordine. Al Nord come al Sud.
Domenica 25 agosto andrà in onda una puntata di “Speciale Tg1” che rivisiterà i drammatici eventi del colera a Napoli del 1973, a quarant’anni dall’epidemia che colpì non solo la città partenopea ma anche altre città del bacino del Mediterraneo. «Dopo quarant’anni Napoli si ritrova nelle medesime condizioni di allora, se non peggio». Il giudizio tranchant sarà espresso del regista napoletano Francesco Rosi nel documentario curato dal vicedirettore della testata, il napoletano Gennaro Sangiuliano. E in effetti le condizioni igieniche di Napoli sono ancora oggi al di sotto degli standard europei e indegne di una città di grandissima storia e cultura. Nessuno lo neghi e lo nasconda, ma c’è da chiedersi quali siano gli intenti nel “celebrare” quegli eventi a otto lustri di distanza, riproponendo presumibilmente le inchieste realizzate all’epoca dei fatti che non furono certamente obiettive ed equilibrate. Quell’epidemia, infatti, non fu causata dalle pur precarie condizioni igieniche della Napoli degli anni Settanta, non dalle cozze coltivate nel mare napoletano cui furono attribuite le colpe, ma da una partita di mitili provenienti dalla Tunisia, da cui transitò la pandemia proveniente dalla Turchia via Senegal, cozze che furono sdoganate anche a Palermo, Bari, Cagliari e Barcellona, colpite anch’esse dal vibrione del colera. A questo proposito, si legge dalle pagine online dell’Espresso che lo speciale del Tg1 racconterà “una pagina cupa della storia di Napoli, troppo presto dimenticata, decine di morti e migliaia di contagiati, con casi che si estesero a Bari e ad altre località del Mezzogiorno”. Scritto così, sembra che le altre città furono contagiate dal focolaio di Napoli. E del resto, in quei giorni, fu proprio L’Espresso a titolare in copertina “Bandiera gialla”, schiaffeggiando la città insieme a tutta la stampa, nazionale e internazionale, che perse il senso della misura, speculando sulla città partenopea con racconti di fantasia sui napoletani e diffondendo notizie non verificate. Una biologa inglese, ricoverata al Cotugno per altri motivi, scrisse un reportage per il Times ricco di ricami sulle condizioni igieniche dell’ospedale, in cui parlò di un’esperienza da incubo. Poi ritrattò.
Il presidente dell’Ente Porto e l’Ufficiale Sanitario vennero indiziati di epidemia colposa dalla magistratura, per poi essere scagionati proprio dalla cozza tunisina. L’epidemia, a Napoli, fu debellata velocemente, e l’emergenza fu ufficialmente dichiarata chiusa in meno di due mesi dall’OMS, a tempo di record grazie alla più imponente profilassi della storia europea e ad un’ammirevole compostezza della popolazione nelle operazioni di vaccino, mentre le altre città, Barcellona compresa, ci misero due anni per liberarsene completamente. Tutto questo è raccontato con grande precisione ed equilibrio da uno speciale de “La storia siamo noi” del 2011 (guarda il video), a cura di “Village Doc&Films” di Sergio Lambiase e Aldo Zappalà, in cui anche Paolo Mieli dichiara che “la criminalizzazione di Napoli fu davvero sproporzionata”. I media dell’epoca alterarono la realtà, consegnandola al pregiudizio, rompendo le ossa all’immagine della città. Solo quando dopo trenta giorni a Napoli tutto finì fu reso noto che il vibrione era nelle cozze tunisine. Nessuno però descrisse più l’epidemia che perdurava altrove, mentre Napoli si ritrovò orfana di turisti, ormai convinti che fosse una Calcutta italiana. Negli stadi d’Italia, luogo di crescente calciocentrismo nazionale, il Napoli di Vinicio fu da allora accolto al grido di “colera”, e fu proprio in quel momento storico che nacque quel coro/slogan razzista ancora ben radicato e mai contrastato dagli ipocriti organi preposti al contrasto dei fenomeni razziali negli impianti sportivi. Baresi, palermitani, cagliaritani e catalani non sono apostrofati come “colerosi”, e neanche i tifosi delle squadre di Milano, Genova, Torino, Verona, Treviso, Venezia, Trieste, Parma, Modena, Como, Bergamo, Brescia e altre città del Nord non bagnato dal mare ma colpite nell’Ottocento da diverse pandemie di colera per le scarse condizioni igieniche e non per delle cozze importate.
Bisogna augurarsi che “Speciale Tg1” sia equilibrato e corretto quanto “La storia siamo noi”, evitando di calcare la mano sulla cassa di risonanza che da sempre Napoli offre ai romanzieri dell’informazione ma, al contrario, cogliendo l’occasione per ricostruire la realtà dei fatti del settembre 1973 e riattribuire a Napoli quanto in quel periodo fu tolto sotto il profilo dell’immagine. In caso contrario, il documentario produrrebbe il solo risultato di alimentare stereotipi e pregiudizi, danneggiando nuovamente l’immagine di una città che faticosamente sta di nuovo intercettando il turismo internazionale, dando tra l’altro ulteriore fiato al volgare razzismo anti-Napoli negli stadi. Che poi la Napoli di oggi abbia più o meno gli stessi gravi e irrisolti problemi, come sostiene Rosi, non c’è alcun dubbio; ma questa è un’altra storia, che anche all’epoca dei fatti del colera fu strumentalizzata per vendere giornali, quotidiani e inchieste televisive.
La carente igiene di Napoli e del Sud-Italia esposto al mare di certo non aiutò a respingere il colera, che partì nel 1961 dall’isola indonesiana di Sulawesi e travolse un po’ tutto il Globo (vedi immagine in basso tratta da “Principi di Microbiologia Medica” – La Placa XII edizione). Si auspica che il vicedirettore Sangiuliano, napoletano, vorrà descriverlo.
Qualche fastidio suscita una lettera scritta da un passeggero del “Frecciarossa” e pubblicata sul numero di Dicembre della rivista mensile “La Freccia” a distribuzione gratuita sui treni. È una storia a lieto fine dello smarrimento di un Ipad sulla tratta Bologna-Napoli. Un piccolo passaggio fa cattiva pubblicità ai napoletani che invece sono i protagonisti in positivo della vicenda senza che venga rimarcato.
Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini prende l’Eurostar 9337 a Bologna e scende a Roma dimenticando a bordo il suo tablet. Si convince di averlo ormai perso per sempre “tanto più che il treno proseguiva per Napoli”. E allora il pregiudizio riduce a zero la speranza, ma siccome c’è un Dio anche per i più prevenuti ecco che arriva una telefonata allo smemorato. È il capotreno Renato Scoppetta, napoletano, che ha ritrovato il suo oggetto prezioso. E, con molta educazione, si scusa anche moltissimo per aver violato la sua privacy accedendo a Facebook per capire di chi fosse il dispositivo e attivare una trafila di rintracciamento del proprietario.
Moroello si meraviglia e ringrazia sentitamente Renato che dice di aver fatto solo il suo lavoro. E sente il dovere di scrivere all’azienda per amplificare l’apprezzamento e smontare gli stereotipi di “tutti coloro che sono sempre pronti a denigrare le nostre aziende pubbliche e le persone che ci lavorano”. Peccato che proprio Moroello, certamente persona onesta e apprezzabile, sia però vittima del pregiudizio che limita la mente palesando di far parte di tutti coloro che sono sempre pronti a denigrare Napoli e i napoletani. La disonestà e l’onestà si fondono in tutti i posti del mondo e tanti oggetti prendono da Napoli anche la via furtiva del nord, libri preziosi compresi. Ma “è dall’esempio di persone come lui (Renato) che possiamo prendere fiducia e guardare avanti”, scrive Moroello che da un napoletano ha ricevuto il suo oggetto e un po’ di preziosa speranza che prima non aveva. “Ci sono piccoli gesti che fanno la differenza”, risponde l’azienda cui giunge qualche protesta dai più sensibili passeggeri-lettori napoletani, come il nostro amico Andrea V. che ha scritto una condivisibile lettera all’area reclami chiedendoci di pubblicarla.
Nel mensile “La Freccia”, n.11 di Dicembre 2012, a pag.13, ho riscontrato un comportamento eticamente scorretto da parte Vostra. Date spazio ad un passeggero che si congratula con il vostro staff, ma offende Napoli ed i napoletani e voi pubblicate tutto ciò senza “filtrare” il suo scritto. Il protagonista (presumibilmente romano) distrattamente dimentica il suo iPad sul treno e scrive della sua rassegnazione sul ritrovamento “tanto più che il treno proseguiva per Napoli”. Poi lo stesso, alla fine, parla della denigrazione verso le aziende pubbliche. Errore simile commettete Voi quando, in riposta allo sventurato, scrivete che “dai vostri piccoli gesti di attenzione si rafforza il legame con i clienti. Quanta ipocrisia da ambo le parti. Sono deluso in quanto assiduo frequentatore del “Frecciarossa” Bo-Na. Chiedo pronte scuse ai napoetani nel prossimo numero, anche se il danno è fatto. A Dicembre molti in viaggio leggeranno quest’articolo. Fate in modo che non debba passare ad “Italo”.
«Io vittima del pregiudizio… ma Napoli è bellissima!» un giovane barese dice stop ai preconcetti scoprendo V.A.N.T.O.
Ciao Angelo,
sono della provincia di Bari, sono milanista, sono giovane e (pensavo di essere) senza preconcetti. Non sono solito offendere le persone senza un motivo, ma non ti nego che, frequentando quasi per niente la città di Napoli, sono purtroppo stato vittima di questo lavaggio del cervello che la tv italiana effettua sulle nostre teste, associando quasi involontariamente la città di Napoli a situazioni negative.
Ho visto i tuoi video e mi sono iscritto al canale youtube perché sei un grande, fai riflettere ed é quello che é capitato a me. Napoli é bellissima, l’ignoranza e il malcostume esistono ovunque, ma continuiamo a vivere in una società che barbaramente cerca un capro espiatorio, un qualcuno o qualcosa che nasconda i nostri difetti (innumerevoli). È encomiabile la tua ricerca meticolosa di questi messaggi subliminali e indecenti riguardanti la tua città, ti faccio i complimenti piu sinceri perché come é successo con me, puoi e sai attirare l’attenzione di molte altre persone.
Spero vivamente che questo tuo contributo importante e il tuo modo di essere mai volgare possano cambiare l’opinione di molta gente che un’opinione se l’era fatta senza avere approfondito la vostra cultura, ma solo per vie traverse. Con me questo obiettivo é stato centrato in pieno. Che piacere aver fatto visita al tuo canale, poter continuare a seguirlo, e aver potuto mandare questo messaggio.
Video: COLERA A NAPOLI (1973), cause e pregiudizio ecco come è stata appiccicata l’etichetta di “colerosi”
Angelo Forgione – A causa di cozze importate dalla Tunisia, nel 1973 Napoli vive un’epidemia di colera che colpisce anche Palermo, Bari, Cagliari e Barcellona. Ma le responsabilità vengono addossate ai Napoletani e alle condizioni igieniche della città e del suo mare, pur carenti ma non decisive.
Ne segue un feroce accanimento mediatico che non tiene conto invece delle positività espresse in un momento critico dalla città che consentono di superare la crisi velocemente mentre altrove perdura per anni. L’immagine di Napoli ne esce ancora una volta con le ossa rotte, con conseguente crisi del turismo.
Il videoclip riassume le parti più significative del programma RAI “La storia siamo noi” che ripercorre quei giorni riaffermando le reali responsabilità e le effettive esasperazioni. A ridimensionare il tutto e a spiegare il perchè di tanto accanimento ci pensa dopo 38 anni l’allora inviato de “L’Espresso” Paolo Mieli, la cui dichiarazione da vero giornalista equilibrato, informato e non prevenuto, merita di essere evidenziata perchè capace di spiegare tante cose al di là delle colpe pur evidenti dell’ambiente Napoletano. Significativo il finale del montaggio che, oltre a spiegare come sia nata l’etichetta di “colerosi” che ancora oggi è manifesto razzista delle tifoserie d’Italia, riafferma una metafora sportiva tanto cara a chi conosce la storia d’Italia e sa chi sia stato, nel 1860, ad inaugurare la denigrazione di Napoli.