Angelo Forgione – Il Napoli vince la Coppa Italia della “rinascita” ma scoppiano le sterili polemiche per i festeggiamenti dei tifosi nelle strade del capoluogo campano. Strumentali quelle di Matteo Salvini, che tuona dopo aver portato migliaia di persone in piazza a Roma per la sua propaganda di centrodestra, per non parlare dei gilet arancioni di Pappalardo a Milano e senza dimenticare gli assembramenti per le celebrazioni repubblicane del 2 giugno, per l’inaugurazione del ponte di Genova, per l’arrivo a Ciampino di Silvia Romano e via discorrendo. E ora ce la vogliamo prendere con una folla di tifosi festanti? Le folle sono veementi, indisciplinate, e non si arginano (se non con l’Esercito e la Polizia antisommossa), semmai si prevengono, magari con appelli ripetuti. Non ne è stato fatto alcuno prima della finalissima di Roma. Nessuno, nei quattro giorni che hanno preceduto il match, ha sensibilizzato gli juventini d’Italia e i napoletani di Napoli a festeggiare in casa la vittoria, e non veniteci a dire che era implicito. Non lo era, perché il lockdown è finito da un pezzo.
In tempo di strette misure del calcio anticovid, nel quale nessuno può accedere agli spalti degli stadi, il ministro dello sport Spadafora ha suggerito che, prima di riprendere il campionato, si ripartisse con la Coppa Italia in palio per le quattro squadre più tifate d’Italia, così da creare audience televisiva e interesse mediatico. La competizione della ripresa ha così assunto il valore di un torneo post Covid d’élite, pronto a far esplodere l’eccitazione sopita dei tifosi. Nessuno ha pensato alla conseguenza di far disputare subito la finale della Coppa Italia, che invece, per evitare il rischio di affollamenti in tempo di verifica della contagiosità del virus, sarebbe stato opportuno posticipare il più possibile. Anzi, per non correre rischi del genere, oggi o tra un mese e mezzo, non si sarebbe dovuto proprio riprendere. Si è ripreso per salvare capra e cavoli del calcio sul lastrico? Bene. Il destino ha voluto che vincesse il Napoli, i cui tifosi non sono certo freddi e nordici, e vivono nel Sud a basso contagio, in una città che l’emergenza la vive solo di riflesso e che paga pesantemente gli errori altrui. Ed ecco che è venuta fuori la prevedibile festa-sfogo, perché quella dei napoletani era esattamente probabile, e sono saltate pericolosamente tutte le norme di distanziamento sociale. Era meglio evitarlo in qualche modo, ma da lassù si è pensato solo a tamponare le perdite del calcio e agli ascolti televisivi, “colorando” gli spalti tristi dell’Olimpico di tifosi virtuali ma ignorando che esistono i tifosi in carne e ossa, senza i quali non esiste il calcio. Magari qualcuno pensava di risolvere il problema riempiendo anche le strade di Napoli di scintillanti e algidi pixel.
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Covid-19, l’OMS ci avvertì nel 2018
Angelo Forgione – Il Covid-19 ha colpito il mondo, eppure l’OMS aveva avvertito due anni fa, nel febbraio del 2018, che ci avrebbe potuto travolgere una pandemia internazionale causata da un virus sconosciuto originato da una infezione zoonotica. La classificò come “malattia X”, cioè incognita, nell’elenco di quelle prioritarie su cui l’OMS aveva già iniziato a lavorare nel dicembre del 2015; e nel gennaio del 2019 preavvisò che era imminente. Con quel preallarme, l’OMS sollecitava risposte adeguate da parte dei governi, volte a gestire il problema delle pandemie con la prevenzione. Un consiglio rimasto ampiamente inascoltato dagli esperti ai quali i governi si affidano, e così il mondo si è fatto trovare impreparato di fronte a un pericolo preannunciato.
A Covid-19 già entrato in Italia, i nostri luminari hanno persino escluso che ne saremmo rimasti colpiti e che sarebbe potuta scoppiare una pandemia mondiale. I primi provvedimenti seri sono stati presi l’11 marzo, con notevole ritardo, quando l’Italia era già il focolaio d’Europa, mentre l’OMS dichiarava la pandemia. I nostri morti sono a migliaia anche a causa di una gestione troppo sufficiente e mal indirizzata da qualche infettivologo di casa nostra. Uno su tutti, il professor Massimo Galli del “Sacco” di Milano, imperversa nelle tivù, nonostante il fallimento. Le sole speranze valide di cura, al momento, arrivano paradossalmente da un’altra branca della ricerca biomedica, quella oncologica, che ha nel “Pascale” di Napoli il centro capofila dell’unica seria sperimentazione in corso. L’oncologia che propone soluzioni nel campo dell’infettivologia, il Sud che sfida il Nord in quanto a intuito. Un’invasione di campo che ha generato insofferenza in chi, in 50 giorni, ha fallito previsioni e terapie.
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Campania “felix” consuma meno antidepressivi
Angelo Forgione – E chi li ammazza questi campani! Perché loro non ci pensano proprio. Nonostante la mancanza di lavoro, l’avvelenamento della terra, la camorra che invade la quotidianità e tutti i problemi che li travolgono, resistono e vanno avanti. L’osservatorio sull’impiego dei medicinali dell’Agenzia italiana del farmaco (A.I.F.A.) ha prodotto un rapporto sull’uso dei farmaci antidepressivi e psicofarmaci, confermando quello che un dato costante: la Campania è la regione che ne fa meno uso, in controtendenza con il costante aumento del dato nazionale. L’A.I.F.A., infatti, evidenzia un aumento del 4,5% dal 2004 al 2012.
Qualcuno potrebbe pensare che meno soldi ci sono e meno farmaci si acquistano, ma il ragionamento è subito smontato dalla classifica dei suicidi e dei tentati suicidi, completamente gratuiti, che vedono la Campania “serenamente” all’ultimo posto in entrambe le graduatorie (Napoli meglio di tutte le altre province campane). Se ci fosse un’esigenza non soddisfatta, l’effetto sarebbe devastante e si concretizzerebbe in un maggior numero di suicidi tentati e riusciti. Le vere motivazioni vanno invece ricercate nelle abitudini e nelle attitudini del popolo campano, che, per evidenti motivi, vive in una società meno competitiva di quella settentrionale (in cui i suicidi abbondano), più allenato a destreggiarsi tra i problemi della vita quotidiana che non diventano esistenziali. Questo è il ragionamento da fare per confrontare i diversi stati d’ansia tra Nord e Sud del nostro Paese, e per averne conferma va inquadrato in una visione più ampia: l’Organizzazione Mondiale della Sanità monitora costantemente i dati dei suicidi nell’area dell’OCSE, dai quali si evince che l’area del Mediterraneo compresa tra Portogallo, Spagna, Italia (più Sud che Nord, evidentemente) e Grecia ha tassi di suicidio nettamente inferiori a paesi come Germania, Austria, Finlandia, Islanda, Irlanda, Estonia, Ungheria e Slovenia. Inferiori persino alle decantatissime Australia e Canada che sono notoriamente i paesi in cui la “qualità della vità” raggiunge i più alti livelli. Per non parlare poi di Stati Uniti e, soprattutto, Giappone.
E allora, alla prossima pubblicazione della classifica del Sole 24 Ore sulla qualità della vita ricordiamoci tutti che è stilata senza tener conto di certi dati che concernono problemi esistenziali e si limitano a scattare una fotografia dei servizi al cittadino. E non contemplano neanche la concentrazione paesaggistica e monumentale, la qualità e la varietà del cibo e il tempo medio speso a contatto con le persone, magari sorridendo.