Colera e Corona: aveva ragione Feltri

Angelo Forgione Che sciagura il Coronavirus! E alla fine, obtorto collo, c’è pure da dare ragione al fanatico Vittorio Feltri, che il 21 febbraio, al principio del disastro lombardo, scrisse su twitter: “Da lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola confronto al Corona”. La situazione poco chiara, coniugata al suo proverbiale “pregiudizio” anti-meridionali, aveva fatto pensare alle solite offese, al solito luogo comune del colera a Napoli. E invece, a oltre tre mesi da quell’allarme, il colera del 1973 nel Sud Italia, con focolaio vesuviano, appare davvero un fiammifero al cospetto dell’immenso rogo virale del 2020 che ha colpito pesantemente il Nord e particolarmente la Lombardia. In concreto, il colera causò soli 24 morti e 277 infettati tra Napoli, Caserta, Bari, Taranto, Foggia, Lecce, Brindisi e Cagliari, con qualche caso anche a Roma, Pescara, Firenze, Bologna e Milano. Numeri irrilevanti al cospetto del Covid-19, che ad oggi, a macabri conteggi ancora in corso, ha causato in Italia 33.415 decessi e 233.019 casi ufficiali. La Lombardia è evidentemente la regione più colpita, con 16.112 morti, la metà dell’Italia intera, e 88.968 contagiati certi. E come fai a non dare ragione a Vittorio Feltri?

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Poi, allo stesso Feltri in avanti, è nato una sorta di revanscismo lombardo opposto a una certa campagna discriminatoria contro la Lombardia e Milano che non c’è mai stata. Una narrazione che ha francamente stufato! Una mera questione sanitaria tradotta da qualcuno in nuova discriminazione al contrario. Ma quale discriminazione? Non pare affatto che esista un sentimento d’odio verso una popolazione che merita solidarietà piena per i lutti subiti e originati dagli errori di qualche incapace nella stanza dei bottoni. Una volta che la Lombardia se la passa male per colpe della macchina politico-industriale salta fuori la storia dell’accanimento contro gli invidiati primi della classe. È piuttosto un’invenzione, un certo piagnisteo figlio di un fastidio intollerabile di chi lo prova, un peso insostenibile di una croce che qualcuno animato da un complesso di superiorità mai si sarebbe aspettato di dover portare sulle spalle, e non vuole affatto portarlo, per aver costretto l’Italia intera al blocco totale e aver messo l’economia del Paese in ginocchio.
Chi parla di discriminazione verso i lombardi e loro vicini non sa cos’è la discriminazione. Io che sono napoletano lo so, ma evidentemente non tutti sono al corrente di cosa è accaduto ai napoletani e ai meridionali durante e dopo l’epide­mia di colera scoppiata a fine agosto 1973 a Napoli, con altri focolai a Bari, Taranto e Cagliari. Forse servirà un po’ a tutti riavvolgere il nastro con pazienza per mettere in parallelo i due momenti.

I provvedimenti restrittivi all’arrivo del colera furono applicati solo nelle regioni “colerose”: rinvio dell’anno scolastico a novembre inoltrato, chiusura dei cinema, dei teatri e delle università. Per accedere alle Facoltà del Centro e del Nord, gli studenti provenienti dalle Regioni del Sud, anche quelle in cui l’epidemia non c’era, furono obbligati a presentare il certificato della vaccinazione anticolerica, e nessuno protestò per questo.
Inviati di importanti quotidiani del Nord, in un tempo in cui internet era solo fantascienza e non c’erano i programmi di Barbara D’Urso, si sbizzarrirono a descrivere Napoli e Bari con esagerazioni, fake-news e spesso con accenti razzisti.
Spinto dalla Regione Liguria, il Genoa chiese al Calcio Napoli di non recarsi a Genova per una partita di Coppa Italia. La Lega invertì i campi ma il Genoa si rifiutò di scendere a Napoli, così come il Verona evitò di recarsi a Bari, a costo di perdere a tavolino e prendersi delle penalizzazioni. Il capitano degli Azzurri, Antonio Juliano, napoletano purosangue, gridò tutto il suo sdegno alla stampa: “Ma cosa credono quelli del Nord? Hanno paura d’infettarsi giocando al calcio con noi? Sappiano che d’ora innanzi saremo noi a non voler andare più al Nord. Questa discriminazione ci umilia come uomini e specialmente come sportivi”.
Chi viaggiava da Sud a Nord per lavoro veniva tenuto a distanza, e neanche le mani gli si stringeva. Qualcuno si vide le porte degli alberghi chiuse in faccia per volontà di lombardi e piemontesi, o anche quelle di casa propria dai parenti nel caso di impavidi settentrionali reduci da viaggio di lavoro nelle regioni del contagio. Psicosi ben più eccessiva rispetto a quella da Covid-19, visto che la trasmissione della colera non avveniva per contatto sociale, e non c’era bisogno di mascherine e altri accorgimenti. Ci si poteva infettare ingerendo acqua o alimenti contaminati dalle feci di individui infetti e la paura del prossimo era totalmente immotivata e dettata da ignoranza e pregiudizio.
Il contagio da Covid-19 è invece diretto, per via orale, e contraddistingue un virus con altissima carica virale, quindi con alta trasmissibilità. Tutto il contrario del colera, e i numeri snocciolati lo dimostrano. Ed è per questo che chiedere sicurezza non è discriminare, non è voler ghettizzare una regione che un problema sanitario più ampio di altri ce l’ha, e non è ancora risolto, a quattro mesi dai primi casi. Un mese e mezzo, invece, ci vollero nel 1973 per risolvere l’epidemia di colera nella città più colpita, Napoli (a Barcellona in due anni).

Le cause del bubbone sanitario lombardo sono evidentemente dovute a ritardi ed errori governativi, mentre quelle dell’infezione del 1973 al Sud furono individuate in un’abbondante partita di cozze giunta sui mercati del Mezzogiorno dalla Tunisia, ascrivibili alla posizione geografica e non alle condizioni igienico-sanitarie e socioeconomiche, sulle quali invece si fece leva per discriminare. Nessuna colpa fu da assegnare alle città e ai cittadini meridionali ma nessuno se la prese con il Nordafrica. No, la colpa fu comunque lasciata ai napoletani, che mangiavano anche le cozze del loro mare, nelle quali non fu trovato alcuna traccia di vibrione. Eppure gli esperti, informati dall’OMS, sapevano che l’epidemia da vibrione “El Tor”, nell’ambito della settima pandemia, era partita dodici anni prima dall’Indonesia e stava transitando nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 e ancora oggi è in circolo. Altro che colpe napoletane!

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La scorretta informazione contribuì a far crollare il turismo e le conseguenze socio-economiche a Napoli furono pesantissime, con un meno novanta percento di presenze, recuperate solo a partire dal G7 del 1994, cioè ben ventun’anni più tardi.
Le squadre di calcio, compreso che l’epidemia non era tale bensì davvero poca cosa, tornarono presto a giocare contro il Napoli ma il colera sopravvisse nei cori e negli striscioni contro i napoletani, che non sono ancora finiti a circa cinquant’anni di distanza. Anzi, prima della sospensione del corrente campionato, proprio i tifosi bresciani, ignari di ciò che stava per accadere alla loro comunità, gridavano ” napoletano coronavirus,” mentre i napoletani, per tutta risposta, rispondevano con un eloquente “Nelle tragedie non c’è rivalità, uniti contro il Covid-19“. All’esterno dello stadio Meazza di Milano, qualche giorno prima, era apparso nottetempo lo striscione “Napoletani figli del colera, vi mettiamo in quarantena“. E come dimenticare le mascherine indossate dai tifosi milanisti a Napoli all’epoca dell’emergenza rifiuti, che poi era figlia di un patto scellerato tra camorra e imprenditoria settentrionale?

L’apertura della Lombardia, all’evidenza dei numeri, è un rischio per tutti che appare dettato da una sorta di sudditanza nei confronti di un territorio con un Pil importante che sa di poter puntare i piedi. Le pacate minacce del sindaco Sala ai sardi sono un segnale chiaro in tal senso. E però, a rivedere quel che successe al tempo del colera, con cicatrici ancora visibili sulla pelle dei napoletani, chissà come verrebbero trattati oggi i campani se al posto scomodo della Lombardia vi fosse la loro regione.
E qualcuno, in Pianura padana, pur soffre di discriminazione. Piuttosto, che questa storia cancelli mezzo secolo di offese ingiustificate ai napoletani e migliori tutti. Che dite, possiamo avere speranze?

Piagnisteo veronese

Angelo Forgione – Sulla scia del caso Balotelli, bersagliato dal razzismo della curva del Verona, il consigliere di centrodestra al consiglio comunale scaligero Andrea Bacciga ha depositato una mozione in difesa dell’immagine della città, a suo dire, “infangata e derisa troppe volte ingiustamente”.
Scrive il Nostro su Facebook: “affinché Verona la smetta di essere infangata sui media!”. Avete letto bene? No, non mi riferisco alla sintassi (non è Verona che deve smetterla ma semmai i media) ma proprio al fatto che un consigliere comunale veronese si inalberi per il fatto che la sua città sia etichettata come città razzista. Che poi il consigliere in questione è stato artefice di un saluto romano esibito in aula all’indirizzo di alcune donne.
Nessuno tocchi Verona, dunque, e allora penso a Roma allorché si spara e una giornalista sostiene in tivù che è il “modello Napoli”.
Penso a Trieste, come a Pordenone e ogni altrove in cui affiora una crisi dei rifiuti e il sindaco interessato dice “non siamo a Napoli”.
Penso a Padova allorquando si verifica un furto con destrezza al bar e il titolare dice alla stampa che si è trattato di uno scippo stile Napoli.
Penso a Napoli, che è sempre salvifica per tutti, che se non ci fosse bisognerebbe inventarla, non per il contributo che dà alla cultura occidentale ma per la calunnia continua che se ne fa, e quando protesta è piagnucolona come non lo è Verona, che in fondo è folcloristica nel bersagliare neri e meridionali allo stadio, dice il sindaco.
Penso a tutti quelli che “è colpa di Napoli”, perché si prova invidia, quindi disprezzo, per una città diversa che mostra orgogliosamente la sua fortissima identità in un mondo omologato.
Penso ai Cruciani, i Feltri e le Lucarelli varie che senza Napoli si annoierebbero un bel po’.
Penso ai tifosi veronesi, bresciani, bergamaschi, torinesi, genovesi, milanesi, romani, fiorentini, cagliaritani, baresi, leccesi, salernitani, pescaresi e tutti quelli che vomitano discriminazione territoriale su Napoli per sfogare le loro profonde repressioni.
Per cui, nessuno si permetta di infangare Verona per un fenomeno che alcuni veronesi ostentano con orgoglio, magari con il saluto romano in consiglio comunale. Verona è folcloristica, mentre Napoli, la città più bersagliata d’Italia, è vittimista. Chiaro?

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Quando la pizza stava per sparire

Agli spagnoli de La Vanguardia, il quotidiano più diffuso in Catalogna, ho raccontato come la pizza napoletana ha rischiato di sparire nell’Ottocento, e che se fosse accaduto la pizza non sarebbe oggi il cibo più famoso del mondo.
Aggirando un certo pregiudizio catalano, ho narrato come da uno scenario di timore nei confronti dei pizzaiuoli napoletani si sia passato a un altro in cui gli stessi pizzaiuoli sono considerati vere e proprie star, custodi di un patrimonio immateriale dell’Unesco. Senza dimenticare accenno alla falsità della pizza tricolore inventata per la regina d’Italia.

Di seguito la traduzione dell’articolo pubblicato in Spagna (a cura di Marc Casanovas) con record giornaliero di visualizzazioni.

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Più di un secolo prima che l’Arte dei “pizzaiuoli” napoletani fosse dichiarata Patrimonio Immateriale dell’Umanità, decenni prima che l’Associazione Verace Pizza Napoletana formulasse un decalogo di conformità obbligatoria della Pizza napoletana STG, anni prima che migliaia di famiglie italiane si imbarcassero su una nave alla ricerca del sogno americano con la ricetta in valigia, e anche prima che il pomodoro si stabilizzasse come ingrediente fondamentale in Europa, vi fu un momento cruciale nella storia in cui la pizza rischiò di sparire.

Il fatto è che le origini della pizza appartengono esclusivamente al proletariato e sono profondamente radicate nella città di Napoli. “La pizza era il cibo preferito dei lazzaroni, i poveri dei quartieri popolari”, dice Angelo Forgione, storico e autore de Il re di Napoli, un racconto sul pomodoro napoletano. Vale a dire che l’impasto, il pomodoro e la mozzarella furono uniti per sempre a Napoli grazie alla buona arte dei “pizzaiuoli” (artigiani della pizza). Rapidamente, la pizza si consacrò come piatto unico che permise ai più poveri di arrivare sfamati a fine giornata.

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Grazie a questa stretta relazione tra le persone e il loro cibo preferito nacque il concetto di pizza a ogge a otto”, che si riferiva alla possibilità di mangiare una pizza e di pagarla a otto giorni. Tale pagamento posticipato permetteva di nutrire gli affamati e attendere che il debitore recuperasse i soldi necessari a pagare: La pizza e i maccheroni nacquero come cibo di strada. Pietanze a prezzo popolare per la plebe che non aveva cucine attrezzate in casa ed era abituata a mangiava fuori, in piedi”. Lo conferma anche Antonio Mattozzi, autore di Una storia napoletana: “Il sottoproletariato napoletano riuscì a sopravvivere alla fame grazie a due dei principali pilastri della sua gastronomia: i maccheroni e la pizza, entrambi a basso costo e, allo stesso tempo, molto gustosi”. Non a caso, Alexandre Dumas rimarcò il valore simbolico nella prima cronaca gastronomica della pizza:

“A prima vista, la pizza sembra un piatto semplice; dopo averla ben verificata si comprende che è un piatto complicato. (…)È il termometro gastronomico del mercato: aumenta o diminuisce il prezzo secondo il corso degli ingredienti suddetti, secondo l’abbondanza o la carestia dell’annata. Quando la pizza ai pesciolini costa mezzo grano, vuol dire che la pesca è stata buona; quando la pizza all’olio costa un grano significa che il raccolto è stato cattivo (…)”.

Ma la sua umile origine suscitava sdegno e diffidenza tra le classi alte. Senza prove scientifiche, la pizza fu sospettata di trasmettere malattie e non mancò molto perché la sua storia finisse prima del tempo: “La reputazione della pizza fu rovinata dalle diverse epidemie coleriche”, dice Forgione. “Soprattutto quella del 1884, di cui divenne potenziale veicolo di contagio per i più timorosi. Basta leggere quello che scrisse il toscano Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio, per comprendere come sui pizzaiuoli di Napoli incombesse disprezzo e come sulla pizza napoletana vi fosse una pesante reputazione di alimento malsano per straccioni a rischio colera:

Vuoi sapere cos’è la pizza? È una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.

Un attacco classista che ha concentrato tutta l’ira su Napoli per l’immagine che stava proiettando all’estero. Per i politici romani era una vergogna nazionale. Fu allora che Agostino Depretis pronunciò le sfortunate parole che lo perseguiteranno eternamente: “Bisogna sventrare Napoli”. Il ministro lombardo faceva riferimento alla situazione insostenibile quando l’epidemia di colera colpì violentemente la città. Interi quartieri traboccavano di gente che faceva quello che poteva per sopravvivere.

Era quasi inevitabile che la pizza fosse collegata all’epidemia di colera, come se fosse esclusivo veicolo di tutti i mali del popolo. Forgione dice che “Le epidemia di colera colpirono continuamente e pesantemente i napoletani nell’Ottocento. La città era rifornita idricamente da due acquedotti sotterranei dalle cui cisterne si attingeva acqua raccolta in vasche scavate nel tufo, una roccia porosa e quindi non isolante dalle falde infette, dalla quale permeava l’acqua del mare, dove finivano gli scarichi delle fogne statiche. L’epidemia del 1884 flagellò la città con la metà dei decessi dell’intera Italia, e diede alla pizza una cattiva fama. Come dimostra Collodi, i pizzaiuoli di Napoli furono a lungo infamati come pure la pizza napoletana, che era fatta con acqua ritenuta infetta”.

Sorprendentemente, lo snobismo italiano perpetuò il cliché quasi fino ai nostri giorni: “Solo dopo la Seconda guerra mondiale la pizza iniziò a diffondersi in Italia con l’emigrazione dei napoletani nel triangolo industriale del Nord”. Per superstizione o paura, molti accettarono come inevitabile il piano per riurbanizzare l’intera città e partire da zero sembrava l’unica soluzione. Quello che non sapevano Depretis e gli altri politici è che i napoletani avevano una grande capacità di sopravvivere nonostante le condizioni avverse e sottovalutavano la forza unificante della pizza come fattore comunitario: “L’esplosione della pizza, nel secondo Settecento, fu talmente veloce che il tribunale borbonico piazzò delle epigrafi nelle strade centrali per avvertire la cittadinanza che l’esercizio della vendita ambulante dei generi alimentari era d’intralcio al passaggio dei pedoni e delle carrozze, e sarebbe stato punito con precise sanzioni pecuniarie. Una lapide è ancora ben visibile sulla strada di Port’Alba, dove si trovava la prima bottega specializzata in preparazione e smercio di pizze, insomma la prima pizzeria del mondo, che è ancora nello stesso posto”.

Ma cosa c’è di vero in questo legame quasi magico tra prodotto e persone che ha scongiurato la scomparsa della pizza? Per Forgione, “la pizza rimase un’esclusiva pietanza del popolo minuto fino alla fine dell’Ottocento, soprattutto perché la facevano pizzaiuoli insudiciati e si mangiava con le mani. I colti e facoltosi viaggiatori del Grand Tour che la vedevano mangiare in strada la considerarono una singolarità che non avrebbe mai potuto avere particolare successo. Mentre nel Settecento si diffondeva per le vie di Napoli, i ricchi, che avevano cucine e cuochi a disposizione, si indirizzarono verso la nuova cucina napoletana di influenza francese. E così nei palazzi nobili si diffusero i sartù di riso, i gattò e altri piatti dal nome francofono. Forgione ribadisce che “non c’erano certamente garanzie igieniche sui cibi venduti nelle strade, e questo costituì un limite per la diffusione della pizza”.

In quel momento cruciale della storia di Napoli, si optò per un’operazione di riabilitazione e marketing patriottico con l’approvazione di una nuova legge: “I Savoia non potevano permettersi di trascurare i problemi sanitari della città più popolosa d’Italia, e così il Governo stanziò i soldi per vari interventi, tra cui un più sicuro sistema fognario e un nuovo acquedotto”La più sicura situazione igienica garantì anche l’igiene alimentare e, di conseguenza, il futuro della pizza: “Da quel momento in poi, i napoletani ripresero a mangiare la pizza senza paura”. E fu allora che, secondo la leggenda, la famosa pizza tricolore fu dedica in onore della regina Margherita. La pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, cioè i colori della bandiera italiana. “Il racconto è stato tramandato fino a noi, ma si sa che alla gente piacciono le leggende”.

Questo destino non permise che la diffusione della pizza su tutto il territorio italiano avvenisse molto prima del previsto. Inoltre, la pizza è uscita dalla categoria dei prodotti umili solo negli ultimi anni. “La pietanza fu abbracciata dalle altre classi sociali nel corso del Novecento, ma solo negli ultimi vent’anni ha conquistato la sua completa dignità, fino a prendersi la ribalta dell’UNESCO. Ancora negli anni Ottanta, anche a Napoli essere pizzaiuolo era qualifica modesta. Ora un bravo pizzaiuolo è considerato una vera e propria star della cucina, e anche le persone ricche corrono a mangiare la sua pizza.


lo storico britannico John Dickie spiega a History Channel il perché la pizza tricolore, già esistente prima della visita dei sovrani sabaudi a Napoli del 1889, avesse bisogno a fine Ottocento di un rilancio d’immagine

le rubriche giornalistiche Rai raccontano l’esistenza della pizza tricolore prima del 1889

Ancelotti, l’Inter, la Juve e l’Unesco

Angelo Forgione – Tra chi confonde le idee e chi si ammanta di una moralità che proprio non ha, Ancelotti è tornato nel calcio italiano come una mosca bianca nella battaglia culturale contro razzismo e discriminazione territoriale. Ha squarciato i silenzi, e anche le parole degli impostori… come quelle di Andrea Agnelli e della sua Juventus, che presenta ricorso contro la chiusura di un settore del suo stadio, a differenza della ben più dignitosa Inter, cui va un plauso per non essersi ribellata al giudice sportivo. E ancora complimenti all’Unesco per la scelta del partner nella difficile lotta culturale del Football.

Salvini come Agnelli, e De Laurentiis non ride più

salvini_napoliAngelo Forgione – Gravissime le parole del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, circa l’atteggiamento da tenere in caso di razzismo e discriminazione negli stadi. La sua risposta al problema tutto è stata dichiararsi contrario alla sospensione delle partite, scontrandosi col protocollo in tre fasi della FIFA, che richiede all’arbitro di mettere momentaneamente in pausa una partita al primo accenno di cori discriminatori, poi sospenderla e mandare momentaneamente le squadre negli spogliatoi nel caso il canto persista, e infine, se i cori non finiscono, interrompere definitivamente il match.
Ma cos’altro poteva dire un ministro degli Interni leghista che da giovane militante leghista cantava cori di discriminazione territoriale? E mica solo a Pontida. Lo faceva anche allo stadio Meazza, dall’età di 15 anni. E allora si può buon ben capire che Matteo Salvini, in sede di Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, ci è andato da tifoso del Milan e da militante della Lega Nord, non da saggio statista.
Qualche giorno fa, in un’altra occasione, Salvini aveva pure detto che non si  deve confondere il razzismo con la rivalità di quartiere, che è anche una cosa bella del calcio. Sembra di leggere l’ormai famigerata relazione della Juventus, in partnership con l’UNESCO, sulla lotta “contro la discriminazione e il razzismo nel calcio”. A pagina 60, nell’analisi del problema interno italiano – leggasi accanimento standardizzato e mascherato contro Napoli – si propone il paradosso di un’analisi assolutoria:

[…] Questo concetto particolarmente controverso viene utilizzato soprattutto in Italia per gli insulti di natura xenofoba fra il Nord e il Sud del Paese […].
[…] L’idea che il campanilismo, il quale racchiude una forma secolare di orgoglio e rivalità locale fra città e regioni, sia semplicemente parte dell’eredità culturale italiana e pertanto non dissociabile dal calcio è condivisa in modo praticamente unanime, anche da coloro che lo avversano.
[…] Le rivalità calcistiche basate sulla storia locale e regionale abbondano ovunque e si possono considerare realmente “il sale” del gioco.

Andrea Agnelli, infastidito dalle continue chiusure delle gradinate di casa, prima di far preparare la relazione da presentare all’UNESCO, disse che “le sanzioni puniscono a mo’ di razzismo il campanilismo, che invece fa parte della nostra cultura. È una nostra peculiarità”.
Matteo Salvini, dopo quattro anni di immobilismo istituzionale e morale, dice esattamente lo stesso. Ed è normale che sia così per certi uomini di cultura nordica per cui offendere i napoletani si tratta di “sale del gioco”. Il loro.
Il Napoli, appoggiando la linea etica tracciata da Ancelotti, ha giustamente storto il naso per le parole del tifoso Salvini, pardon, ministro dell’Interno, e ha fatto sapere che è pronto più che mai a fermarsi sul campo motu proprio per cori discriminatori, siano essi indirizzati a Napoli o al francese, senegalese, napoletano e uomo Koulibaly. Un braccio di ferro che è battaglia culturale da pochi compresa in un paese privo di cultura sportiva e vissuto nei conflitti di campanile nonché nella percezione indotta di un problema unico che si chiama Napoli. Una battaglia culturale che va attribuita ad Ancelotti, purgatosi all’estero e ora sensibile ai guasti italici, al quale si è finalmente allineato anche De Laurentiis, il quale qualche tempo fa aveva dichiarato di farsi una risata su certe espressioni verbali. Ora, finalmente, non ride più. Grazie ad Ancelotti, ha compreso che il divertimento è degli altri.

Koulibaly, napoletano prima che senegalese

Angelo Forgione Il tutto è falso, cantava Giorgio Gaber da Milano. È falsa la competizione a cui stiamo assistendo, viziata da spinte ripetute e continue al club che ha investito su uno dei calciatori più decisivi del pianeta e vola in classifica ben oltre i suoi effettivi meriti.
È falsa anche l’analisi del clima di San Siro, purtroppo luttuoso, e fortemente discriminatorio, di cui ne ha fatto le spese Koulibaly, non tanto perché nero ma soprattutto perché napoletano. Già, perché il calciatore senegalese è bersagliato da qualche tempo per il colore della maglia che indossa più che per quello della pelle. Roma, Torino, Bergamo, Milano… non vi è altro calciatore della più recente Serie A che abbia dovuto subire una simile sequela di ostilità ripetuta, e non stiamo parlando di un uomo chiacchierato e criticato come lo fu Balotelli ma di un professionista esemplare, oltre che di un elemento di assoluto valore che spicca nella mediocrità del calcio italiano.
Bando alle sciocche e comode accuse di vittimismo, e diciamolo che l’accanimento nei confronti di Koulibaly è sempre stato accompagnato da un accanimento concettuale nei confronti di Napoli. Non si è mai udito un verso di scimmia senza che non vi fosse prima un’invocazione al Vesuvio. Così a Milano, il primo stadio, nella storia del nostro pallone, colpito nel 2007 da chiusura di un settore per discriminazione territoriale, e Koulibaly non c’era, buon per lui. Il Napoli è poi cresciuto anche con lui, e lui col Napoli, fino a farsi uno dei calciatori simbolo della squadra, alfiere di un club fattosi seconda forza d’Italia, scalzando le blasonate e beneamate meneghine, e avvicinandosi al gran potere torinese.
L’accanimento nei confronti del forte omone nero del Napoli è espressione di timore rabbioso per una squadra del Sud che da anni precede in classifica il calcio milanese e guerreggia onorevolmente con quello torinese e romano. È il sud “africano” che infastidisce il consolidato asse Torino-Milano; è Napoli chiacchierata fuori dagli stadi, nella società italiana, che dà fastidio sui campi di calcio.
Kalidou, in fondo, l’ha anche capito che i versacci al suo indirizzo sono sempre accompagnati da offese a Napoli, e non a caso scrive di sentirsi fieramente francese, senegalese e napoletano.
E però, a bocce ferme, il malcostume indirizzato ai napoletani, che è il vero motivo del malcostume medesimo, sembra dissolversi nel nulla. La narrazione giornalistica e degli addetti ai lavori vari si concentra sul razzismo, sull’esclusiva discriminazione di razza, tralasciando completamente quello di territorio. Fiumi di inutili parole nei telegiornali a nascondere il vero problema del calcio italiano: Napoli! Esattamente questo, perché a Roma, Milano e Torino, dal 2007, è tutto un susseguirsi di provvedimenti disciplinari, di chiusure di settori per discriminazione territoriale prima ancora che per razzismo, mentre a Napoli, la comune bersagliata – alla faccia del vittimismo – volgarità come dappertutto ma vergogne del genere mai.
È un problema, Napoli, per chi non sa come risolvere i problemi. Norme inasprite e poi blandite, e allora via alle solite chiacchiere, ed è meglio parlare di razzismo contro i neri per nascondere la discriminazione contro i napoletani, che non è roba limitata ai pessimi stadi italiani, e viene dal principio della malaunità, allorché gli “affricani”. con due effe rafforzative del disprezzo, erano i nazionali napolitani, ovvero i meridionali. Alla vigilia del taroccato plebiscito di annessione, il piemontese Massimo d’Azeglio, governatore di Milano, scrisse:
“Ma in tutti i modi la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”.
Il retaggio di certo razzismo, che lo vogliate o no, è ancora alimentato dal leghismo dei d’Azeglio del Duemila, ed espresso, in parte individualmente e in più rumorosa parte collettivamente, nel rozzo comportamento delle folle d’Italia.

 

“Alto Piemonte”, un capitolo da aggiungere a ‘Dov’è la Vittoria’

Angelo ForgioneAttenzione a non sminuire l’inchiesta della trasmissione Report (Rai), trasmessa nella sua prima parte il 22/10/18 e incentrata sull’inchiesta “Alto Piemonte” e connessioni tra i dirigenti della Juventus e alcuni ultrà legati alla ‘ndrangheta. Sarebbe operazione per chi voleva vederla con l’ottica del tifoso anti-juventino e sperava fortemente in un nuovo scandalo da processare, non sapendo che lo scandalo, invece, è già stato processato in due sedi di giudizio su tre. Piuttosto, è stata utilissima per divulgare ciò che non poteva conoscere chi non aveva letto le carte. E a me, interessato al reale racconto di un calcio italiano sempre marcio dal 1898, non pare poco.
I giornalisti e gli scrittori hanno il dovere di raccontare il vero mondo del calcio, non quello finto che tanto piace a coloro che sguazzano in interessi di ogni tipo e lucrano sulla passione della gente, ben sapendo che gran parte della massa non è critica, non vuole che gli si rovini la ricreazione e perciò non vuole rendersi conto di ciò che accade al di fuori del rettangolo di gioco, senza indignarsi e negando persino l’evidenza. Ecco perché l’inchiesta di Report mi tornerà necessaria per integrare prossimamente il mio Dov’è la Vittoria.
“È così ovunque”. Questo è quello che dice, per generalizzazione, chi ha visto l’inchiesta televisiva. È vero che la Commissione Parlamentare Antimafia ha indagato sulle curve della Juventus, del Genoa, della Lazio, del Catania e del Napoli e ne è venuto fuori una differenza di atteggiamento da parte dei dirigenti della Juve e di quelli del Napoli. I bianconeri hanno favorito una vera e propria invasione della malavita nella gradinata Sud dello Stadium per il controllo del bagarinaggio, mentre gli azzurri hanno chiuso le porte della società a certi fenomeni, mostrandosi quale esempio assoluto. I più oltranzisti tifosi bianconeri, ma non solo loro, invece di pretendere un comportamento corretto dai dirigenti della loro squadra del cuore, e di sentirsi danneggiati da certe pratiche illecite, preferiscono insinuare connivenze del club di De Laurentiis con certi personaggi, riproponendo ostinatamente la figura di Antonio Lo Russo, figlio del boss Salvatore, a bordo campo durante il match Napoli-Parma del 10 aprile 2010, dimenticando che la DDA di Napoli, ascoltata dall’Antimafia, ha più volte precisato che il rampollo Lo Russo ebbe accesso a bordo campo con un pass fornito dalla ditta esterna che curava il manto erboso, non dalla SSC Napoli, che invece fornì anche in quell’occasione la massima collaborazione mettendo a disposizione tutta la documentazione sulle persone che avevano accesso a bordo campo.
L’inchiesta della Commissione Parlamentare Antimafia non è quella dei magistrati antimafia di Torino che hanno condotto il processo “Alto Piemonte”, indagando su una cricca di criminali romeni per poi scoprire che la Gradinata Sud della Juventus era stata infiltrata dalla ‘ndrangheta. Rocco e Saverio Dominello, boss della cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, si erano accordati con gli altri gruppi della curva per entrare nel business del bagarinaggio.
La sentenza di secondo grado della giustizia penale ha accertato che la Juventus “era ben disposta, come emerso da testimonianze e intercettazioni, a fornire agli ultrà cospicue quote di biglietti e abbonamenti perché li rivendessero e ne traessero benefici e utili, ottenendo come contropartita l’impegno a non commettere azioni violente”. Dunque, la Juve, secondo i magistrati, non è parte lesa e non si è neanche costituita parte civile.
Lasciamo stare l’ex tifoso Fabio Germani, presidente della fondazione “Italia Bianconera”, condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa, conosciuto nel mondo della ‘ndrangheta piemontese come frequentatore della famiglia Agnelli e colui al quale Lapo Elkann si rivolse nella primavera del 2009 per ottenere l’esposizione degli striscioni in curva con su scritto “Lapo Presidente” in modo da scalzare il procugino Andrea nella corsa alla presidenza dell’allora disastrosa Juventus di Cobolli Gigli e Jean-Claud Blanc. Lasciamo stare anche la figura di Bryan Herdocia, un criminale daspato che continua ancora oggi a gestire il bagarinaggio direttamente da casa sua per conto dei Drughi; così come il leader degli Ultras dei “Bravi Ragazzi”, Andrea Puntorno, vicino al clan mafioso Li Vecchi e alla ndrina dei Macrì di Siderno, attualmente detenuto per traffico di droga, che grazie ai proventi dalla rivendita dei biglietti ottenuti dalla Juventus ha acquistato due case e un panificio.
Quel che deve interessare di più è l’operato di un tabaccaio di Cuneo che ha fornito all’ex capo ultrà Raffaello Bucci, Vice Supporter Liaison Office della Juventus FC, decine di ricevute di giocate al Lotto, tutte con lo stesso numero vincente, e poi centinaia di Gratta&Vinci, di SuperEnalotto. Un metodo della ‘ndrangheta per riciclare denaro sporco, grazie a ricevitorie compiacenti che non pagano direttamente il vero vincitore ma lo liquidano in contanti che fornisce chi deve riciclare i soldi, il quale entra così in possesso della scheda vincente e la incassa a proprio nome senza pericolo di contestazione.
Quel che deve interessare è che la Juventus non ha solo lasciato campo aperto a certi soggetti ma se ne è proprio avvalsa per mantenere un certo “ordine” allo stadio, e ha venduto migliaia di biglietti agli ultrà nella consapevolezza che li avrebbero rivenduti a prezzi maggiorati.
L’uomo chiave non è certamente l’unico che ha scontato per intero l’inibizione comminata dal Tribunale Sportivo, ovvero Francesco Calvo, ex direttore marketing del club e oggi alla Roma. Un tempo era il migliore amico di Andrea Agnelli, ma lasciò il club nell’autunno del 2015, quando il presidente della Juventus, alla faccia dell’amicizia, rubò il cuore di sua moglie, la modella turca Deniz Akalin.
L’uomo chiave, piuttosto, è Alessandro D’Angelo, il capo della Securety della Juventus FC, figlio dell’autista di Umberto Agnelli e perciò amico d’infanzia di Andrea Agnelli, che lo ha assunto nel 2011 in bianconero per curare un ruolo delicato, e non l’ha certo licenziato per il suo operato concordato. È ancora in carica D’Angelo, inizialmente inibito dalla giustizia sportiva e poi riabilitato per “difetto di giurisdizione sportivo-disciplinare”. Stesso destino per Stefano Merulla, responsabile della biglietteria.
Altro uomo chiave è Raffaello Bucci, poi suicidatosi all’indomani delle deposizioni rese ai magistrati che indagavano sui rapporti tra Juve, ultrà e ‘ndrangheta. Era una sorta di ministro delle finanze del più importante gruppo ultras, i Drughi del temutissimo pregiudicato Dino Mocciola; aveva gestito per anni il bagarinaggio favorito dalla Juventus stessa all’esterno dello Stadium, e aveva pure concordato con D’Angelo l’introduzione nell’impianto di striscioni vietati, con frasi ingiuriose riferite alla tragedia di Superga, esponendo la Juventus al pagamento di una multa salatissima. Ricatti ai quali il club sottostava pianificando l’elusione dei controlli invece di serrarli, avvalendosi delle attività ristoranti dell’impianto sportivo, ma finendo nella rete della videosorveglianza. Dalle intercettazioni telefoniche tra i due pare addirittura che non precisati alti dirigenti del club avessero detto a D’Angelo di non fare più da solo in certi casi ma di avvertirli in modo da ricevere aiuto e di evitare figuracce. Ad ogni modo, nonostante il pericolosissimo profilo del Bucci, pure informatore dei servizi segreti, dopo qualche tempo, la Juventus FC, invece di denunciarlo, lo ingaggiò come Vice Supporter Liaison Office, la figura che cura i rapporti tra ultrà, dirigenza e forze dell’ordine. Vice-SLO, insomma, collaboratore sul campo dello SLO, rispondente al nome di Alberto Pairetto, fratello di Luca, arbitro di Serie A e figlio di Pierluigi, ex arbitro e poi designatore arbitrale, fino a quando non fu travolto da Calciopoli, condannato in appello a due anni salvo poi finire in prescrizione. Secondo l’accusa, uno di quelli a cui Luciano Moggi telefonava su schede svizzere per scegliersi gli arbitri amici. Ancora oggi la FIGC percepisce proventi di sponsorizzazione dalla Fiat Chrysler Automobilies N.V., un’azienda che, come la Juventus FC SpA, è partecipata in maggioranza dal gruppo Exor N.V., controllato dalle famiglie Elkann/Agnelli.
L’inchiesta “Alto Piemonte” non ha colpito la Juventus FC ma ha parzialmente scoperchiato le responsabilità non penali di una società che ha aperto le porte ai soggetti peggiori, magari non sapendo che fossero mafiosi, ma certamente conoscendo i loro metodi e le loro intenzioni; una società che ha favorito l’introduzione di striscioni ignominiosi nel suo stadio, conoscendone il contenuto; una società che ha presentato un ricorso contro la squalifica della curva dei suoi ultrà più radicati per discriminazione territoriale; una società che, già macchiata dai passati processi (culminati nelle prescrizioni) per le alterazioni delle potenzialità della squadra sul campo, è di fatto corresponsabile della degenerazione etica e ambientale dell’impianto sportivo di sua proprietà. Questa società, che evidentemente non può insegnare etica a nessuno, è partner dell’UNESCO, capofila al fianco dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura nella lotta alle discriminazioni nel calcio. Inaccettabile. 
Ecco perché, dopo aver scritto a quelli di Parigi, ho aperto una petizione on line contro una simile partnership per sollecitare una risposta.

Per firmare la petizione on line clicca qui

Lettera all’UNESCO: “la Juventus non può affiancarvi nella lotta al razzismo”

agnelli_unescoSe non si intende arrestare i cori contro Napoli, che almeno non si faccia paladino della battaglia contro i razzismi chi non lo è.

Lettera inviata all’UNESCO (italiano e inglese)

Gentile Comitato UNESCO,
Gentile Direttrice Generale Audrey Azoulay,

Vi scrivo in merito alla Vostra partnership con lo Juventus Football Club in tema di lotta al razzismo negli stadi.
Recentemente, lo Juventus FC ha subito un turno di squalifica del settore dello stadio occupato dai gruppi di tifosi organizzati per cori di discriminazione territoriale nei confronti di Napoli durante la partita Juventus-Napoli del 29/09/18. Si tratta di cori che si ripetono continuamente un po’ in tutta l’Italia ma più ampiamente nell’impianto sportivo del club torinese, durante ogni partita, non solo quando è in campo il Napoli. I cori invocano tragiche eruzioni del Vesuvio e l’uso del sapone da parte del popolo napoletano, definito “coleroso”, mentre invece ha insegnato l’igiene personale all’Italia e anche oltre, come ci testimonia Miguel de Cervantes con la citazione del “pregiato sapone di Napoli” nel suo Don Chisciotte.
Al termine della partita Juventus-Napoli, l’allenatore bianconero, Massimiliano Allegri, ha risposto ai giornalisti di non aver sentito certi cori, invece ascoltati in modo nitido da tutti i telespettatori a casa. La dirigenza del club ha poi incaricato il suo avvocato, Luigi Chiappero, di presentare ricorso presso la corte sportiva nazionale. Il legale ha definito il comportamento dei tifosi bianconeri “indifendibile”, ma ha contestato la sentenza perché certi cori sono tipici di tante tifoserie e non solo dei tifosi juventini, e infatti altre squalifiche sono state inflitte a diversi club in passato.
La Corte Sportiva Nazionale ha respinto il ricorso della Juventus e ha anche aggravato la sanzione: le gare da disputare con il settore interdetto sono passate a due.
Questo è il club che l’UNESCO ha abbracciato come partner nella lotta al razzismo nei stadi qualche anno fa, e che proprio ieri, sempre in tandem, ha lanciato il video “Football’s power to overcome discrimination” in occasione della campagna promossa da Fare (“Football Against Racism in Europe”), partner UEFA.
Dal sito della Juve, beffa delle beffe nella giornata della figuraccia, si legge che “la Juventus crede nel potere del calcio come strumento di lotta a ogni tipo di discriminazione, legata a sesso, razza, religione, disabilità, età, etnia, origine o status economico (…)”.

http://www.juventus.com/it/news/news/2018/il-calcio-contro-la-discriminazione–juventus-e-unesco-con–footballpeople-weeks-.php

È questo lo stesso club che nell’autunno 2012 non ha preso le distanze dai alcuni sui tifosi e da un giornalista della Rai che, all’esterno dello stadio torinese, prima di Juventus-Napoli, registravano un servizio televisivo in cui si diceva che i napoletani si riconoscono dalla puzza, come i cinesi (La Rai chiese scusa a tutti gli italiani per questo).

www.youtube.com/watch?v=eagfgenZhtc

È lo stesso club che nell’autunno del 2015 ha presentato presso la Vostra sede di Parigi la ricerca Colour? What Colour? (https://www.youtube.com/watch?v=ZbR_4r7A2NY) in cui si legge che “la decisione più saggia sulla discriminazione territoriale consiste forse nel tollerare, temporaneamente, queste forme tradizionali di insulto catartico”.
Definire “catartico” un coro discriminatorio verso altri italiani è vergognoso, così come è vergognoso invitare a tollerarlo perché “tradizionale”.

pag. 73: http://www.juventus.com/media/native/csr/Report%20UNESCO_ita.pdf

Concludendo, Vi chiedo se l’UNESCO si sia reso conto che un club che è suo partner nella lotta al razzismo non contrasta il razzismo dei suoi tifosi verso altri italiani e piuttosto prova a nasconderlo. Questo club, Vostro partner nella lotta al razzismo, ha presentato ricorso contro una sanzione per razzismo e l’ha perso malamente. Questo club è ipocrita e non può essere esempio in tema di discriminazione, soprattutto perché in Italia i cori negli stadi contro i napoletani si ascoltano più di quelli contro i neri.
Vi chiedo infine se vi siete resi conto che una partnership con lo Juventus Football Club è imbarazzante per un’organizzazione mondiale che tutela l’educazione e la cultura.
Un club che finge di lottare contro il razzismo, che non ne prende le distanze, che finge di non sentire i cori contro Napoli, che ricorre contro le punizioni per discriminazione territoriale, che si nasconde dietro a una indegna abitudine diffusa, che è presieduto da un manager squalificato dalla giustizia sportiva per connessioni con tifosi legati alla ‘ndrangheta, come si evince dell’inchiesta “Alto Piemonte”, non può essere partner dell’UNESCO.
Indignato, attendo una Vostra risposta quanto prima.
Cordiali saluti,

Angelo Forgione
Napoli

Dear UNESCO Committee,
Dear Director-General Audrey Azoulay,

I am a journalist and historical writer and researcher, with a special interest in promoting Naples and its culture.
I am writing to you with regard to your partnership with Juventus Football Club concerning the fight against racism in stadiums.
Recently Juventus FC was hit with a one-match closure of the “ultrà” fans’ stand because of territorial discrimination chants against the city of Naples during the Juventus-Napoli game (29/09/18). These chants are continuously repeated all over Italy and to an even greater degree by Juventus fans during every game, not just when SSC Napoli is playing at the Juventus Stadium. The chants refer to tragic eruptions of Vesuvius and call for the use of soap by Neapolitans, defined as “cholera people”, who instead taught personal hygiene to others in Italy and beyond, as Miguel de Cervantes teaches us with the quotation about the “prized soap of Naples” in his Don Quixote.
At the end of the Juventus-Napoli match, Juventus coach Massimiliano Allegri told journalists that he had not heard the chants, which had, however, been clearly heard by all the viewers who had been watching at home. The club’s management then instructed their lawyer, Luigi Chiappero, to appeal to the National Sports Court. The lawyer called the behaviour of the Juventus fans “indefensible”, but he argued against the sentence because certain chants are typical of many clubs’ fans and not just Juventus fans, and in fact other Italian clubs have had stand closures in the past.
The National Sports Court rejected the appeal by Juventus FC and also made the penalty more severe: the number of matches to be played with the stand closed has increased to two.
This is the club that UNESCO embraced as its partner in the fight against racism in stadiums a few years ago. Just yesterday, again jointly, it launched the video “Football’s power to overcome discrimination” as part of the campaign promoted by Fare (“Football Against Racism in Europe”), a partner of UEFA.
On the Juventus site, really taking the biscuit on the day they made fools of themselves, we read that “Juventus believes in the power of football as a tool to fight against any form of discrimination linked to sex, race, religion, disability, age, ethnicity, origin or economic status (…)”.

http://www.juventus.com/it/news/news/2018/il-calcio-contro-la-discriminazione–juventus-e-unesco-con–footballpeople-weeks-.php

It is the same club that in autumn 2012 did not distance itself from some of its fans and a RAI journalist who, outside the Juventus Stadium, before a Juventus-Napoli game, recorded a TV report stating that you can recognise Neapolitan fans from their smell, like the Chinese (Rai apologised to all Italians for this; Juventus did not).

www.youtube.com/watch?v=eagfgenZhtc

It is the same club which in the autumn of 2015 presented the Colour? What Colour? research at your Paris office (https://www.youtube.com/watch?v=ZbR_4r7A2NY), which states that “the wisest decision concerning territorial discrimination would probably be to tolerate for the time being these traditional forms of cathartic insult“.

pag. 73: http://www.juventus.com/media/native/csr/Report%20UNESCO_ita.pdf

To define as “cathartic” a racist chant directed towards other Italians is shameful, just as it is shameful to invite people to tolerate it because it is “traditional”.
In conclusion, I would ask you whether you have noticed that a club that is your partner in the fight against racism is not combatting the racism of its own fans towards other Italians and is instead hiding it. This club, your partner in the fight against racism, appealed against a racism penalty and it went very badly. This club is hypocritical and cannot serve as an example when it comes to discrimination, especially because in Italian stadiums chants against Neapolitans are now heard as often as those against black people.
Lastly, I would ask you whether you have realised that your partnership with Juventus is an embarrassment for a global organisation that safeguards education and culture.
A club which pretends to fight racism, which says nothing to distance itself from it, which pretends not to hear chants against Naples and which appeals against punishments for territorial discrimination, hiding behind a shameful widespread habit, which is chaired by a manager disqualified by the sporting court about link with supporters belonging to the mafia “ndrangheta” in the “High Piemonte” investigation, cannot be a UNESCO partner.
Indignant, I await your prompt reply.

Yours sincerely,
Angelo Forgione
Naples – IT

Juventini “napoletani” contro “torinesi”

juve_sudAngelo ForgioneL’inchiesta Alto Piemonte, di cui si occuperà la trasmissione Report il 22 ottobre, ha reso noti i rapporti tra alcuni dirigenti della società Juventus, tra cui Andrea Andrea Agnelli, ed esponenti della ‘ndrangheta piemontese, in particolare Rocco Dominello, anche capo-ultra del gruppo “I Drughi”, per la vendita di biglietti dei match allo Juventus Stadium attraverso il bagarinaggio. Il processo penale che ne è conseguito ha prodotto la condanna di Saverio e Rocco Dominello per aver fatto da intermediari all’attività di bagarinaggio, mentre il processo sportivo ha portato a una squalifica di Andrea Agnelli per un anno, poi convertita in multa.Un’informativa della Digos ha chiarito che i rapporti tra i vari gruppi della tifoseria organizzata della Juve sono davvero aspri e conflittuali da anni, tra aggressioni, regolamenti di conti e infiltrazioni della criminalità organizzata. È un risiko che si disputa conquistando pezzi di curva, in un tutti contro tutti che ha trovato una sorta di tregua quando Rocco Dominello, utilizzando una certa diplomazia, si è accreditato come affidabile interfaccia tra i gruppi ultrà e la società. Ma ora Dominello è fuori gioco e ogni gruppo, evidentemente, cerca di guadagnare campo.
Difficile capire se in questo scenario si inserisca una faida scoppiata tra un giovane gruppo di tifosi juventini, i “True Boys”, nati di recente in Germania e già con numerosi delegazioni in Italia e a Malta, e uno storico gruppo di juventini di Torino del gruppo “Tradizione”. Motivo o, chissà, forse il pretesto della guerra intestina, i cori razzisti contro la città di Napoli.
Prima del match Juve-Napoli i “napoletani” dei “True Boys” avevano chiesto ai “torinesi” di non cantare cori razzisti contro la loro terra, in nome del comune amore bianconero. Gli ultrà sabaudi se ne sono infischiati e hanno urlato ancora una volta «Napoli colera» e roba del genere, finendo per far chiudere la curva per decisione del giudice sportivo. E così quelli dei “True Boys” hanno protestato, prendendosi una sorta di espulsione dalla Curva Sud da parte dei torinesi di “Tradizione”, autori di un comunicato sui social con il quale il gruppo è stato dichiarato “inesistente” e Salvatore Licciardi, il referente di Casalnuovo di Napoli, il più impavido nel confronto-scontro, definito un “pulcinella”. Costui ha sfidato i “torinesi” e ci ha messo la faccia con una serie di lunghi video in diretta su Facebook. Rilevanti due conversazioni telefoniche a dir poco infuocate, la prima con Umberto Toja, uno dei capi storici di “Tradizione”, qualche tempo fa aggredito a colpi di spranga presso il suo bar torinese per la ritrosia a destinare parte dei proventi del bagarinaggio a una famiglia a capo della mafia calabrese radicata a Torino, e la seconda con un anonimo sgherro dall’accento calabrese o forse siciliano.

Per quel che può contare, la pagina Facebook dei giovani “True Boys” conta 145mila iscritti, mentre i più radicati di “Tradizione” non arrivano a 14mila. Conta certamente che nella curva juventina, in cui sempre più alte sono le tensioni tra le diverse fazioni, prenda posto gente di tutt’Italia, isole comprese, e ognuno, evidentemente, pretende rispetto e, soprattutto, spazio.
Nel frattempo, l’avvocato della Juventus, Luigi Chiappero, ha presentato ricorso contro la chiusura della Curva Sud dello Stadium per i cori razzisti contro Napoli definendo il comportamento dei tifosi bianconeri “indifendibile”, sì… e però lui lo difende indirettamente perché il giudice sportivo non ha applicato la condizionale prevista dal Codice di Giustizia Sportiva. Non l’ha fatto perché il fatto è reiterato ed aggravato dalla recidiva specifica.
Altro che interpretazione creativa… Lo stesso Codice, all’articolo 12 comma 6, infatti, dice chiaramente che “nei casi più gravi, da valutare in modo particolare con riguardo alla recidiva, sono inflitte (…) anche le sanzioni previste dalle lettera e dell’art. 18, comma 1 (obbligo di disputare una o più gare con uno o più settori privi di spettatori).
Tradotto in soldoni, anche il Giudice Sportivo ha valutato, precedenti alla mano, che ormai non c’è più da sospendere la pena per i cori razzisti contro Napoli allo Stadium perché, è dimostrato, scattano in automatico.
Ma Chiappero parla di disparità di trattamento e chiede l’annullamento della sanzione, invece di costituire il club parte civile contro chi lede la sua immagine. La strategia difensiva è la stessa adoperata durante lo scandalo doping e quello di Calciopoli. Così fan tutti, dissero in casa Juve. Più o meno tutti usavano farmaci, non accadeva mica solo nello spogliatoio bianconero. Più o meno tutti contattavano gli arbitri, mica solo i dirigenti juventini. Più o meno tutti cantano cori contro Napoli, mica solo i tifosi della Juve. Il che è in parte vero, come è vero che allo Stadium accade più spesso, troppo spesso, e non solo quando è di scena il Napoli.

Ancelotti senza Rolex

Angelo Forgione – Nessuna levata di scudi, ci mancherebbe, siamo abituati a ben altro. Abbiamo sentito persino Corrado Augias, uomo di cultura, aggiungere al «Venite a Napoli!» di Luigi De Magistris il suo inopportuno «Magari senza Rolex». Ma mai dimenticare che il luogo comune è un concetto superficiale dettato dal pregiudizio, e che diventa ancor più penetrante quando è usato nella satira per strappare una facile risatina. Perché far ridere non è roba proprio facile, ci vuole arte, ma arte vera. Il fatto è che il luogo comune del burlone serve al burlone stesso per riempire il vuoto di idee creative, e quando è diffamatorio finisce per rafforzare i convincimenti collettivi, e perfino l’immagine degli insultati. Insomma, la battutina ripetuta del Rolex rubato (ad Ancelotti) convince tutti che a Napoli spariscono i Rolex, ed è verissimo, ma non convince nessuno che accade in ogni parte del mondo. E da qui si passa facilmente ad Alessandro Sallusti a Matrix: «Di Maio e Fico sono napoletani, hanno il gioco delle tre carte nel sangue, fossi nel milanese Salvini starei attento». E via con le risatine, anche sui pugliesi (Conte). Come se non fosse stato il milanese Berlusconi, per esempio, a truffare i napoletani distraendo soldi dell’Isveimer (istituto creato per facilitare le imprese del Mezzogiorno) per le sue attività lombarde.
Questo è quel che si sente nelle tivù nazionali anche in una sola serata.
Certo, il luogo comune non si neutralizza mettendo a tacere il dichiarato e pericoloso nemico, e tantomeno il quasi innocuo burlone, però un’analisi della costruzione della battuta aiuta a capire la sua crisi di idee e i suoi compromessi. Come nel caso dei bravi Luca e Paolo a #qcdtg, che già sapevano di colpire basso un intero popolo, indistintamente, e di essere ironicamente scorretti, e perciò avevano già preparato il «ma no, ma che c’entra?»… «scusate»…
Excusatio non petita, accusatio manifesta… chi si scusa spontaneamente si accusa.

“Luca e Paolo shock” – leggi sul Corriere dello Sport